LE ROVINE DI MEROE
Nonostante
gli appellativi altisonanti, tra i quali si annoveravano
Perla del Mar Rosso e Città di Corallo, non è che
Suakin fosse
esattamente il Giardino delle Esperidi.
Era
un piccolo agglomerato di case fatiscenti con strade polverose,
un chiassoso mercato costantemente afflitto dal tanfo del pesce
esposto al sole e poco altro.
Da
lontano si distingueva solo per il minareto dipinto di verde e per
le innumerevoli tende di varie sfumature dal bianco al caffellatte
che costituivano l’insediamento militare britannico.
Essa
però appariva di incomparabile bellezza ai soldati che vi
arrivavano dopo aver trascorso alcuni mesi nell’inclemente
deserto
del Sudan a combattere contro i mahdisti.
Per
quanto miseranda, infatti, la cittadina era un luogo dove si
trovavano ombra e acqua, se non in abbondanza, almeno in
quantità
sufficiente ad un essere umano di poche pretese.
Aveva
inoltre l’inestimabile pregio di essere un luogo
relativamente sicuro, in cui non si doveva costantemente temere di
beccarsi una pallottola mahdista.
Dulcis
in fundo, Suakin offriva anche generi di conforto. Certo
bisognava accontentarsi, ma era pur sempre qualcosa di meglio della
carne di capra insipida e dell’acqua limacciosa delle oasi.
La
Città di Corallo, quindi, era generalmente reputata dalle
truppe
inglesi un bellissimo posto.
Di
questo parere era senz’altro il giovane tenente Eldred
Grosvenor, che si trovava lì assieme al suo reparto, il
neo-costituito British Camel Corps, in attesa di sfidare col suo
fedele e gibboso animale le silenti immensità del deserto.
Essendo
lì da poche settimane non si era mai addentrato fra le dune
per più di qualche decina di miglia, più che
altro aveva compiuto
pattugliamenti intorno alla città, ma già quelle
brevi escursioni –
due, tre giorni al massimo – gli avevano fatto apprezzare
sommamente al suo ritorno tutte le bellezze del piccolo porto
sudanese.
C'era
il gin & tonic, per esempio. Non che il gin usato per
prepararlo fosse eccellente – era un inquietante intruglio
che per
chissà quale via traversa dell'intendenza militare arrivava
fin lì
da Bangalore – comunque accompagnato ad un'adeguata dose di
acqua
tonica e limone si lasciava persino bere. Non c'era ghiaccio, ma gli
addetti al circolo ufficiali conservavano le bottiglie sul fondo di
una specie di pozzo, per cui la temperatura delle bevande, paragonata
a quella esterna, era accettabilmente fredda. La vita è una
questione di relatività, in fondo.
C’erano
anche altri generi di conforto, ovviamente, ma il giovane
ufficiale si dedicava con entusiasmo al primo, sostenendo che la
bevanda lo aiutava a meditare. Interrogato sull’argomento di
tali
meditazioni, era solito fornire risposte evasive che avevano a che
fare con la vita e i massimi sistemi.
Grosvenor
stava giusto meditando
all’approssimativa ombra di
un palmizio quando vide passare il tenente John Greenfield della
cavalleria leggera.
L’ufficiale
era vestito di tutto punto, con tanto di borracce
d’acqua e mappa della zona sottobraccio, e stava conducendo
per le
redini il suo cavallo bardato come se avesse dovuto arrivare fino
alle sorgenti del Nilo.
“Salve
collega,” lo apostrofò, levando il bicchiere nella
sua
direzione in un elegante gesto di saluto, “dove ve ne andate
di
bello?”
Provava
un’istintiva simpatia per il tenente Greenfield, e
stranamente la cosa non aveva nulla a che fare con certi suoi gusti.
O meglio, non che avrebbe disdegnato di portarselo a letto se
l’occasione si fosse presentata, ma poiché
l’occasione aveva
tutta l’aria di non volersi presentare, se n’era
fatto
allegramente una ragione e si limitava ad una cameratesca amicizia.
Greenfield
si fermò. “Ho la giornata libera. Vado a visitare
delle
rovine,” gli disse, rivolgendogli un sorriso vagamente
imbarazzato.
Lo guardò aspettandosi che lo deridesse o mettesse in dubbio
la sua
salute mentale come probabilmente doveva aver fatto ogni altro
militare della guarnigione.
Grosvenor
invece gli restituì il sorriso e disse: “Rovine?
