roba 3
GRAVITÀ
[ I've been screaming on the
inside
And I know you feel the pain
Can you hear me?
Can you hear me? ]
Evanescence - Change
«
Goku vuole vederti. Ha chiesto espressamente di te. »
Un
brivido attraversò la schiena di Vegeta come una scossa
elettrica, le viscere contratte in uno spasmo doloroso, un sentore di
nausea
che gli fece perdere l’equilibrio. Sapeva cosa significava,
lo sapeva da tempo,
e non poteva accettarlo. La voce di Bulma penetrò la Gravity
Room come se non vi fossero muri, non aveva avuto nemmeno bisogno di urlare, le
orecchie del
Saiyan erano tese a recepire la minima informazione.
«
Per favore, Vegeta. Goku sta morendo. »
Un
sussurro talmente flebile da confondersi nell’aria. Ma
lui lo percepì comunque, paralizzandosi
all’istante, il corpo come un blocco di
ghiaccio di fronte alle sfere luminose che sparavano proiettili di
energia
liquida. Fu colpito da una scarica di colpi e si schiantò
rovinosamente a
terra, la battle suit sgualcita, madida di chiazze di sangue che si
aprivano
crudeli sulla sua pelle coriacea. Non emise neppure un gemito,
osservato dalle
sfere che ondeggiavano perplesse, come se fossero sorprese dalla
facilità nel
colpirlo. Non aveva provato nessun dolore, la sua bocca era serrata in
un
silenzio talmente profondo da fargli venire il dubbio che le sue corde
vocali
fossero state strappate.
In
realtà non aveva alcun bisogno delle notizie di quella
terrestre, sentiva la sua aura diminuire da giorni, da settimane, si
era
ritrovato ad analizzare quelle fluttuazioni anche di notte, rigirandosi
nel
letto mentre guardava il cielo dalle finestre della Capsule
Corporation. La
vita del suo rivale era appesa ad un filo e ogni giorno sentiva quel
filo divenire
sempre più flebile, ridotto ormai ad una catena di molecole,
lieve come un
soffio di vento, sfibrata da un maleficio peggiore di qualunque
combattimento.
E ora quella vita tanto preziosa non era che una minuscola pulsazione,
impercettibile come quella degli umani che popolavano come formiche il
mondo.
«
Vegeta ti prego... vieni. »
Un
ultimo sussurro, corroso dai singhiozzi, a cui non seguì
nessuna risposta. Passarono secondi interminabili, forse minuti, fino a
quando
Vegeta sentì i passi della donna allontanarsi, erano
incerti, quasi zoppicanti,
poi il rombo del motore di un elicottero alzarsi in volo. La vide
dall’oblò
girarsi per l’ennesima volta per controllare se fosse uscito
dall’edificio. Ma lui
rimase immobile sul pavimento, il cervello svuotato di ogni pensiero.
Era
diventato difficile discernere la sua aura, sempre più
debole. Non poteva essere lui, non poteva essere il suo rivale, la
persona che
odiava di più al mondo, annientato come un animale, come un
misero terrestre,
non poteva essere lui. Non era una morte onorevole per un guerriero
Saiyan
morire in un letto, deflagrato dall’interno per nessun motivo
apparente: anche
in questo si era dimostrato una terza classe, un vero idiota. Vegeta
strinse i
pugni, era inaccettabile, un’ingiustizia. Era sicuro che
all’ultimo momento la
sua forza sarebbe riapparsa, che avrebbe trovato il modo di
sopravvivere, che
avrebbe ritrovato la sua voglia di combattere e ce l’avrebbe
fatta. Dovette
riconoscere che Kakaroth ce la faceva sempre, era un vero eroe
dell’inaspettato, riusciva dove tutti fallivano, arrivando
sempre al momento
opportuno. Indubbiamente sarebbe riuscito anche questa volta.
Vegeta
continuò ad allenarsi, distratto, finendo per farsi
colpire ancora una volta dalle sfere luminose. Cercò con
tutta la sua
concentrazione di rinchiudere nei meandri lontani della sua testa quel
tarlo,
talmente acuto da perforargli i timpani.
