1
L'insolito
cliente
John Watson non si era accorto di come
Sherlock Holmes lo avesse guardato mentre, nel salotto del 221B di
Baker Street, egli intratteneva un accorato dialogo con sua moglie.
Dialogo che, a dirla tutta, poteva essere definito come monologo, ma
il dottore evitava di passare in rassegna tutte le stranezze
comunicative che avevano coinvolto il suo mese di apatia dopo la
morte di Mary.
In quell'occasione, il soldato era
stato così preso dalla sua confessione, dal suo senso di colpa, dal
dolore per non essere stato l'uomo perfetto che Mary aveva creduto
che fosse, da non vedere altro che una donna inesistente
scandalizzata nell'animo e nel volto, che non esprimeva più emozioni
di quelle immaginate da lui. John aveva avuto la decenza di non farsi
perdonare dal fantasma di sua moglie, conscio, in qualche modo, di
non essere di fronte ad una persona reale. Ma l'improvvisa egoità
l'aveva distolto da ogni altro spiraglio di verità presente intorno
a lui. Sherlock, sulla sua poltrona, scosso e incapace di sfruttare
al meglio la natura umana, non era esistito più per qualche attimo,
il tempo per Watson di arrivare alla conclusione di non essere altro
che imperfetto, mera figura inventata non rispondente allo stato dei
fatti. Non aveva visto gli occhi acquosi e quasi spaventati
dell'amico detective. Non aveva colto l'angoscia e il dolore
dell'altro, preoccupato come non mai nel vedere il fedele compagno
che intratteneva una sentita conversazione con il muro di fronte.
Aveva riacquistato coscienza di Sherlock soltanto quando aveva
vagamente sentito il rumore di una tazza adagiata su un piano di
legno e, infine, quando era stato avvolto in un abbraccio impacciato
ma non per questo meno accogliente. Solo allora la sua mente aveva
registrato di nuovo la presenza di una seconda persona tangibile
nella stanza.
Sherlock era consapevole di aver potuto
osservare la scena senza disturbare, senza essere d'intralcio
all'autocommiserazione di John. Questo aveva dato al consulente
investigativo un netto vantaggio su Watson che, ignaro di quella
situazione, non avrebbe mai immaginato di vederla ripetersi.
Fu con questa deduzione che Sherlock
Holmes cominciò a studiare silenziosamente il suo amico ogni volta
che si trovavano nella stessa stanza, ogni volta che John non lo
guardava, si dedicava ad altro, o quando credeva di non essere visto.
Le prime diagnosi furono negative. Il
moro aveva notato più volte che lo sguardo del compagno si posava su
superfici apparentemente prive di interesse, e che i suoi occhi
fissavano qualcosa ad altezza d'uomo. Duravano poco, non erano
visioni prolungate, ma in quei momenti la testa del dottore scattava
verso l'alto e, subito dopo, si poteva scorgere un accenno di
delusione sul suo viso. Breve, ma intensa, e mentre altri come Greg o
Molly potevano provare semplice pietà nei confronti di un essere
umano messo a dura prova dalla perdita di una persona tanto
importante, Sherlock sapeva di cosa si trattasse davvero. Non era la
perdita il fattore preoccupante, ma la presenza,
e Holmes non aveva idea di come scongiurare il pericolo di vedere
John bloccato nell'illusione di avere ancora Mary accanto.
«Mi vede per
davvero» commentò, un giorno, la signora Watson, appoggiata allo
stipite in mogano dell'androne.
Sherlock,
gli occhi fissi sul biondo, annuì nell'intimità del suo palazzo
mentale. Strinse persino i pugni, incapace di prendere una decisione
al riguardo. Ogni volta era combattuto tra l'idea di intervenire, di
fermare sul nascere quello scambio impossibile di sguardi e sorrisi e
far concentrare John sul presente, su ciò che poteva essere
osservato veramente, e, d'altro canto, non pensava di poter essere
davvero d'aiuto, soprattutto nei momenti in cui l'uomo stringeva tra
le braccia la piccola Rosie con la quale scopriva il mondo – e
ritrovava sua moglie.