Che
bisogno c’è di prendere il cavallo per vederle?
Qui è pieno di
rovine.”
Con
gesto ampio indicò la città, dove in effetti
almeno un terzo
degli edifici era costituito da fatiscenti vestigia di un passato che
doveva essere stato molto più opulento del presente.
Il
circolo ufficiali che in quel momento stava dissetando Grosvenor
era la metà diroccata di un palazzo in stile moresco che
doveva
risalire perlomeno a due secoli prima. I blocchi di corallo bianco
che lo componevano spuntavano dall’intonaco scrostato come
ossa
calcinate.
“Questa
è una rovina, per esempio,” continuò
indicando la
costruzione, “e bella grossa. Potreste contemplarla mentre
bevete
un gin tonic in mia compagnia. Scommetto che anche il vostro cavallo
ve ne sarà grato, povera bestia.”
Greenfield
abbassò lo sguardo. “No, grazie. Siete molto
gentile ma
preferisco non bere alcolici con questo clima.”
“Sciocchezze,”
rise Grosvenor, “un po’ di sano alcol fa bene
con qualsiasi clima. Però vi do ragione, bere questo gin
è un vero
attentato alla salute. Secondo me lo fanno i mahdisti distillando le
ossa dei loro santoni e poi ce lo spacciano come proveniente
dall’intendenza militare. È il loro modo di
eliminare le truppe
inglesi.”
Finì
il bicchiere in un unico lungo sorso, poi disse: “Ma a parte
gli scherzi, Greenfield, dove ve ne andate così
equipaggiato?”
“La
gente del posto dice che a nord-ovest c’è
un’oasi con
delle rovine antiche, vorrei andare a visitarle.”
Lo
sguardo di Grosvenor assunse una vaga parvenza di serietà.
“Mica
vorrete andarci da solo, vero?”
s’informò.
“Sì,
perché?” Di fronte allo sguardo critico
dell’altro,
Greenfield si giustificò: “Nessuno dei colleghi
voleva
accompagnarmi.”
“Com’è
possibile?”
“Sembra
che non provino grande interesse per l’archeologia.”
“Valli
a capire,” sospirò Eldred. Poi tornando
approssimativamente serio aggiunse: “Collega, non
è il caso che vi
avventuriate da solo là in mezzo. È pieno di
mahdisti.”
“No,
non vengono fin qui, è troppo vicino alla guarnigione
inglese. E poi starò attento.”
“Non
dubito che starete attento, ma credo sia meglio che portiate
qualcuno con voi. Anzi, verrò io stesso!” E senza
dare all’altro
il tempo di replicare aggiunse: “No, non
c’è bisogno che mi
ringraziate, è un piacere aiutare un collega in
difficoltà. Dove
avete detto che andiamo?”
“Oasi
di Ar’bat, quindici miglia a nord-ovest della
città. Ma
davvero, non vi disturbate, tenente Grosvenor.”
“Assolutamente
nessun disturbo! Solo il tempo di trovarvi un
cammello decente e sono a vostra disposizione. Sapete montare uno di
quegli animali, spero.”
“Ma
io…”
“Beh,
siete un cavalleggero, è chiaro che sapete farlo. In fondo
non è tanto diverso da un cavallo, se non si tiene conto
della
gobba.”
“Veramente
io vorrei andare con il mio cavallo.”
“Giammai.
Volete azzoppare quella povera bestia? In mezzo alle dune
ci vuole un dromedario.”
“Che
rovine sarebbero quelle che andiamo a vedere?”
Greenfield
esitò qualche secondo prima di rispondere. Non aveva
ancora preso confidenza con l'andatura ondulatoria del Camelus
Dromedarius e aveva
l'impressione di trovarsi sulla coperta della
Victory durante
la battaglia di Trafalgar.
“Potrebbero
essere le rovine di un insediamento collegato al regno
di Kush,” disse infine.
Grosvenor
andò a frugare tra le sue sparpagliate reminiscenze
scolastiche, ma non trovò nulla di interessante.
“Il regno di
Kush?” ripeté perplesso.
“Un
regno che si è sviluppato lungo il Nilo dall'800 al 350
Avanti
Cristo. Ne parla anche la Bibbia.”
“Ah,
allora siamo a posto,” commentò Grosvenor con un
sorriso
ironico, quindi aggiunse: “Non sono una cima in geografia, ma
mi
risulta che il Nilo sia piuttosto distante da qui, collega.”