Ma
il silenzio arrivò, fatale, trapassandolo come una
coltellata. Qualcosa si spense. Il ronzio brulicante di vita che si
espandeva
intorno a lui per migliaia di chilometri era mutato divenendo
dissonante, quasi
inquietante, come se una nota fosse stata bruscamente sradicata dalla
melodia.
Il
cuore di Vegeta perse un battito, deflagrando dentro il
suo petto in uno spasmo doloroso. Un’oscurità
algida si espanse dentro di lui,
riempiendo tutte le sue cavità. Non sentiva nulla, nessuna
parola si stagliava
nella sua mente, nessuna immagine, come se qualcosa fosse morto anche
dentro di
lui. Apatico come un robot si scaraventò fuori dalla Gravity
Room, volando
verso la casa di Kakaroth come attratto da una forza magnetica.
Spalancò
la porta di casa sua senza curarsi nemmeno di
controllare la propria forza. Il frastuono della porta, divelta dai
cardini,
che si schiantava a terra fu assordante in quel silenzio di morte.
C’erano
tutti, raccolti intorno alla salma del Saiyan, disteso nel letto. I
loro
sguardi pieni di dolore, colmi di lacrime, lo trapassarono. Chichi era
inginocchiata accanto al letto, il viso stravolto dal pianto,
abbracciata a
Gohan che cercava di sostenerla. Piccolo lo salutò con un
cenno del capo, appoggiato
allo stipite della porta della cucina, le braccia conserte, il volto
talmente
contratto da dare l’impressione di stare per esplodere,
tornando a fissare il
vuoto.
Il
silenzio era rotto soltanto dalle grida di Chichi, che
continuava a scuotere il marito come se potesse svegliarlo, urlava
talmente
forte da farsi mancare la voce, disidratata dal pianto che colava
instancabile
sul suo volto. Lo sguardo di Vegeta si concentrò per un
attimo su di lei,
disturbato: non aveva mai osservato veramente il dolore di nessuno.
Sotto il
comando di Freezer aveva sterminato migliaia di famiglie, specialmente
da
bambino si divertiva nell’analizzare le reazioni dei vari
membri nel vedere gli
altri morire. Napa scuoteva la testa di fronte a quei bizzarri
esperimenti
sociali, verso i quali Vegeta provava soltanto divertimento: erano
lontani da
lui, totalmente estranei. A lui non sarebbe mai potuto accadere
perché non
aveva nessuno da perdere.
Avanzò
lentamente, lo sguardo rapito dal cadavere del suo
rivale, il volto sereno, come se dormisse, i capelli scuri sparsi sul
cuscino,
gli occhi chiusi: un’immagine del tutto surreale.
All’improvviso tutto gli
parve surreale, i muri di quella casa, i volti dei presenti come
marionette di
gomma sospinte da una rotella elettrica posta nelle loro teste. Si
sentiva
malfermo sulle gambe, come se dondolasse e si abbassò
lentamente continuando a
fissarlo, talmente sconvolto da non rendersi conto di stare allungando
la mano
su di lui, quando qualcosa lo allontanò bruscamente,
facendolo arretrare.
«
Non osare, Vegeta! Goku voleva parlarti e tu non ti sei degnato nemmeno
di
venire! Vergognati! »
una voce stridula lo accoltellò, trapanandogli le tempie,
costringendolo a
rientrare dalla dimensione distorta in cui la sua mente lo stava
trascinando.
Era la mano di Chichi ad averlo scacciato, il volto in una smorfia
furiosa.
Gohan la strinse più forte, costringendola ad alzarsi e ad
allontanarsi
nell’altra stanza, sorretta dallo Stregone del Toro e da
Crilin. Il fuoco di
quella rabbia non aveva attecchito sui volti degli altri presenti,
troppo
sconvolti per unirsi a quel moto di sdegno.
«
Goku voleva chiederti di proteggerci. Di proteggere la Terra e... noi.