«È il suo modo di
elaborare l'accaduto» sentenziò dopo un silenzio troppo lungo, e
questo fece ridacchiare Mary.
«Oh, Sherlock!
Stai diventando lento»
L'uomo quasi non
sentì la canzonatura della proiezione della donna, troppo attento ai
movimenti di John. Rosie aveva fatto un versetto senza senso e questo
aveva colpito suo padre, come qualsiasi altra cosa che la bambina
facesse. Tuttavia, prima di voltarsi verso Sherlock per fargli notare
il piccolo prodigio, i suoi occhi si erano posati sulla finestra,
radiosi, accompagnati da un sorriso orgoglioso. Il detective non
aveva perso tempo a guardare nella stessa direzione, consapevole che
non avrebbe visto niente, non lui che aveva Mary nella sua testa.
«È bizzarro che
tu sia terrorizzato dalle conseguenze per John e non per le tue»
fornì la donna, il sorrisetto provocatorio sempre ben visibile sul
suo viso.
«Le mie?»
sottolineò Sherlock, regalando contemporaneamente una smorfia
divertita a padre e figlia seduti sul tappeto, l'una sulle gambe
dell'altro.
«Io sono qui anche
per te, stiamo facendo una chiacchierata»
«Non conta»
Sherlock scoccò un'occhiata intenerita verso Mary, temendo di aver
fatto uscire le parole con troppa foga. «Il palazzo mentale non
conta, lo sai. I vivi e i morti qui hanno un posto dove stare. Non ci
sono conseguenze per me. Sei stata qui anche prima, non lo ricordi
più?»
Il sorriso di Mary
divenne più dolce. Ricordava, ricordava bene. Ma c'era qualcosa nei
suoi occhi che non smetteva di suggerire a Sherlock la pietà, quella
che gli altri riservavano a John. In un certo senso, si sentì
sollevato: il suo problema era aver perso un'amica fidata,
sincera e bugiarda allo stesso tempo, perfetta e determinata, una
delle poche persone che aveva avuto accesso alla sua sfera privata.
Mentre i contorni
del palazzo sfumavano, Sherlock poté intravedere meglio la delusione
di John. Con una morsa spiacevole a stringergli il cuore, il
detective annotò il vago miglioramento nella mente: Mary era sparita
anche alla vista dell'amico.
Senza la
presunzione di poterla sostituire in toto, l'uomo si alzò per
raggiungere il duo, si accomodò a gambe incrociate e chiese
implicitamente a John di passargli Rosie: era arrivato il suo turno
di giocare con il fagottino urlante.
-
Erano passati sei
mesi dalle vicende di Sherrinford. Tutto sembrava essere tornato alla
normalità, una normalità apparente che faceva bene a tutti. La vita
era stata più forte della morte e della disperazione, e la
quotidianità aveva ripreso a funzionare. Una quotidianità fatta di
casi da risolvere, pannolini da cambiare, passeggiate con i vecchi
amici e tazze di tè.
In John il
miglioramento era ormai netto. L'attento studio di Sherlock aveva
rilevato che gli occhi del dottore non si posavano più sugli spazi
vuoti della stanza dove fosse possibile collocare una persona reale.
Quando doveva elogiare le straordinarie capacità di Rosie, adesso,
la sua attenzione scivolava subito sulle presenze in carne ed ossa.
Di tanto in tanto, lo sguardo di John si posava sul tappeto come se
quest'ultimo avesse acquistato all'improvviso le caratteristiche di
un codice da decifrare. La discrezione aveva impedito a Sherlock di
indagare approfonditamente ciò che passasse nella mente dell'altro,
ma poteva immaginare il problema alla perfezione. Quando capitavano
questi momenti di impasse, il moro stringeva la spalla di John nella
sua mano, sperando che quello fosse sufficiente per dare l'idea di un
conforto. Si augurava che l'ex soldato fosse conscio di poter
liberamente sfogare il suo malessere con lui, ma questo non accadeva
mai.
