ReggaeFamily
Settima
classificata e vincitrice del premio “Miglior
Grammatica” al contest “All in one (shot) indetto da
alexalovesmal e valutato da 6Misaki sul forum di EFP
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Consiglio
fortemente l'ascolto, durante la lettura, di questa canzone a mio
parere meravigliosa. Mi ha ispirato tantissimo per la stesura, la
considero parte della storia.
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Lost
In Hollywood
Never
Trusted Hollywood
Aria
gelida e fumo rovente mi riempivano i polmoni.
Non
avevo una meta; camminavo meccanicamente e non riuscivo a fermarmi.
Poteva
sembrare assurdo, ma certe volte mi piaceva passeggiare nella
penombra della sera, mi aiutava a liberare la mente da tutti i
pensieri. Proprio io, che detestavo la calma e riuscivo ad affrontare
la caotica Los Angeles solo a bordo di un'auto.
Ancora
una volta le mie gambe avevano scelto per me: mi avevano condotto
fuori di casa, in una strada di periferia illuminata a malapena dalla
fioca luce di qualche lampione. I rumori della città alle mie
spalle riecheggiavano, trasportati da un vento lieve, come a voler
ostentare la vita per le strade gremite di luci e persone.
Procedevo
sul marciapiede, fumavo e mi guardavo attorno, protetto da un pesante
giubbotto e un cappello calato sugli occhi.
Amavo
quei momenti in cui non ero più il chitarrista dei System Of A
Down, ma solo una figura tra tante che inspirava gli odori della
metropoli.
Della
musica ad alto volume attirò la mia attenzione: proveniva da
un decadente locale ai margini di un piccolo spiazzo in cemento, dal
lato opposto della strada. Davanti all'entrata alcuni ragazzi
gridavano e si spintonavano, circondati da bottiglie di birra sparse
a terra.
Capii
solo allora che mi trovavo in una delle zone più malfamate e
degradanti di Los Angeles. Fu come risvegliarmi da un sogno: non
avevo idea di come fossi arrivato fin lì, sapevo solo che ero
stanco di camminare.
Spensi
la sigaretta ormai finita sotto la suola della scarpa e posai la
schiena contro un palo; quest'ultimo segnalava la presenza di una
fermata del bus.
Proprio
mentre mi accingevo ad accendere la canna che avevo accuratamente
preparato, mi accorsi di una figura seduta sul bordo del marciapiede
a una decina di metri da me che prima non avevo notato. Anche lei
parve accorgersi di me: si mise in piedi e si avvicinò con
passo instabile. Riuscii a vederla solo quando un lampione poco
distante la illuminò, liberandola dall'oscurità: si
trattava di una ragazza spaventosamente magra, alta all'incirca
quanto me, che indossava uno striminzito miniabito nero e un paio di
scarpe con il tacco a spillo. La sua pelle era pallida e il viso
scavato da una stanchezza che la sciupava completamente; ma ciò
che mi colpì maggiormente furono i suoi occhi cerchiati di
rosso e privi di qualsiasi espressione.
Non
riuscii ad attribuirle un'età. Era vecchia dentro.
“Ehi
tu! Com'è che ti chiami?” biascicò la ragazza,
studiandomi attentamente e poggiando una mano al palo del lampione
per non rovinare a terra.
Sì,
era palesemente sbronza. Ecco perché, nonostante il gelo di
quella sera, non sembrava affatto infreddolita.
Accesi
finalmente la mia canna e, dopo aver preso la prima boccata di fumo,
risposi: “Daron”.
Mantenni
un tono calmo e distaccato, anche se la consapevolezza di ciò
che stavo vivendo mi riempiva di rabbia e frustrazione. Quel luogo mi
mandava in bestia nella sua interezza.
“Uh,
sei un bel tipo! Scommetto che non vedi l'ora di farti una sana
scopata... in genere faccio pagare ottanta, ma siccome sei un figo e
mi stai simpatico te la do a sessantacinque. Ci stai?” propose,
avvicinandosi ancora di più a me e tentando di sembrare
seducente.