» mormorò Bulma,
fissandolo cautamente negli occhi. Erano giorni che non la guardava,
settimane
in cui evitava lo sguardo di quella donna maledetta e di quel bambino
mezzosangue che aveva messo al mondo spingendosi contro le sue cosce.
«
Io... proteggere voi? » era
scoppiato in una risata gelida, sarcastica, uno schiaffo sui loro volti
doloranti e frastornati. Li fissò tutti, uno per uno,
soppesando una ad una le
lacrime appese alle loro ciglia. Tutto in quella situazione era fuori
posto. Erano
patetici, cosa pensavano di risolvere con quella patetica messinscena?
«
Questa era la volontà di Goku. Ha ribadito che... dentro di
te vede qualcosa di
buono. Ed era convinto che ci avresti protetto. »
continuò, più determinata, le braccia che
avvolgevano protettive il corpo del piccolo Trunks, che lo fissava
sbarrando gli
occhi azzurri come se lo vedesse per la prima volta.
«
Kakaroth si sbagliava. »
sibilò, stringendo i pugni, ma la risata che gli aveva
suscitato lo stupore gli
morì in gola. Iniziava a sentirsi strano, il corpo di Goku,
sfibrato della
linfa vitale, inerme su quel letto, il suo nemico giurato sconfitto per
sempre
da un altro avversario.
L’ultimo
Saiyan dell’universo era appena morto, il suo
ultimo suddito, seppur ribelle, il suo ultimo simile, l’unica
creatura
dell’universo con il suo stesso sangue nelle vene,
l’ultimo ad aver respirato
l’aria cupa di quel pianeta da cui erano sgorgate le sue
viscere.
Sentì
la terra tremare, le facce di terrestri come tormenti
psichedelici che lo fissavano, occhi colmi di riprovazione che si
ripetevano in
un frattale di angoscia, risonanti all’infinito dentro di
lui.
Sentiva
le gambe abbandonarlo, il corpo prosciugato, il
respiro che si faceva veloce, ansimante, il cuore come un compressore
fuori
controllo che spingeva violento nel suoi polmoni.
Non
lo avrebbe rivisto mai
più.
Anche se fosse diventato Super Saiyan non avrebbe più avuto
nessuno da
affrontare, nessuno in grado di eguagliarlo, nessuno per cui valeva la
pena
combattere. Kakaroth era semplicemente... insostituibile.
Non
avrebbe potuto vendicarsi, mai più. Il suo semplice essere in
vita era insopportabile, un
debito borioso che voleva saldare con la morte di Kakaroth, una morte
per una
vita, ma si era soltanto gravato di un altro debito, quello di aver
sconfitto
Freezer al posto suo.
Il
campo visivo si oscurò, divenne nero, incerto, la gola
corrosa da un conato di vomito che saliva ribollente per il suo
esofago.
«Vegeta...
ti senti bene? » la
mano di Bulma gli aveva scosso una spalla, i suoi occhi bruciati da un
pianto
inestinguibile ma sempre attenti, scrupolosi nell’esplorarlo
instancabili, nel
notare il pallore della sua pelle e l’espressione allucinata
sulle sue iridi
nere. Vegeta la spinse, allontanando rudemente la sua mano, e
continuò ad
arretrare, allontanandosi atterrito da quella visione inaccettabile, da
quella
casa, dalle grida di quella donna che continuava a maledire la vita e
il destino
di aver portato via suo marito.
*
L’odore
di mela e cannella penetrò le sue narici, un odore
familiare, un odore amato. Si tranquillizzò, cercando di
calmare anche il
pianto di suo figlio che si era dimenato disperato nel seggiolino per
tutto il
viaggio di ritorno. La casa era buia, silenziosa, soltanto le luci
della camera
di Vegeta e del garage erano accese. Dopo il funerale, in cui tutti
avevano
raccontato qualcosa di Goku, ricordando qualche momento felice,
qualcuna delle centinaia
di avventure passate insieme, aveva sentito l’insopprimibile
bisogno di
andarsene. Trunks aveva bisogno di essere cambiato e nutrito e lei si
era
servita di questo per andarsene, non poteva sopportare un minuto di
più il viso
addolorato di Chichi e di Gohan, il cui dolore non era per lei neppure
immaginabile.