«Non accetterà di
essere salvato» gli rammentava puntualmente Mary nel palazzo
mentale, materna e innamorata. Sherlock annuiva: andava bene così.
-
Quella
mattina Sherlock era stato svegliato dall'aroma del tè. Non
ricordava di aver dato disposizioni alla signora Hudson perché
preparasse la colazione – e, onestamente, non credeva che una
richiesta del genere gli sarebbe stata accordata con tanta docilità
dalla padrona di casa –, perciò dedusse che John fosse
nell'abitazione, ma non aveva osato predire la scena che trovò in
salotto: la sedia riservata ai clienti era stata posizionata di
fronte alle loro poltrone, ma l'appartamento era silenzioso, John non
stava intrattenendo una conversazione con nessuno nell'attesa che
l'inquilino li raggiungesse, anzi misurava a passi larghi il lato
lungo della stanza con evidente agitazione.
«Abbiamo visite?»
chiese Sherlock, nonostante sapesse già di dover addurre una
risposta negativa alla domanda.
«Più o meno»
Santo cielo. Un
nuovo caso assurdo come quello de “Il cliente vuoto”? Possibile?
L'istinto non sembrava voler dare credito a quella opzione.
Sherlock annuì,
scrutando la mobilia in cerca di indizi. Quando non trovò molte cose
degne di nota o che spiegassero il senso della sedia, raggiunse la
sua poltrona in pelle e si accomodò, prendendo la tazza di tè. Posò
gli occhi su John, ma il suo cervello fu straordinariamente lento –
o John assurdamente veloce: non si era ancora bagnato le labbra con
il liquido ambrato che la sedia vuota era stata occupata dal dottor
Watson.
Come
aveva fatto a non arrivarci prima? Era semplicemente ovvio
che fosse John il cliente. La sua agitazione, il suo nervosismo,
l'urgenza di essere ricevuto che lo aveva spinto a svegliarlo con il
tè, il salotto già organizzato per la situazione, come se l'uomo
avesse pensato di non essere pronto per architettare la cosa davanti
a Sherlock, il portamento militare che assumeva ogni volta che doveva
scendere in battaglia contro qualcuno. Un qualcuno che, Holmes lo
vedeva chiaro come l'acqua, non era il detective.
«John?»
apostrofò, la gola vagamente secca. Il pensiero volò immediatamente
a Rosie. Era successo qualcosa alla bambina? No, impossibile. Se
fosse stato quello il motivo, Watson non si sarebbe disturbato a
preparargli la colazione: avrebbe chiamato nel bel mezzo della notte
fino a farlo svegliare in preda al panico. Questo lo rassicurò non
poco.
John si schiarì la
voce, arricciò il naso, inspirò e picchiettò le dita della mano
destra sul ginocchio. «Sherlock»
Non
era così che funzionava, ma ciò non sorprese il detective in alcun
modo. John sapeva di non dover convincere nessuno ad accettare il suo
caso, qualunque esso fosse. Il copione, dunque, si sarebbe dovuto
adattare di conseguenza e “Ci racconti la sua storia. Si
penda tutto il tempo che vuole, ma faccia in fretta”
non era la giusta battuta di apertura.
Sherlock alzò
appena la tazza di tè, accennando un sorriso all'angolo delle
labbra. «Ti ringrazio per il pensiero, John. Non ricevo queste
attenzioni da molto tempo» Sorseggiò la bevanda, quanto bastava
perché la sua gola non tradisse alcuna sorta di preoccupazione. Il
dottore annuì e non accennò a dire altro. Le ipotesi cominciarono a
comparire nella mente del consulente investigativo, ma non osava
parlare: John adorava il suo modo di capire tutto da un solo battito
di ciglia, ma odiava quando Sherlock lo faceva su di lui. L'ultima
cosa che voleva era irritare il suo migliore amico che aveva scelto
di cambiare in quel modo le carte in tavola. Holmes fu anche attento
a non lanciare nessuna occhiata alla poltrona di fronte alla sua. Era
lapalissiano che John non volesse intraprendere una chiacchierata tra
amici. Doveva essere considerato come una persona qualunque con la
propria vicenda personale. Sherlock aveva il dovere morale di
assecondarlo. Per questo, alla successiva esclamazione dell'altro, il
moro non lo degnò di una risposta.