“È
vero,” ammise l'altro, “ma ho potuto vedere una
statua che
i locali hanno preso in quell'oasi, e lo stile è del tutto
simile a
quello dei reperti rinvenuti a Meroe. Quelli che ho visto sui libri,
voglio dire.”
Così
parlando il tenente Greenfield aveva in parte abbandonato il
suo contegno schivo e lasciava trasparire una gioiosa aspettativa.
“Se riuscissi a confermare che tra i due insediamenti vi sono
delle
correlazioni sarebbe una scoperta straordinaria,” disse con
un
brillio di entusiasmo negli occhi.
“È
per questo che avete con voi tutto quel materiale da
disegno?”
chiese Grosvenor occhieggiando la voluminosa cartella che l'altro
aveva a tutti i costi voluto portarsi dietro.
“Ho
intenzione di fare una mappa del sito e qualche schizzo.”
“Sapete
anche disegnare, Greenfield?”
“Un
po'.” Il cavalleggero lo confessò vagamente
imbarazzato,
come se si trattasse di una cosa assai sconveniente.
“Beato
voi, io non so nemmeno tenere in mano una matita dalla parte
giusta.”
Continuarono
a cavalcare fianco a fianco in silenzio. I dromedari
producevano un soffice scalpiccio sulla sabbia, che unito al tinnire
dei finimenti e allo scricchiolio del cuoio delle selle era l'unico
rumore che si sentiva. Il sole picchiava spietatamente e il cielo era
un'uniforme distesa di smalto turchese.
“Mi
piace il deserto,” disse Greenfield guardandosi intorno.
Erano ormai lontani dalla città, e tutt'intorno c'erano solo
dune di
varie tonalità dall'ocra al crema, che diventavano color
terra di
Siena bruciata in lontananza e infine cinabro e indaco scomparendo
all'orizzonte. Qua e là crescevano arbusti contorti.
“Guardate,
una gazzella!” esclamò Grosvenor puntando il dito
verso una bestiola simile a un daino.
Greenfield
la seguì con lo sguardo mentre si allontanava saltando
agilmente. “Mi chiedo dove trovino da mangiare, povere
bestie,”
disse.
“Probabilmente
nell'oasi dove stiamo andando.” rispose l'altro.
Controllò ancora una volta la bussola e aggrottò
le sopracciglia.
Considerando
che alla partenza Grosvenor non era esattamente sobrio,
Greenfield ebbe la fugace e raccapricciante visione di due scheletri
in uniforme britannica dispersi nel deserto del Sudan con accanto una
cartella da disegno e un bicchiere (vuoto) di gin tonic.
“Siete
sicuro che sia la direzione giusta?” azzardò.
“Certo
che lo sono,” rispose l'altro, “è questa
dannata
bussola che non vuole decidersi a mostrarla come si deve.”
Mio
Dio,
pensò allarmato Greenfield. Cominciava a temere di
aver fatto il più grosso errore della sua vita ad accettare
la
compagnia di Grosvenor. Immaginò sua madre in gramaglie che
riceveva
la comunicazione della sua morte. Disperso
nel deserto. La Patria
vi ringrazia.
“Fatemi
vedere quella bussola, volete?” chiese cautamente
tendendo la mano.
L'altro
sorrise. “Scherzavo,” gli rispose,
“questa bussola
funziona perfettamente. Era solo per ravvivare un po' la
traversata.”
“Cosa?
Volete dire che non ci siamo persi?”
“Alla
pelle ci tengo, collega. Facciamo una corsa coi cammelli?”
“Cosa?”
“Coraggio,
è facile. Basta stringere le ginocchia, il resto lo
fanno tutto loro. A chi arriva prima a quella roccia là in
fondo?”
“Ma
neanche per sogno!” protestò Greenfield dopo un
attimo di
stupore, “ho qui l'inchiostro, i fogli, i pennini e tutti gli
strumenti di misura. Rischierei di fare un disastro.”
L'altro
si strinse nelle spalle. “Va bene,”
brontolò, “niente
gara.” Poi, dopo una pausa: “Lo sapete
perché i dromedari girano
sempre con quell’aria di sussiego? Intendo dire, con la testa
alta
e tutto quanto.”
“No,
perché?”
“Gli
arabi dicono che è per via del fatto che solo loro conoscono
il centesimo nome di Allah.”
“Davvero?”