Pensò
alla propria vita, a come avrebbe reagito lei se
Trunks fosse morto, lo guardò con dolcezza, accarezzando le
sue guance tenere e
morbide, riempiendole di baci. Il viso madido di lacrime di suo figlio
la
riempì di inquietudine. Si rese conto con amarezza che tutto
quello che avevano
era soltanto provvisorio, temporaneo. Per anni avevano vissuto in una
mania di
onnipotenza collettiva, in un sogno utopico in cui le sfere del drago
potevano
proteggerli da ogni disgrazia, riportando sempre le cose al loro posto.
La
cruda realtà sperimentata del resto dei mortali era
rimpiombata bruscamente su
di loro come una ghigliottina: non erano che formiche su quella terra,
anche
loro come tutti gli altri, papabili di essere schiacciati in qualsiasi
momento.
Trunks
si zittì, per un attimo, come se potesse comprendere le
riflessioni della madre, richiudendosi nei lineamenti fieri e composti
del
padre.
E
se fosse morto
Vegeta?
Come si sarebbe sentita? Non era il suo fidanzato, non era suo
marito, era soltanto un alieno gelido e maleducato che viveva a casa
sua e al
quale era conveniente non affezionarsi. Se lo era ripetuto centinaia di
volte,
cercando di convincersi, ma qualcosa a quel pensiero pulsava
dolorosamente
dentro di lei. Cercò di allontanare quel pensiero,
camminando nei corridoi bui
della Capsule Corporation per raggiungerlo.
Lo
vide, intento a scaraventare tute da combattimento,
scorte di cibo e oggetti casuali all’interno di una delle
tante navicelle
spaziali presenti nel deposito, senza nemmeno curarsi del fatto che la
forza
con cui li afferrava fosse sufficiente per frantumarli ancora prima di
arrivare
a destinazione.
Il
volto di Vegeta era livido, illuminato da
un’oscurità
nera, invischiante, viscida come un tentacolo che stringeva tutti i
suoi
lineamenti in una morsa. Le sue mascelle erano talmente contratte da
divenire
rigonfie, i muscoli tesi fino allo spasimo, lo sguardo morto, talmente
rabbioso
da bruciare ogni traccia di vita.
«
Dove... dove stai andando? »
esalò Bulma, senza voce, sentendosi mancare. Lo stupore fu
tale che per un
attimo sentì la presa allentarsi rischiando di far scivolare
il figlio dalle
braccia.
«
Devo andarmene. »
ringhiò, trapassandola con uno sguardo talmente aggressivo
da farla traballare.
Non lo aveva mai visto più sconvolto di così,
qualcosa nel suo portamento
nobile era stato frantumato, i suoi lineamenti alteri e composti erano
come
impazziti, straziati da un insieme contradditorio di sentimenti. Bulma
osservò
i cocci della tazza per la colazione che gli aveva regalato a Natale.
Non la
aveva mai usata, probabilmente non gli era mai piaciuta, ma se non
altro non la
aveva distrutta. Ora giaceva in frantumi ai suoi piedi, come il suo
cuore
spezzato, eroso da un dolore che mai si sarebbe aspettata di provare.
«
Vegeta... dove stai andando? »
ripeté, determinata, avvicinandosi a lui con quella poca
convinzione che le era
rimasta.
«
Davvero pensavi che sarei rimasto qui insieme a te e a quel moccioso?
