Alba Cosacca
Prima classificata al contest
“Pazzi/e/ie…
d’amore”
indetto da
Nirvana_04 sul forum di Efp.
Alba Cosacca
Il rumore di un
bacio non è forte come quello di un cannone,
Ma la sua eco dura
molto più a lungo.
(Olivier W.
Holmes)
na carezza al
manto nero del suo
cavallo.
Vania che la guardava come la prima
volta, perso su quella pelle arrossata, sulla camicetta di cotone
stretta in
vita, sulla sua reazione sorpresa ai racconti di Polina.
“Tedeschi”,
“invasione”, “guerra”.
Parole
confuse senza alcun valore.
Non avevano importanza, non se arrivavano da sua sorella.
Darya continuava ad ascoltare, la
fronte corrugata.
La voce di Polina giungeva ovattata,
mentre ogni respiro dell’altra tuonava nel petto di Vania, al
pari di un colpo
di pistola.
“È
la verità, Vania.”
Un nitrito, lo
zoccolo che batteva a
terra, il fiato caldo del cavallo come una nuvola di vapore attorno a
lei.
Era bella, brava a montare come un
uomo, fiera e indomabile.
In tempi diversi sarebbe stata
arruolata nel Battaglione della Morte, pronta anche a morire per lo Zar.
“Vania…”
Ma ora niente
più Zar. Niente più
Battaglione della Morte.
Per entrare nel battaglione cosacco
di sole donne, Darya sarebbe dovuta passare al nemico.
Alcuni lo avevano fatto. Hitler aveva
promesso terre e libertà, concessioni che Stalin stringeva
tra i denti,
lanciando occhiate malevole a chi aveva combattuto contro i bolscevichi
nella
rivoluzione russa.
“Vania.”
Strinse la mano
intorno alla nagaika,
la sua frusta, giusto un istante prima di spingere il colbacco indietro
sulla
fronte.
Se fossero stati altri tempi…
«Vania!»
Era Darya.
Fissare le sue mani e la
curva del braccio era servito solo a fargli perdere la concentrazione.
Ignorò Polina, che continuava a
brandire la croce ortodossa legata al collo come un’arma.
Vania pensò che avrebbe fatto meglio
a nasconderla sotto gli abiti. La sua croce, ritenuta un crimine in
epoca
sovietica, era diventata un’icona cucita nella fodera interna
del cappello.
«Vania,
hai sentito?» ripeté Darya. «Dovrai
partire insieme agli altri.»
La
guardò negli occhi, leggendo il
suo messaggio: “e noi non ci
vedremo
più.”
Era possibile.
In tanti erano partiti, ma quanti
erano tornati? Quanti erano tornati vivi?
Alcuni avevano tradito, altri erano morti. A lui quale sorte sarebbe
toccata?
«Polina
è una bugiarda, Dasha.»
«Cosa?»
Vania estrasse
la nagaika. «Sei una
bugiarda, Pola. Torna a casa.»
Lei
indietreggiò. Un altro nitrito,
il sentore della violenza nell’aria. «Non puoi
usarla» disse. «Il Consiglio…»
«Il
Consiglio non è qui.»
Un’occhiata
veloce a Darya, poi sua
sorella cominciò a correre.
Il terreno era bagnato di neve,
eppure Vania la vide raggiungere il villaggio senza alcuna fatica.
«Non
lo avresti fatto» sussurrò
Darya, posando entrambe le mani sul costato caldo
dell’animale.
«No.»
«Lo so.»
Fece un passo
verso di lei. «Volevo
restare con te.»
«So
anche questo.»
Sorrise, e Vania
pensò che per un
bacio, per un suo sì,
avrebbe
attraversato anche l’inferno. E ne sarebbe tornato.
Se Polina aveva detto il vero… perché
lui non ne sapeva niente?
Perché nessuno gli aveva detto che i
carri armati tedeschi lo aspettavano, che attendevano una loro
imboscata, un
loro attacco?
A cavallo, impugnando la spada, puntando
i fucili contro i comandanti che sporgevano dalle torrette.
Quando
un cosacco è a cavallo solo Dio è più
grande di lui. [1]
Quel pensiero lo riempiva d’orgoglio.
E non riusciva a idealizzarlo meglio che non posando gli occhi su
Darya. Fiera,
libera, indomabile… una cosacca perfetta; proprio come lui.
«Quindi
andrai?»
Vania
annuì. «Se andranno anche gli
altri, sarà mio compito seguirli.»
«Lascerai
il villaggio?»
In
realtà non pensava che i tedeschi
potessero spingersi così a est. I suoi compagni avevano
detto che non sarebbe
successo… Eppure, pensò, era per questo che erano
tornati a casa.
Per difenderla.
«Sì.»
Darya
voltò tutto il corpo verso di
lui. «E a me non pensi?»
Vania la
raggiunse, cingendola per la
vita. «Dashenka…» mormorò,
tirandola verso di sé.
Avrebbe voluto
aggiungere mille cose,
mille parole che si sarebbero perse nel rosso di quella sera.
L’avrebbero
aiutata a ricordare quel momento? O bastava lui, bastavano loro, per
non
dimenticare?
Si
chinò su di lei – guance
arrossate, espressione imbronciata -, facendo scontrare le loro fronti.