«Sono una persona
orribile»
In condizioni
normali, Sherlock avrebbe ribadito un concetto già esternato in
altre occasioni: John, con un'espressione del genere, si faceva un
torto incommensurabile. Ma in quel momento Sherlock dedusse un'altra
cosa: non erano lì per risolvere un enigma. Erano lì perché egli
ascoltasse e basta, senza intervenire, senza dare consigli, senza
assolverlo, senza spiegargli cosa fosse giusto credere e fare e cosa
fosse sbagliato.
«Credi che sia
opportuno che resti, Sherlock?» chiese Mary nella testa del
detective. Lo sguardo tradiva emozioni agitate in lei, e Holmes
sentiva che ci sarebbe stato da temere, che non avrebbe sopportato di
gestire anche l'emotività di un altro essere vivente.
«No. Per questa
volta lasciaci. Ti racconterò più tardi»
Era importante, in
quel momento, che rimanessero solo loro due. Se anche una sola delle
ipotesi di Sherlock si fosse rivelata esatta, non ci sarebbero dovuti
essere terzi, soprattutto non così nascosti.
«Continua»
suggerì in un mormorio l'uomo, rimasto solo, rivolgendosi a John.
Poggiò la tazza sul tavolino e, una volta liberate le mani,
congiunse le punte delle dita sulle labbra, i gomiti affondati nei
braccioli della poltrona. Era quasi assurdo che fossero in quella
situazione, ma il detective decise che non era quello il momento per
pensarci.
«Sono orribile»
ribadì John, la mascella contratta come quando, all'Acquario di
Londra, gli aveva rinfacciato il suo voto. Ma Sherlock scacciò via
quel paragone: niente avrebbe mai potuto eguagliare l'espressione di
quella sera, o se ne sarebbe accorto, avrebbe provato lo stesso
intenso disperato dolore. Ciò non stava accadendo, anzi, se il
glaciale abitatore di Baker Street aveva imparato qualcosa dell'arte
di entrare in empatia con le persone, poteva sentire solo tanta
delusione sgorgare da quelle parole.
«Non parlo più
con Mary» rivelò il biondo, tirando fuori un sospiro di
accettazione che raramente gli era capitato di esalare. Era facile
comprendere come la pronuncia di quelle parole fosse stato il primo
passo per vederne il vero significato.
Sherlock registrò
l'informazione con sentimento ambivalente: da una parte si sentiva
terribilmente dispiaciuto per Watson, dall'altra non comprendeva come
mai ciò che per la sua analisi era diventato un fattore positivo
potesse essere fonte di tale costernazione per John. Tuttavia, fu
costretto ad ammettere di aver previsto quella esternazione e si
congratulò con se stesso per aver fatto andar via la moglie dalla
scena.
«Riuscivo a
vederla» continuò a spiegare il cliente particolare del giorno.
«Era sempre presente. Era nella stanza in cui mi trovavo. In piedi,
seduta, sorridente, comprensiva, vicina. E parlava anche lei,
non ascoltava soltanto. Mi è stata accanto quando-» deglutì a
vuoto due volte prima di prendere di nuovo fiato e tentare di
concludere, «-quando... ti ho allontanato»
Le dita di Sherlock
sussultarono appena contro la sua bocca: era stata una bizzarra
scelta di parole. L'allontanamento era stata una diretta conseguenza
della morte di Mary, l'evento scatenante di tutti i loro guai
successivi, il punto fondamentale. Perché, dunque, sottolinearne uno
dei tanti risultati?