“Io
non voglio fare sesso con te” tagliai corto in tono piatto.
“Non
ci credo! Uff, ho bisogno di lavorare, oggi non ho trovato nessuno”
borbottò delusa. “Ti prego, Daron...”
“Come
ti chiami?” le chiesi, cogliendola di sorpresa.
Lei
aggrottò le sopracciglia. “Che te ne frega del mio nome?
Sei sicuro che non mi vuoi?”
Sembrava
un cucciolo abbandonato, mi implorava come fossi la sua unica
salvezza. Come poteva una ragazza ridursi così? Era
inaccettabile.
“No,
io voglio sapere il tuo nome” ribadii, addolcendo il tono della
voce.
Lei
mi studiò ancora con aria diffidente. “Hilary. Beh, che
dobbiamo fare? Io devo lavorare...”
Hilary
era una delle tante prostitute che vagavano tristemente per le vie di
Los Angeles in quell'esatto momento. Tutti se le sbattevano e nessuno
si interessava a loro; per una volta, per una sera, volevo stare a
sentire cosa avevano da dire, volevo che almeno una di loro si
sentisse capita e amata.
“Parliamo”
la interruppi, prendendo posto sul gradino del marciapiede e
facendole cenno di imitarmi.
Dopo
qualche istante di esitazione si appollaiò al mio fianco,
stringendosi le ginocchia al petto. “Io non ho niente da dire.
Comunque sei uno strano.”
“Se
non avessi niente da dire non avresti accettato di parlare con me.
Quanti anni hai?” domandai, continuando a fumare.
Che
situazione assurda! Non sapevo cosa mi avesse spinto ad agire così
e non pensavo di poter reggere una conversazione con Hilary, dato che
non ero molto loquace di natura. Decisi tuttavia di infischiarmene ed
esibirmi senza vergogna sul grande palco della vita.
“Diciassette.
Ma perché cazzo ti sto dicendo tutte queste cose? Nemmeno ti
conosco!” sbottò all'improvviso, allontanandosi di
qualche centimetro. Continuava a strascicare le parole e l'alcol le
annebbiava ancora la mente, impedendole di ragionare lucidamente.
Io
invece, dopo la dose di erba, mi sentivo pienamente padrone di me ed
ero in grado di gestire la situazione con sicurezza.
Non
potevo credere che quella ragazzina avesse solo diciassette anni; non
era ancora maggiorenne!
“Perché
te le sto chiedendo” risposi prontamente.
“Che
stronzo... beh, però anche io voglio sapere qualcosa di te,
altrimenti non vale! Cosa fai nella vita? Anche se con quei capelli
sembri un barbone...”
Mi
ritrovai a sorridere per la prima volta da quando avevo incontrato
Hilary. “Il chitarrista.”
“Eh?
Ma che lavoro è? Ti guadagni da vivere suonando? Allora devi
essere molto famoso” osservò ammirata.
“Abbastanza.
Sì, diciamo che sono stato fottutamente fortunato.”
Mi
sentivo quasi in colpa ad ammettere di fare ciò che più
amavo come lavoro davanti a una persona che non aveva scelta.
“Ah,
allora un giorno mi suonerai una canzone! Pensa che io invece sono
qui perché la mia famiglia fa schifo e se non ci fossi io non
riusciremmo a campare!”
Quella
frase mi colpì molto. Capii che avrebbe voluto continuare a
parlare e sfogarsi, così le domandai: “Sei figlia
unica?”
“No!
Da poco mia madre si è fatta non so chi ed è nato
Stevie. Quel bambino è una rottura di coglioni, però
poverino: ogni volta gli devo togliere le siringhe che lascia in giro
quella stronza di mia madre, altrimenti finisce che il bambino si
droga e sono casini” raccontò. “Mia madre è
una bucomane di merda: dice di essere depressa ed è per quello
che si fa, ma secondo me è solo una scusa. Io l'ho provata
quella roba – in realtà era cocaina, non eroina –
ma io quella roba non la tocco più. Non voglio diventare una
drogata come lei.”