“Sì,
dicono che sono così sdegnosi perché se ne
vantano. Come se
a un dromedario gli potesse fregare qualcosa del centesimo nome di
Allah.”
“E
quale sarebbe?”
“Ah,
non lo so. Lo sanno solo i dromedari.”
Questa
volta Greenfield non poté impedirsi di scoppiare a ridere.
Grosvenor
pensò che era davvero carino quando rideva, poi per
distrarsi da quel pensiero alzò il binocolo e
scrutò l’orizzonte.
Indicò una specie di puntino in lontananza e disse:
“La nostra
oasi. Era ora, cominciavo a temere che sarei finito arrosto.”
Porse
lo strumento al collega. “Volete dare
un’occhiata?”
L’altro
cercò di utilizzarlo, ma il dromedario ondeggiava a tal
punto che dopo un po’ glielo restituì
accontentandosi di guardare
a occhio nudo. “Ora so perché preferisco i
cavalli,” brontolò.
“I
cammelli sono brave bestie,” gli rispose Grosvenor,
“sono
brutti come la fame, ombrosi e scoordinati, si direbbe che Dio li
abbia creati in un momento di profondo malumore, eppure non
c’è
niente di meglio per attraversare un deserto. Lo sapete che possono
bere fino a venticinque galloni d’acqua in dieci minuti?
Vorrei
poter fare la stessa cosa col gin tonic.”
L’oasi
di Ar’bat cominciò a delinearsi
all’orizzonte. Il
puntino divenne una macchia e pian piano il suo indefinito colore
scuro si rivelò un insieme di tonalità di verde.
Comparvero le
palme da datteri, e tra esse mura diroccate color ocra.
“Sembra
che le rovine dopotutto ci siano,” disse Grosvenor.
“Ne
dubitavate?”
“Diciamo
che i locali hanno un concetto della verità piuttosto
elastico.”
Si
avvicinarono ulteriormente. A parte lo stormire lieve delle
fronde, il luogo era perfettamente silenzioso, tanto che lo
scalpiccio dei due cammelli sembrava il fragore di un esercito in
marcia. “Ha l’aria di essere disabitata,”
constatò Greenfield.
Annullata
la distanza, le piante che da lontano sembravano rigogliose
apparvero rade e inselvatichite. I canali d’irrigazione,
semidiroccati e ingombri di detriti, erano secchi. Qua e là
si
notavano le vestigia di abitazioni ed entrambi si resero conto che
erano quelli i muri color ocra che avevano visto avvicinandosi.
“Mi
avevano detto che c’erano delle statue,”
protestò
Greenfield deluso. Nonostante tutto si guardava ansiosamente intorno,
alla ricerca delle agognate rovine.
“Forse
saranno qui in giro,” rispose l’altro con tono
rassicurante, “ci riposiamo un po’
all’ombra e andiamo a fare
una piccola ricognizione, che ne dite?”
Non
pensava che lì intorno ci fossero rovine antiche,
chissà
cos’avevano visto o creduto di vedere i sudanesi con cui
Greenfield
aveva parlato, però il collega aveva assunto
un’espressione così
avvilita che Grosvenor gliene avrebbe volentieri costruita una di
sana pianta, per il solo gusto di vederlo sorridere di nuovo.
Smontarono
dalle rispettive cavalcature, gironzolarono un po’ in
una specie di radura circondata da palme. Anche all’ombra il
caldo
era opprimente e non si muoveva un filo d’aria.
“Che silenzio,”
disse Greenfield guardandosi intorno. Non era mai stato in
un’oasi
e probabilmente se l’era immaginata diversa. Più
simile a quelle
che aveva visto nei libri illustrati, magari. Con più verde,
campi
coltivati e una generale impressione di frescura che lì
mancava
completamente.
Diede
un calcio a un sasso polveroso e ripensò alla gazzella che
avevano visto poco prima. Chissà se sarebbe venuta
lì a bere? Ma a
bere dove, poi?
“Non
vedo la sorgente,” disse a voce alta.
“Là
in fondo.” Grosvenor indicò una macchia di
vegetazione
particolarmente fitta e rigogliosa. “Anzi, facciamo bere i
dromedari, già che ci siamo. È sempre meglio
averli pieni.”
Condussero
i due animali alla pozza d’acqua e mentre essi si
dissetavano si sedettero poco lontano, su una pietra liscia che aveva
tutta l’aria di essere stata in tempi antichi un architrave o
un
sedile.