Sherlock chiuse gli
occhi per un attimo. Quando li riaprì, la risposta era chiara nella
sua mente: senza Mary, John sarebbe sopravvissuto alla tentazione di
creare un fantasma con cui condividere pensieri e idee, ma tolto
anche il detective la solitudine aveva fatto sembrare quella
soluzione molto più accettabile che in altre condizioni.
Sherlock temette di
essere sul punto di ascoltare un'accusa nei suoi confronti. E sentiva
di meritarsela, in verità: per colpa sua, che l'avesse voluto o
meno, John aveva subito non una, ma due perdite impareggiabili e
aveva dato un volto, un corpo e una voce alla sua coscienza.
«Mi hai salvato di
nuovo, Sherlock» furono, invece, le parole che solleticarono le
orecchie del detective. La risatina che seguì gli diede il tempo per
elaborare quanto ascoltato. «Mi hai impedito di diventare
completamente pazzo. Sei stato bravo, molto bravo. Sei tornato, hai
fatto grandi cose per me e...» John sbuffò mentre un gesto evasivo
delle mani accompagnava le parole, «... e Mary è andata via»
Ancora, una lieve
risata spezzò il silenzio. «Non è stato all'improvviso» precisò
il dottore, appoggiandosi allo schienale della sedia con goffi
movimenti, provato dalla posizione scomoda e dalle emozioni. «Ha
impiegato del tempo a lasciarmi, Mary, ma se ne è andata. Neanche se
mi concentro riesco a riprodurre l'illusione perfetta che ho nascosto
perfino a-»
La frase restò
senza conclusione. John scoccò un'occhiata all'amico prima di tacere
del tutto, e Sherlock comprese che il riferimento doveva essere per
Euros in veste di analista. Apprezzò la delicatezza di John, ma
seppe anche che avrebbe potuto contenere egregiamente il suo dolore
per accogliere quello completo e puro dell'interlocutore. Lasciò che
il pensiero indugiasse appena sulla certezza che Euros non
fosse stata ingannata sull'argomento, così come non lo era stato
lui, ma non fece nulla per distruggere lo stato d'animo dell'altro.
Piuttosto, si rese conto che la minaccia della colpa non era stata
ancora scongiurata.
«Ho paura di
dimenticarla, Sherlock» disse John dopo un lungo, pesante silenzio,
la voce rotta. L'uomo batté le palpebre più volte, aspettandosi di
sentire l'altro continuare da un momento all'altro. Ma non arrivarono
altre precisazioni, solo un accenno di respiro troppo affannato
perché non promettesse lacrime.
Il sollievo di non
sentirsi causa di un grande male non riuscì comunque a distrarre
Sherlock dalla contemplazione spassionata dell'uomo migliore che
avesse avuto la fortuna di incontrare. La lealtà e l'onore trovavano
personificazione in John Watson e Holmes si sentì fortunato per aver
potuto testimoniare ancora una volta alla sua grandezza.
Quella confessione,
così vera e sincera, era l'unico assoluto caso sottoposto alla sua
attenzione, ossia se fosse possibile dimenticare una persona tanto
importante. Sherlock sapeva che rispondere no avrebbe portato
il ragionamento ad un paradosso – lui aveva dimenticato sua
sorella, dopotutto, l'aveva rimossa come si fa con i traumi più
dolorosi, l'aveva chiusa in una scatola e l'aveva relegata ancor più
in profondità della cella imbottita di Moriarty. Ma Mary era
un'altra storia. Nessuno di loro avrebbe mai dimenticato, e in un
certo senso sapeva che anche il dottore ne fosse convinto. A parlare
in lui era solo la paura, il terrore di perpetrare un ulteriore torto
alla donna con cui avrebbe voluto passare il resto della vita, una
vita che ora sembrava essersi ristretta.
Sherlock ebbe per
un attimo l'impulso di stringere nuovamente l'amico in un caldo
abbraccio, ma si disse che così avrebbe spezzato l'incantesimo,
avrebbe distrutto il rapporto cliente-professionista che l'altro
aveva cercato di mettere in piedi. Non che ci fosse riuscito più di
tanto, ma il contatto fisico avrebbe davvero fatto crollare tutto.