Hilary
era un fiume in piena: le pareti della sua anima avevano ceduto e ora
non riusciva più a fermarsi. Probabilmente non si rendeva
conto di ciò che stava facendo, raccontava la sua situazione
come se nessuno la stesse ascoltando.
Ma
io ero lì, c'ero con tutto il mio cuore, e quelle parole mi
stavano devastando come la lama di un coltello sulla pelle.
“Tuo
padre?” domandai in un sussurro, temendo di risultare
indiscreto.
Hilary
scoppiò a ridere istericamente e la sua voce si sparse
tutt'attorno a noi. “Mio padre? Boh, e chi lo conosce? Quello
lì si faceva mia madre, poi quando è arrivato il
momento di prendersi le responsabilità se n'è andato!
Un giorno, se dovessi avere una famiglia, non seguirei di certo
l'esempio dei miei genitori! Daron, tu credi ai miracoli?”
La
domanda mi spiazzò. “Dipende” proferii.
“Io
sì, ma non a quelli religiosi. Sono convinta che un giorno
arriverà uno che mi ama davvero e mi porterà via da
questo posto di merda, allora vivremo contenti e non rivedrò
mai più la mia famiglia. Ma lo sai come ci sono finita qui?
Fino a qualche anno fa ero una delle tante: feste, droga di tutti i
tipi, sesso con i più fighi del quartiere... insomma, tutto
pur di stare lontano da casa. Poi non avevamo più i soldi per
comprarci da mangiare – in realtà eravamo dei poveracci
anche prima – e allora mia madre mi disse: perché al
posto di darla a quei coglioni dei tuoi amici non cominci a farti
pagare?; e sai com'è: c'era il bambino e io non volevo
lasciarlo allo sbando come ha sempre fatto mamma. Ed eccomi qui a
battere. Almeno ho i soldi per comprarmi l'alcol: sono sempre
sbronza, ma alla fine è meglio così.”
Ero
immobile e muto a incassare quel duro colpo.
“Vedi
Daron, la fortuna non è stata dalla mia parte. Non è
facile andare avanti così, però bisogna farlo e non ci
sono tante alternative. Guardami: non riesco più neanche a
piangere, non provo più emozioni!” Si indicò il
viso. “Per le strade sono tutti falsi e approfittatori, le
emozioni sono inutili quando l'unica cosa che conta è
sfruttarsi a vicenda. E quei ricconi bastardi che stanno al governo
che fanno per noi? Ci portano via dalle strade per caso? No, perché
loro hanno i loro fottuti soldi... e io qui a battere per mangiare!”
si infervorò, prendendo a gesticolare.
“Non
è giusto, cazzo! Questo che ci circonda non è giusto,
quello che fai ogni giorno non è giusto, questo mondo di merda
non è giusto! Prendi tutto e scappa via Hilary, ti do io i
soldi. Manda a fanculo tutti; io non posso accettare di vedere te e
tanti altri ridotti a questo modo! Magari non sarò in grado di
salvare chissà quante vite, ma voglio che almeno tu abbia un
futuro. Vai via da queste strade!”
Avevo
pronunciato quelle parole con una passione tale che mi ero sorpreso
di me stesso; avevo afferrato le mani di quella ragazza così
fragile e distrutta e le avevo strette tra le mie. Volevo donarle
nuova vita, nuovo calore, nuova forza.
Non
poteva essere vero che Hilary avrebbe dovuto vivere così per
sempre.
La
vidi sorridere per la prima volta; era un sorriso privo di qualsiasi
gioia, ma allo stesso tempo il più bello che avessi mai
ricevuto.
“Chitarrista,
io non posso scappare e non posso prendere i tuoi soldi. Sono una
puttana, sono una disagiata, ma non una piattola. Tante volte ho
sognato di scappare, ma poi mi sono resa conto che l'unico modo per
andarmene è uccidermi. È che io non ho il coraggio per
suicidarmi. Forse è giusto che vada così, che io viva
così, forse è una specie di punizione del destino o di
Dio o di chiunque governi questo fottuto mondo. Qui per la strada in
fondo ci si può procurare di tutto... tranne una cosa: gli
abbracci, quelli veri che ti fanno sciogliere il cuore, hai presente?