“Magari
ci stiamo appoggiando il deretano, sulle rovine,” disse
Grosvenor, picchiettando con le nocche il blocco di pietra.
“Dite
che questo è tutto ciò che resta
dell’insediamento?”
Il
primo si strinse nelle spalle. “Almeno non perderete troppo
tempo a fare gli schizzi e la mappa.”
“No,
sono sicuro che ci dev’essere
qualcos’altro.”
“D’accordo,
frugheremo quest’oasi da cima a fondo e troveremo
ogni singolo sasso nabateo presente.”
“Nabateo?
Che c'entrano i nabatei?”
“Sono
nella Bibbia.” Poi, dopo una pausa: “Ci sono, vero?
In
ogni caso intendevo dire le rovine di quel regno che avete
menzionato. Ma prima mangiamo qualcosa, sto morendo di fame. E di
sete.”
Consumarono
le provviste che si erano portati dietro. Greenfield, che
era ansioso di cominciare le ricerche, mangiò in fretta e
furia e
buttò giù qualche sorso d’acqua. Quando
si dichiarò pronto,
Grosvenor era ancora a metà del pasto. “Aspettate
un attimo,”
protestò, “ho bisogno di calma, se mi fate
mangiare troppo in
fretta mi viene l’ansia. Sono una creaturina cagionevole,
io.”
“Mentre
voi finite vado a cercare le rovine.”
“Hanno
aspettato per venti secoli, non credo che venti minuti in
più o in meno facciano una gran differenza. Venite a bere un
altro
po’ d’acqua piuttosto.”
“No,
davvero. Siete molto gentile ma preferisco fare un giro qui
intorno.”
Senza
attendere risposta Greenfield si allontanò verso est con la
sua cartella sottobraccio.
“Bah,
cavalleria,” commentò il tenente Grosvenor
fissando le
frasche tra cui l’altro era sparito “sono troppo
agitati, non
riescono mai a starsene fermi in santa pace.”
Finì
di mangiare con tranquillità, poi si alzò e si
stirò
voluttuosamente. Ora bastava dare sfogo alla natura e poi sarebbe
stato un pomeriggio decisamente perfetto. Si addentrò fra le
piante
con tutte le intenzioni di irrigare l’arido suolo desertico,
e
poiché il collega si era diretto verso est ebbe la
delicatezza di
andare a ovest.
Fatti
pochi passi, salì su una piccola cresta e una volta che fu
in
cima si offrì ai suoi occhi uno straordinario spettacolo: in
un
avvallamento naturale del terreno vi era una distesa di magnifiche
rovine. Non avrebbe saputo dire se fossero quelle che stava cercando
Greenfield, ovvero le vestigia del regno di Vattelapesca, ma di
sicuro erano un’incredibile scoperta archeologica.
Ebbe
naturalmente l’impulso di andare a chiamare subito il
collega,
ma poiché in quel momento anche un altro impulso, di natura
corporale, si stava facendo prepotentemente sentire, decise di
soddisfare per primo quello.
Si
mise dunque in una posizione dalla quale avrebbe potuto vedere
bene le rovine, e contemplandole con fare ameno si accinse a svuotare
la vescica.
Nel
corso dell'operazione lasciò vagare lo sguardo assorto
sull'avvallamento: vi era un edificio principale che senza dubbio
doveva essere stato un tempio. Gli ornamenti delle pareti erano quasi
completamente scomparsi, ma restava ancora un
bell’assortimento di
statue umane ed animali. Intorno c’erano altre costruzioni
più
piccole, una specie di piramide, un buco tondo che poteva essere un
pozzo e bandiere nere.
Grosvenor
rimase interdetto. Bandiere nere?
Le
bandiere nere sono quelle dei mahdisti, si disse.
Fece
scorrere di nuovo lo sguardo sulle rovine, e questa volta si
premurò di farlo con l'occhio del soldato e non con quello
dell'archeologo: rifiuti, escrementi, impronte di animali, i resti di
un bivacco. Un paio di piedi umani che spuntavano da dietro una duna!
“Oh,
cazzo,” mormorò.
Ora
che guardava meglio, riusciva a scorgere mahdisti dappertutto.
Decine, addirittura centinaia, tutti accampati tra le rovine. Non
sapeva per quale miracolo non si fossero ancora accorti di lui, ma
sospettava che non fosse il caso di sfidare ulteriormente la sorte.
Greenfield! fu il
primo pensiero che gli attraversò la mente.