» sillabò piano,
abbassando per un attimo lo sguardo su Trunks, il cui volto era in
fiamme a furia
di piangere. Bulma sentì la rabbia sfiorarla, avrebbe voluto
gridare, colpirlo
con lo schiaffo più forte che riusciva a sferrare con il suo
corpo terrestre,
insultarlo fino a perdere la voce. Ma la furia si spense
immediatamente,
divorata da un dolore talmente profondo da tagliarla in due. Il suo
migliore
amico era morto. E con lui tutte le loro avventure, tutte le risate che
avevano
condiviso, la sua adolescenza, tutto era stato perduto e la sua assenza
gridava
talmente forte da vibrare dentro di lei. Non aveva la forza di
affrontare
Vegeta, non quel giorno, le sue forze erano misere, era come se la sua
energia
fosse stata risucchiata dall’interno, non aveva la forza di
affrontare anche
Vegeta, non quel giorno, non in quel momento. Era sempre stata
l’unica a
riuscire con la sua grinta a tenere testa al suo carattere difficile,
l’unica a
saperlo fronteggiare, l’unica donna che lo aveva posseduto
oltre che essere
posseduta.
Ma
in quel momento di quella Bulma forte e vigorosa non
c’era traccia.
«
Fallo stare zitto, maledizione! »
la voce di Vegeta la colpì come carta vetrata, insinuandosi
dentro di lei, le
lacrime che ricominciavano a colarle sul volto.
«
Smettila... »
mormorò piano, appoggiando delicatamente Trunks su una
sedia. Aveva raggiunto
il suo limite e si portò le mani al volto, singhiozzandovi
contro. Scoppiò in
un pianto disperato, senza ritegno, il dolore sgorgava da dentro di lei
come un
fiume in piena, inarrestabile nel piegare la sua dignità, la
sua schiena e le
sue gambe, facendola crollare in ginocchio. Vegeta non la guardava, di
spalle,
i pugni contratti e i muscoli tesi. Digrignava i denti talmente forte
da
sentire i denti pulsare dolorosamente.
«
Sei patetica. »
sibilò, velenoso. Era come paralizzato, non riusciva
più a muoversi, qualcosa
di quel pianto risuonava dentro di lui abbattendo ogni barriera che
aveva
faticosamente costruito con il tempo. Desiderò soltanto non
essere lì, per un
attimo rimpianse amaramente la vita di spietato conquistatore, nella
quale i
suoi fantasmi erano placati dal dolore delle sue vittime: guardava i
loro volti
pieni di dolore e godeva, erano loro gli sconfitti, lui invece aveva
vinto,
vinceva sempre, nulla poteva sfiorarlo. Qualcosa lo aveva contaminato,
qualcosa
si era insinuato dentro di lui, i singhiozzi cupi e disperati di Bulma
lo
turbavano, sentiva qualcosa dentro contrarsi ancora di più
nell’ascoltare quel
suono, disturbato dai suoi lamenti, dal fruscio dei suoi respiri
faticosi.
«
Ti ho detto di smetterla di piangere! »
gridò, furioso, girandosi verso di lei, i pugni stretti al
punto che la sua
aura ebbe un incremento. Le afferrò le braccia, affondando
in esse con le dita
al punto da scavare dei lividi. La fissò, trapassando i suoi
occhi chiari con
uno sguardo severo, quasi crudele. Bulma cercò di evitare le
sue pupille nere,
ardenti, talmente cupe da far impallidire
l’oscurità della notte, ma la sua
mano rude le afferrò il mento, costringendola ad incatenare
di nuovo lo sguardo
al suo.
«
Mi manca tanto, Vegeta... »
infinite lacrime le solcavano il volto arrossato, prostrato e sconvolto
da una
tristezza così forte da oscurare addirittura
l’imbarazzo, la vergogna per il
mostrarsi così agli occhi di quel Saiyan insensibile e
sarcastico, di fronte al
quale aveva sempre indossato una facciata di frivolezza e allegria. La
terra si
ritirava sotto i suoi piedi, sentiva disperatamente il bisogno di un
contatto,
un contatto qualsiasi, provò addirittura a stringersi a lui,
tentò di
abbracciarlo ma lui la respinse, come disgustato da quella richiesta di
affetto.