Qui ti puoi comprare sesso a volontà, ma gli abbracci non te
li compri. Scusa se straparlo e dico cose a caso, ma sono ubriaca.”
Io,
Daron Malakian, la persona più misantropa che possa esistere,
quel giorno decisi di levare la maschera di inibizioni e difese che
mi ero costruito e strinsi Hilary in un abbraccio sincero, di quelli
che fanno sciogliere il cuore. Avete presente?
Non
potei fare a meno di cullarla tra le mie braccia, difenderla da quel
luogo che l'aveva generata e che la stava divorando. Lei, intanto,
piangeva tutte le lacrime che non credeva di possedere e ripeteva che
da anni i suoi occhi erano asciutti.
“Scusami
se ho pianto come una bambina rincoglionita” si scusò
infine quando si fu ripresa, ancora aggrappata al mio braccio destro.
“Vieni
via da qui?” le domandai nuovamente, stringendole forte una
mano.
“Non
posso. Però ti voglio chiedere una cosa: racconta la mia
storia, scrivi una canzone per me.”
“Ti
prometto che lo farò, racconterò la storia di te e di
tutte voi.”
Hilary
si alzò e si mise faticosamente in equilibrio sui suoi tacchi.
Io la imitai e con un piede schiacciai i resti della canna a un lato
della strada.
“Ora
devo andare, chitarrista. Grazie di tutto, sei il mio chitarrista
preferito. Ti voglio bene, mi hai fatto sciogliere il cuore”
concluse con un sospiro, per poi stringermi di nuovo in un abbraccio.
Sentivo le sue esili braccia aggrapparsi a me come se il suo corpo
potesse cedere da un momento all'altro. Quando quel contatto terminò,
mi strinse ancora la mano e prese a esaminare distrattamente con il
pollice un anello che indossavo. “Un giorno ci rivedremo”
mormorò.
“Un
giorno ci rivedremo” convenni; lasciai andare la sua mano e le
regalai una carezza sul viso, sistemandole una ciocca di capelli
dietro l'orecchio.
Hilary
si allontanò lentamente, da sola, lungo quel marciapiede di
incertezze e sofferenza. Poi si fermò e si voltò verso
di me con un sorriso sulle labbra, il secondo, stavolta con gli occhi
lucidi di pianto. “Ricordati della canzone. Ci conto, Daron”
concluse, per poi nascondersi di nuovo nell'oscurità e sparire
nella notte.
Sospirai
e rimasi immobile per qualche altro minuto, mentre un gelido soffio
asciugava le lacrime di Hilary dal mio giubbotto e dai miei capelli.
Fissavo
l'oscurità con gli occhi carichi di rabbia, una rabbia cieca
per chi aveva permesso tutto questo.
Poi
mi lasciai inghiottire nuovamente da Los Angeles, divorato dalla
consapevolezza che non avrei mai più visto quella ragazza.
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Avevo
queste parole e questa canzone dentro di me da troppo tempo. Non so
cosa mi sia preso e non so che dirvi; so solo che mentre scrivevo mi
sono commossa tanto e ci ho messo davvero tutta me stessa.
Forse
quest'immagine di Daron è la più sbagliata che potessi
trovare, ma tra queste righe non poteva essere in nessun altro modo.
Ringrazio
Hanna McHonnor per la sua richiesta di approfondire il
personaggio di Hilary, quando lesse Crime Witbout Face mesi e mesi
fa. Le avevo promesso che avrei scritto qualcosa su di lei e non me
ne sono mai dimenticata.
Ringrazio
Kim_Sunshine per avermi fatto conoscere i System Of A
Down tanti anni fa, per avermeli fatti amare e per un miliardo di
altri motivi.
Ringrazio
StormyPhoenix per avermi fatto adorare Daron e i System
Of A Down con la sola forza di una sua storia.
Senza
loro tre non sarei mai riuscita a scrivere una fanfiction.
Ringrazio
chiunque sia arrivato fin qui.
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