Il
tenente Greenfield era in giro a cercare reperti, serenamente
inconsapevole di trovarsi nel bel mezzo di un covo di mahdisti
assetati di sangue.
Se
li avessero presi li avrebbero uccisi, con ogni probabilità
in
maniera lenta e dolorosa, godendosi la loro agonia come la gente
normale si sarebbe goduta uno spettacolo di teatro il sabato sera.
Si
ricompose e scivolò via più silenziosamente che
poté.
Stava
giusto per sospirare di sollievo quando alle sue spalle
echeggiò un grido allarmato: l'avevano scoperto.
“Maledizione!”
ringhiò. Non c'era bisogno di scomodare von
Clausewitz per stabilire che l'unica cosa da fare era tagliare la
corda più velocemente possibile.
“John!”
urlò, alle sue spalle echeggiarono altre grida e qualche
colpo d'arma da fuoco “John! Qualsiasi cosa stiate facendo,
fosse
anche disseppellire il pitale di Re Salomone, smettete di farla e
saltate sul vostro cammello!”
John
Greenfield sedeva nel folto di una macchia. Aveva finalmente
ritrovato la gazzella e in mancanza di rovine la stava ritraendo.
La
bestiola, che non si era accorta della sua presenza, aveva brucato
per un po' i radi fili d'erba poi si era accucciata, ed era
così
immobile che sembrava quasi si fosse messa in posa apposta per lui.
Le
grida di Grosvenor la fecero saltare in piedi e scomparire tra le
frasche proprio quando il disegno stava per essere ultimato.
Greenfield
si girò con un sospiro verso la provenienza dei clamori.
Il suo collega era un caro ragazzo, simpatico e generoso, ma alle
volte era davvero troppo espansivo.
In
quel momento Eldred Grosvenor saltò fuori da una macchia di
vegetazione come un tappo di champagne.
“Per
fortuna che vi ho trovato!” ansimò,
“muovetevi, non c'è
un minuto da perdere!”
“Che
succede?”
“Mahdisti!
Decine, centinaia di Mahdisti. Tutto il dannato esercito
di Osman Digna.”
“Cosa?
Qui?”
“No,
a Piccadilly Circus! Muovetevi, tagliamo la corda finché
siamo in tempo!” esclamò Grosvenor per tutta
risposta.
L'altro
non trovò nulla da eccepire nella proposta ed entrambi
corsero alla radura dove avevano lasciato gli animali.
Vi
giunsero contemporaneamente ad un nutrito gruppo di mahdisti. Ci
fu un istante di immobilità cristallizzata in cui i due
ufficiali e
gli uomini del Mahdi si fissarono attoniti, poi Grosvenor
afferrò il
collega per un braccio e partì di corsa verso i dromedari.
“Non
alzatevi in piedi, bastardi!” urlava rivolto ai due animali.
Essi
gli rivolsero uno sguardo infastidito continuando a ruminare.
Inseguiti
da una torma di sudanesi schiamazzanti, i due balzarono
sulle rispettive cavalcature. “Adesso in piedi, dannato sacco
di
pulci!” esclamò Grosvenor, annaspando per
agguantare le redini.
“Ehi,
come si fa a far alzare in piedi questo coso?”
domandò
Greenfield.
L'altro
gridò una parola in arabo e le bestie si sollevarono
mandando orrendi bramiti, poi rimasero ferme con aria di sussiegoso
fastidio.
“Un
altro motivo per preferire i cavalli, dannazione!”
imprecò
Greenfield, che aveva quasi rischiato di essere disarcionato nel
movimento.
“Tenetevi
stretto!” disse l'altro per tutta risposta.
“Ma
se sono fermi!” replicò il primo, fissando
preoccupato il
nutrito gruppo di mahdisti che si stava dirigendo verso di loro.
Echeggiò qualche sparo.
Me ne
devo crepare seduto su un cammello fermo,
pensò
angosciato il tenente di cavalleria, mentre immaginava i commenti dei
colleghi alla notizia di un simile decesso.
In
quel momento Grosvenor gridò qualcosa che somigliava a Hathathat!
e calò con forza una canna d'India sui quarti posteriori del
dromedario di Greenfield.
Immediatamente
i due animali partirono pancia a terra galoppando come
se avessero avuto il diavolo alle calcagna, mentre alle loro spalle i
mahdisti appiedati sparavano urlando.