Paradossalmente
Vegeta era sempre stato distaccato anche nel
sesso, pur possedendola con una passione che mai aveva riscontrato in
nessun
terrestre: la sua vigoria, la sua forza, erano come innervate in quel
corpo
elettrico che sapeva donarle un piacere assoluto, orgasmi talmente
profondi da
farle tremare le cosce, stringendole ancora di più intorno
ai suoi fianchi per
averne sempre di più. Vegeta non le bastava mai. Ma non la
baciava mai, non la
abbracciava mai, non la accarezzava mai. E quelle rare volte in cui
accadeva
era passione, pura attrazione fisica, non tenerezza.
Vegeta
si rialzò di colpo, rifiutando le sue braccia con una
spinta secca, lo sguardo catturato dal pianto persistente di suo
figlio,
rilucente di una luce malvagia, teso fino allo spasimo, i fantasmi che
divoravano i suoi nervi uno dopo l’altro.
«
Cos’è, ti scopavi anche lui? Per questo ti manca
tanto? » sbottò, le palpebre strette in una
fessura.
«
Ma che vuoi da me, Vegeta? Che hai? »
biascicò lei, alzandosi per prendere di nuovo suo figlio fra
le braccia. Trunks
continuava a piangere, contagiato dal volto pieno di dolore della
madre. Vegeta
la ignorò, continuando la ricerca del codice di accesso per
avviare il motore.
La chiave era inserita nel cruscotto di comando, ma lo schermo
lampeggiava alla
ricerca di una password.
«
Dammi il codice. »
le ordinò, incrociando le braccia al petto, alzando il mento
nella tipica
posizione di arroganza che aveva assunto per gran parte della sua vita.
Vegeta
non ricordava nemmeno come ci fosse finito su quel pianeta coperto
d’acqua,
all’improvviso gli sembrava tutto uno scherzo, quella donna
piagnucolante con
quel piagnucolante moccioso, quella ridicola veglia funebre per un
Saiyan che
aveva tradito il suo sangue per vivere una vita da verme.
Sarebbe
ritornato a fare la vecchia vita, l’unica che aveva
sempre fatto, l’unica che era in grado di fare. Questa non
era stata altro che
una infelice parentesi priva di ogni senso, il frutto di un momento di
debolezza, avrebbe sicuramente ritrovato la voglia di combattere
pestando gli
stivali nel sangue, i guanti candidi nelle viscere del primo
malcapitato.
«
Vegeta... perché vuoi andartene? »
domandò lei, accarezzando dolcemente la testa del bambino
per portarla contro
il proprio petto. Iniziò a cullarlo, nella speranza di
calmarsi anche lei
attraverso il contatto con quel corpo piccolo e caldo. Ancora una volta
si
scoprì a pensare quanto fosse incredibile che una creatura
così tenera fosse
figlia anche di Vegeta, furente dalla rabbia, che la fissava come
indemoniato.
«
Dammi quella cazzo di astronave o ti ammazzo! »
gridò, tagliente, velenoso come un serpente. Vegeta
stava perdendo il controllo, l’aura sempre più
elettrica, rovente intorno ai
suoi muscoli tesi, sul punto di esplodere dalla collera.
«
Lo vuoi capire che io non ho più nessun motivo per restare
qui? » sbottò, le vene del
collo gonfie. Sentiva una disperazione montargli dentro, un senso di
angoscia
talmente forte da non riuscire più a respirare. Di nuovo il
cuore gli
martellava in petto, ripensò al corpo esanime di Kakaroth,
agli occhi chiusi, a
quei muscoli potenti ridotti in cenere, inutili di fronte alla
corruzione del
suo corpo.
Non
aveva potuto fare niente per lui, impotente per
l’ennesima volta, l’ennesima, costretto ad
assistere alla morte del suo unico
avversario, l’unico che voleva superare con ogni briciola del
suo corpo. Lasciò
divampare la sua rabbia, espandersi intorno a lui come una fiammata,
mandando
in frantumi tutte le apparecchiature elettriche, disorientate come
bussole
impazzite.
«
Non ho più niente! Niente! Ma tu non puoi capire come ci si
sente a non avere
nulla. » gridò,
amaro, le labbra contratte in una smorfia sghemba. Poi
avvampò dalla vergogna,
mordendosi le labbra talmente in profondità da farle
sanguinare. I suoi occhi
si riempirono di lacrime di rabbia, dense come la lava, che lente
iniziarono a
scavargli il volto.