Si assicurò che
non ci fosse altro da aggiungere prima di parlare.
«Non accadrà mai,
John» disse con dolcezza, cercando di sorridere senza farsi
travolgere dalle emozioni che ancora lo prendevano alla sprovvista.
«Io... Io ti impedirò di dimenticare. Te lo prometto»
Watson dissimulò
la lacrima che aveva preso a rotolargli lungo la guancia con una
risata sommessa. Scosse la testa prima di schiarirsi la gola e
guardare Sherlock negli occhi. «Ti avverto, bastardo: se questa
volta non mantieni la tua maledetta promessa, ti giuro che non sarò
disposto a tornare sui miei passi»
Sherlock rise a sua
volta, soffocando qualsiasi sentimento che fosse simile al dolore,
alla paura di perdere le persone amate, alla disperazione. Doveva
essere forte più di John in quel momento, e non gli avrebbe negato
quel favore per nulla al mondo, a costo anche di implodere.
«Andiamo a
trovarla» propose, alzandosi dalla poltrona, come per suggellare
l'ennesimo voto. Si ricordò improvvisamente del tè, ormai freddo,
ma non gli importò: aveva visto il dottore irrigidirsi al suo
invito, perciò preferì ingollare comunque la bevanda rovinata per
lasciargli il tempo di decidere.
«Va bene» accettò
infine il militare, alzandosi a sua volta. Era stato così teso per
tutta la durata della sessione che quando si rimise in posizione
eretta qualche osso scricchiolò sinistramente. «Portiamo Rosie con
noi? È da Molly, possiamo passare a prenderla»
Sherlock annuì,
avviandosi già verso la porta. Si bloccò quando venne richiamato da
un suono simile ad un “Ehi”, ma incompleto, smorzato dalla
fatica.
«Sì?» fece,
interrogativo, senza far trapelare nulla.
Gli occhi di John
dicevano “Grazie”, ma le sue corde vocali optarono per:
«Stai dimenticando il cappello»
Uscirono entrambi
con un sorriso tenue sulle labbra e un berretto calcato in testa.
Andava bene così.
-
«Allora? Cosa vi
siete detti?» domandò Mary, le braccia incrociate e il sorriso
furbo. Sherlock, per un attimo, credette che fosse già perfettamente
consapevole della conversazione avvenuta qualche ora prima nel
salotto del 221B di Baker Street. Ma sapeva anche che questo fosse
impossibile.
«Abbiamo parlato
di te» fu la risposta sincera.
«Ah! Avete fatto
una conversazione piacevole, dunque!»
Il fatto che fosse
un'esclamazione e non una domanda fece sorridere Sherlock, che scosse
anche la testa, rassegnato.
«Non immagini
quanto»
Angolo
dell'autrice: Salve!
Continuo a non
riprendermi dalla stagione e continuo a produrre cose deprimenti!
L'idea è nata per caso, pensando che, dopo una situazione
complessivamente disastrosa anche dopo la morte di Mary, John avesse
avuto bisogno di una nuova analista, di qualcuno con cui parlare
delle sue insicurezze. Considerando le pessime esperienze precedenti
(la prima analista era un'incapace, come fa notare Mycroft, la
seconda è stata Euros, e questo si commenta da sé), mi è sembrato
sensato che il suo pensiero sia volato a Sherlock per l'intimità del
rapporto tra loro tre.
Mary nel palazzo
mentale di Sherlock non è una novità. È già entrata quando in
occasione della 3x03, senza contare tutto lo special di Natale! Quel
luogo è uno scrigno di ricordi e persone, oltre che di informazioni,
perciò, avendoci trovato anche Anderson, dubito che non ci sia la
signora Watson!
Vi ringrazio
tantissimo per esservi soffermati a leggere e grazie a tutti coloro
che spenderanno qualche minuto per fornirmi il loro parere!
Vi saluto e alla
prossima!
Menade Danzante
|