Con
le pallottole che fischiavano nelle orecchie, gli inglesi
facevano del loro meglio per stare in sella ai dromedari.
“Sembra
di essere su un carro con le ruote quadre!”
protestò
Greenfield sobbalzando. Non aveva altro a cui tenersi che il pomo
della sella, e a quello era aggrappato come se fosse in bilico su un
precipizio. “Il mio regno per un cavallo,”
grugnì all'ennesima
botta dell'arcione contro i suoi attributi.
“Resistete,
Greenfield, li stiamo seminando!” esclamò
Grosvenor
con il consueto ottimismo.
Con
una certa fatica l'altro si girò e vide che in effetti
stavano
distanziando gli inseguitori. Considerò sgomento che non
sapeva come
fare per rallentare il dromedario. Che faccio, si chiese
perplesso, aspetto
che si stanchi? Rischio di arrivare a Suakin
così. Speriamo che almeno si fermi quando arriva al mare.
Giusto
per scrupolo si guardò di nuovo alle spalle. “Devo
darvi
una notizia, Grosvenor,” disse.
“Sì,
cosa?”
“Ci
inseguono.”
“A
piedi? Lasciate che corrano. Ormai saremo fuori tiro.”
In
quel momento una pallottola passò ronzando tra i due.
Grosvenor
assunse un'espressione addirittura costernata. Si girò e
vide che alle loro spalle vi era un gruppo di mahdisti montati su
dromedari. “Cazzo, ci inseguono!”
protestò.
“Era
quello che intendevo dire,” rispose Greenfield.
“D'accordo,
non facciamoci prendere dal panico,” disse Grosvenor
dopo un po', “mica possono arrivare fino a Suakin.”
“Ritengo
che il loro obiettivo sia catturarci prima che ci
arriviamo noi,” rispose l'altro.
“E
che se ne fanno di due inutili tenenti?”
“Tanto
per cominciare evitano che gli inutili tenenti riferiscano
che l'oasi di Ar'bat è piena di mahdisti.”
“Acuta
osservazione, collega.”
Questa
conversazione da strateghi del Quartier Generale si stava
svolgendo da un dromedario al galoppo all'altro, con nutrite scariche
di fucileria che crepitavano alle loro spalle.
“La
mira in groppa a un cammello è pessima,” disse
Grosvenor con
tono rassicurante, e in quel momento una pallottola gli bucò
la
borraccia, che era appesa a due pollici dalla sua coscia.
“Beh,
quasi sempre,” precisò.
I
nemici dietro di loro erano una ventina, troppi per avere qualche
speranza di cavarsela in uno scontro. L'unica cosa da fare era
continuare a correre sperando che prima o poi si stancassero e
rinunciassero all'inseguimento.
“Non
ci lasceranno mai andare,” disse Greenfield esprimendo ad
alta voce il pensiero di entrambi, “non possono rischiare che
riferiamo al Comando quello che abbiamo visto.”
“Non
ci hanno ancora presi, comunque,” replicò l'altro.
“Quanto
può correre un dromedario?”
“Stiamo
per scoprirlo.”
“Volete
dire che non lo sapete?”
“Non
l'ho mai reputata una nozione fondamentale per un gentiluomo.”
L'ennesimo
susseguirsi di spari costrinse i due a ritirare la testa
fra le spalle. “Questa gente non è affatto
sportiva,” protestò
Grosvenor con aria offesa.
La
disordinata fuga continuò, sollevando un nuvolone di polvere
nell'aria immota del deserto. I mahdisti stavano guadagnando terreno.
Il gruppo si era allungato ed era diventato simile ad una rada
colonna, solo quelli più vicini ai due inglesi sparavano, ma
i colpi
stavano diventando sgradevolmente precisi.
“Giuro
che se ne esco intero mi prendo una sbronza di tre giorni,”
brontolò Grosvenor, frustando il suo esausto dromedario.
“Non
che sia una cosa insolita per voi,” commentò
Greenfield.
“Giusto.
Una sbronza di una settimana.”
L'altro
non poté evitare di sorridere fra sé e
sé. Le persone
normali in situazioni del genere si raccomandavano a Dio promettendo
buone azioni in cambio dell'aiuto, Grosvenor invece faceva voto di
ubriacarsi.
“Beh,
se ne usciamo penso che una bevuta me la farò
anch'io,”
disse.
“Ci
sbronzeremo insieme allora.”