Si
sentì vuoto, derubato, come se gli avessero strappato il
cuore e le viscere e le avessero date in pasto ai demoni. La
verità era che non
aveva mai avuto nulla, anche prima di incontrare Kakaroth e poi
perderlo: la
sua vita era stata una monotona danza di morte in cui non aveva provato
nessuna
emozione. Allenamenti, genocidi, furti di pianeti, il volto mellifluo
di
Freezer che gli sorrideva malevolo, lo sguardo colmo
d’ammirazione di Napa, che
aveva ingenuamente creduto di conoscerlo senza sfiorarlo mai. Altri
allenamenti, bagni di sangue talmente frequenti che ad ogni sua uscita
nel
campo di battaglia gli veniva forgiata una nuova battle suit,
nient’altro,
nessuno scopo, nessuna prospettiva. Dopotutto era soltanto un soldato,
neppure
un mercenario, la sua unica libertà era stata quella di
respirare.
La
sua aura continuava ad espandersi, sempre più potente,
facendo tremare i muri, i calcinacci cadevano frantumando i vetri delle
astronavi in una nebbia di intonaco e polvere. Voleva soltanto
distruggere,
distruggere, uccidere, voleva il sangue, voleva il potere, voleva
liberarsi di
quel dolore al più presto possibile. Voleva veder esplodere
quel posto, non gli
interessava nemmeno più di quella stupida astronave, avrebbe
potuto rubarne
altre cento, altre mille. Il soffitto iniziò a crollare,
frantumato dalla forza
instancabile del Saiyan, dai suoi pugni chiusi, dal suo volto pieno di
lacrime
che continuavano a colare, instancabili, lungo il suo collo.
«
Puoi restare qui per
noi, Vegeta. »
gridò Bulma, nel tentativo di farsi sentire nel frastuono.
Ora piangevano
entrambi, senza guardarsi negli occhi, vicini e distantissimi al tempo
stesso,
due galassie che si scrutavano dai lati opposti
dell’universo. Corse verso di
lui, incurante del calore ustionante della sua aura.
Il
volto di Vegeta era una maschera di dolore, il dolore di una rabbia
talmente
profonda da spezzargli il fiato. Non avrebbe più potuto
vendicarsi, sarebbe
stato perennemente in debito verso quel terrestre dal sorriso ebete, in
eterno
debitore di una terza classe, in eterno secondo alla memoria di un
guerriero di
infimo livello. E ora quella donna gli proponeva una vita da marito
fedele, al
fianco di quella donna petulante e di un moccioso inutile, come se
potesse
anche solo lontanamente interessargli. Come se anche a lei interessasse
davvero
di lui, tutte sciocchezze, quando si sarebbe stancata di essere scopata
da lui
se ne sarebbe trovato un altro. Eppure i suoi piedi non si muovevano,
incollati
a quel pavimento di quella casa.
«
Per favore, calmati... »
Bulma
lo guardava, sentendosi una nullità. Lei e quel bambino che
avevano generato
insieme non sembravano valere nulla ai suoi occhi, tutto quel tempo che
aveva
trascorso lì, con lei, non lo aveva cambiato di una sola
molecola, era rimasto
lo stesso crudele Saiyan che aveva incontrato su Namecc. Eppure gli
voleva
bene, amava anche la sua furia, anche il suo orgoglio di Saiyan, anche
quella
ambizione suicida che lo consumava dall’interno dal primo
giorno in cui lo
aveva incontrato. Non avrebbe saputo dire il perché,
semplicemente sentiva di
amarlo, di essere legata a lui da un sentimento che non riusciva a
reprimere.
Si
avvicinò bruscamente, avanzando con rabbia. Con il braccio
libero si strinse a
lui, la mano che gli stringeva la nuca, inabissandosi nei suoi capelli
neri e
accarezzandoli con delicatezza. Lo baciò lentamente,
mordendogli piano le
labbra morbide. Vegeta la fissava, sorpreso, gli occhi spalancati, le
lacrime
congelate fra le sue ciglia, talmente sbalordito che la sua aura
letale, talmente
rovente da scottarle la pelle scoperta, si azzerò.