Probabilmente
quello era il modo giusto di rivolgersi alla divinità,
perché un attimo dopo spuntò da dietro una duna
una pattuglia del
British Camel Corps in missione esplorativa, probabilmente attirata
sul posto dalla colonna di polvere sollevata dall'inseguimento. A
quella vista i mahdisti capirono che la situazione si metteva male.
Spararono qualche altro colpo giusto per non fare la figura dei
conigli, poi fecero un brusco dietro front e ripartirono verso
l'oasi.
I
nuovi arrivati si mossero per inseguirli, ma i due ufficiali li
fermarono. “Dobbiamo riferire al comando che l'oasi di Ar'bat
ospita alcune compagnie di mahdisti,” disse Greenfield,
preciso
come al solito.
“I
mahdisti? Qui?” chiese stupefatto il tenente che comandava la
pattuglia.
“Tutto
il dannato esercito di Osman Digna,” precisò
Grosvenor.
“Sarà
il caso di riferirlo al comando, allora.”
“Direi
di sì.”
I
due rientrarono a Suakin increduli di essere ancora vivi, tutti
d'un pezzo e senza altri buchi a parte quelli che la Natura aveva
fornito loro alla nascita.
Mentre
John Greenfield voleva riferire subito al comandante della
guarnigione quello che avevano visto, Grosvenor si diresse deciso
verso il circolo ufficiali.
“Non
venite con me, Eldred?” chiese stupito il cavalleggero.
“No
di certo, il vecchio penserebbe che sono ubriaco – e sarebbe
una maligna insinuazione, dal momento che non lo sono ancora
–
e non crederebbe a una sola parola di quello che dico. Io vado al
circolo, così mi metto avanti col lavoro. Ho detto che sarei
stato
sbronzo per una settimana e intendo tenere fede da subito all'impegno
preso.”
“Però
siete stato voi a vederli.”
“Li
avete visti anche voi, mi pare.”
“Sì,
certo. Ma voi avete visto anche il loro accampamento.”
Grosvenor
fece spallucce. “Oh, niente di che. Bivacchi, bestie da
soma. Qualche tenda in mezzo alle rovine…”
“Rovine?”
lo interruppe Greenfield fissandolo ansioso.
Di
fronte a quello sguardo anelante Grosvenor non ebbe cuore di dire
la verità. “Beh… due sassi,”
borbottò, “niente di che.
Sassi polverosi. Anzi, se non fossi stato attento non mi sarei
neppure accorto che erano rovine.”
“Non
c’erano piramidi?”
“No.
Neanche mezza.”
“Statue?”
“Figurarsi.
Era solo un mucchio di sassi.”
“Avrei
comunque voluto vederli” sospirò l’altro
deluso.
“Oh,
non vi siete perso niente, collega,” gli assicurò
Grosvenor, cercando di distogliere il pensiero da quanto Greenfield
fosse carino anche con quell’aria triste. “Proprio
niente. Ne
sareste rimasto assolutamente insoddisfatto, ve lo
garantisco.”
“Davvero?”
“Sul
mio onore,” rispose Grosvenor, facendo del suo meglio per
assumere un’espressione di totale sincerità.
L’altro
sospirò di nuovo. “Beh, questo mi
rincuora,” disse
dopo un po’, “almeno non avrò il
rimpianto di essermi perso
qualcosa di bello.”
“Potete
giurarci. Solo sassi polverosi. Così polverosi che mi
hanno fatto venire voglia di un gin tonic.”
“Voi
avete sempre voglia di un gin tonic.”
“È
una maligna esagerazione. Quando dormo non bevo, per esempio.”
I
due ufficiali riferirono quanto avevano visto, e questa forse
è la
ragione per cui i libri di storia non riportano battaglie intorno a
Suakin.
Probabilmente
perché vistisi scoperti, i mahdisti preferirono
dedicarsi ad altri obiettivi.
Quello
che possiamo dire con certezza è che Grosvenor fece del suo
meglio per tenere fede al voto formulato con tanto fervore durante la
sua precipitosa fuga dall’oasi di Ar’bat.
Il
tenente Greenfield venne meno al suo proposito di non bere
alcolici nei climi caldi, ma il gin di Bangalore si rivelò
superiore
alla sua abnegazione ed egli si limitò a un paio di brindisi
con il
collega, rimanendo peraltro sobrio come un reverendo.
Delle
rovine non sappiamo nulla, e la teoria che il regno di Kush si
estendesse fino ai confini occidentali del Sudan attende ancora una
conferma.
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