Lo
sguardo duro del Saiyan si ammorbidì per un attimo, un breve
attimo in cui la
rabbia si spense sul suo volto, rivelando una tristezza devastante.
Bulma lo
accarezzò piano, immobile, passando le dita delicate sulle
sue guance umide.
Non sapeva perché permetteva a quella donna di assistere
alla sua debolezza,
forse era solo talmente svuotato, talmente stanco da non avere
più la forza di
combattere. Non voleva andarsene, non aveva nessuna intenzione di
andarsene, la
prospettiva di conquistare e distruggere non lo attraeva
più, gli ricordava
Freezer, gli ricordava soltanto l’umiliazione del servire un
tiranno spaziale
che gli aveva rovinato la vita. In ogni caso non avrebbe potuto tornare
indietro
nel tempo. I Saiyan erano sterminati, il suo pianeta distrutto, non
sarebbe mai
diventato Re.
«
Non abbandonarmi anche
tu... ti prego. »
sussurrò Bulma, allontanandosi per specchiarsi nelle sue
iridi nere, lucide
come ossidiane.
Vegeta
scosse piano la testa, un movimento impercettibile, continuando a
guardarla
negli occhi senza riuscire più a nascondere il dolore. Il
dolore per non essere
mai stato all’altezza, per i trent’anni di vita che
aveva trascorso come
schiavo di Freezer, per suo padre, per il suo pianeta e infine per la
morte di
Kakaroth, che gli aveva sottratto ogni possibilità di
vendetta.
Kakaroth
era un centro di gravità che non esisteva più,
che lasciava stelle e pianeti
interdetti, smarriti nella galassia senza una traiettoria da seguire.
Così era
Vegeta, un astro sperduto nella polvere interstellare, escluso
dall’unica
orbita in grado di mantenere la sua stabilità mentale.
Sconfiggere Kakaroth era
stata la sua unica e sola ragione di vita da quando era ritornato in
vita, la
sua unica ragione per rimanere sulla Terra, la sua unica ragione di
continuare
a respirare dopo che tutte le sue certezze erano state spazzate via.
Ora non aveva
più nessun posto in cui andare, non esisteva nessun posto
nell’universo a cui
appartenesse, nessuno. Dentro di sé Vegeta sapeva che quel
posto probabilmente
non era mai esistito. Per tutta la vita aveva transitato da un pianeta
ad un
altro, da muri freddi e impersonali, schizzati del sangue delle vittime
trucidate, alle pareti lucide e viscide delle astronavi di Freezer,
gelide come
lui.
Il
suo sguardo vagò su quella donna insistente e sul bambino
che gli somigliava stretto
fra le sue braccia. Forse adesso era quello
il suo posto. Forse quello poteva
essere un nuovo motivo per continuare a vivere, ad allenarsi, a
combattere.
Altrimenti poteva semplicemente lasciarsi morire. Ma fissando i loro
sguardi,
di un azzurro così vivido, così vitale, i loro
volti delicati, qualcosa vibrava
nelle profondità delle sue viscere. Vegeta non aveva alcuna
intenzione di morire.
***
NOTA
DELL’AUTRICE
Grazie
per aver letto! Mi scuso se ci fossero incongruenze
con la storia ufficiale, non vedo la serie Z e l’OAV
sull’universo Mirai da tanto
tempo, se ci fossero errori considerateli una licenza poetica! *ride*
Spero che
la fiction vi sia piaciuta, attendo qualche feedback nelle recensioni.
Ne
approfitto per ringraziare chi ha letto, recensito e/o messo nelle
preferite/ricordate la mia precedente fiction, mi avete resa molto
happy. Detto
questo spero di essere rimasta IC e di aver reso l’idea dei
sentimenti che
avevo in testa. Un abbraccio a tutti e alla prossima.
ND
|