Darya si
tirò indietro quando sentì
il colbacco scivolarle dalla testa, e Vania si piegò con
lei, unendo le loro
risa, assorbendo il suo odore.
Sapeva di tante cose, ma più di tutto
riconobbe il profumo dolciastro del pelo di cavallo, e capì
che quel giorno si
era allontanata per cavalcare.
«Dashenka…»
mormorò di nuovo,
soffiando l’alito bollente dall’orecchio alla sua
guancia. «Dove sei stata?»
Lei
raddrizzò il capo; strinse gli
occhi. «Me lo stai chiedendo ora?»
Vania la cinse
più stretta, come se
potesse sfuggirgli. Abbassò lentamente il capo con un
sorriso.
Darya incrociò le braccia al petto,
costringendolo ad allentare la presa. Scosse la testa con aria
divertita.
«Capitano
Vania… mi aspettavo di più da lei.
Mi…»
«Non
sono capitano» la interruppe.
«Cosa ti aspettavi?»
Stava calando il
buio, eppure
riconobbe quel suo sguardo, quello con il quale riusciva a incantarlo.
Quella
sua orrenda imitazione delle occidentali e dei loro modi civettuoli.
«Lo
diventerai» disse, seria. Poi
voltò il corpo verso le luci del villaggio, verso il fumo, i
suoni, le voci.
Sembrò perdersi in quel disegno, eppure, pensò
Vania, non toccava a lei
salutare tutti. Non toccava a lei partire.
Quando roteò tra le sue braccia,
tornando a guardarlo, la vide sorridere. Decisa, sincera, innamorata.
Non c’era ombra di tristezza sul suo
viso.
«Capitano
Vania, o anzi! Anzi! Ho trovato il nome perfetto!» Si
chinò appena in avanti,
sollevando il mento verso di lui. «Compagno
Vania.»
«Tu
scherzi, ma dovresti davvero
chiamarmi così.»
Lei
sollevò il dito per zittirlo e
scosse il capo. «Non ci sente nessuno. Ora, Compagno Vania,
hai intenzione di
sprecare questa serata?»
Le dita di Vania le artigliarono la
gonna. «Sprecare?»
«È
quello che stai facendo…»
La guerra, la
morte, il combattimento
che avrebbe dovuto affrontare. Tutto divenne sfocato. Le immagini dei
carri
armati tedeschi che avanzavano nella loro madrepatria, la sensazione
del
cavallo sotto di sé mentre si lanciava al galoppo contro il
nemico, mentre le
esplosioni intonavano canti di morte intorno a lui; mentre uomini,
animali, amici, saltavano in aria,
affollando il
mondo intorno a lui di caos e violenza.
Corpi a terra, sangue, membra,
immagini che gli sarebbero entrate negli occhi e nella mente, per
sempre. E
Darya. Il viso di Darya che galleggiava su una nuvola davanti a lui,
mentre
spingeva il cavallo al galoppo, mentre gli chiedeva di correre
più veloce.
«Vania?»
Vania si
riscosse. La attirò a sé, la
strinse tanto da farle male. Non la sentì lamentarsi mai,
nemmeno quando affondò
la testa nell’incavo del suo collo, avviluppandola nel suo
abbraccio
soffocante.
«Vania…»
Aveva capito.
Doveva averlo fatto.
Era una debolezza, la sua? Era una debolezza voler trascorrere quella
notte con
lei, solo, invece di correre a riempirsi lo stomaco di vodka?
Non sapeva ancora quante ne sarebbero
trascorse prima di ripartire. Non lo sapeva, e voleva approfittare di
ogni
istante per fuggire dalla realtà della guerra.
«Dashenka»
la chiamò, scostandosi
appena.
Parole
soffocate, inutili, sprecate.
Se voleva dirle
qualcosa poteva farlo
in un altro modo. Una carezza rude, brusca, le mani che si rincorrevano
sulla
sua schiena, il respiro unito al suo.
E poi un bacio, affrettato, ruvido,
bagnato, che aveva in sé il sapore della battaglia, della
libertà conquistata,
della sua fede ortodossa. Un altro, un altro ancora, esplosioni che si
rincorrevano nella sua mente, cannoni che eruttavano come vulcani,
cosacchi che
cadevano come occidentali.
Cavalli sollevati da terra, gli
ultimi nitriti, respiri, richieste d’aiuto.
Vania li avrebbe
portati con sé: ogni
tocco, bacio, sussurro. Sarebbero stati il suo amuleto,
l’angelo sulla sua
spalla sinistra, la sua croce tatuata addosso.
Erano accampati,
in attesa di un
segnale.
All’alba,
se il Comandante lo avesse
ordinato, sarebbero partiti. I tedeschi erano vicini, Vania lo aveva
sentito
dire, e non vedeva l’ora di affrontarli.
Afferrò la bottiglia di vodka,
incrociò le gambe davanti al fuoco semi spento,
restò ad ascoltare le battute
dei suoi compagni, le loro risate.
Gli mancava il
villaggio con i suoi
canti, con le sue risa possenti. Gli mancava il villaggio, anche se
l’aveva
lasciato da un solo giorno.
Decise che in
battaglia, quando in
sella al suo cavallo avrebbe affrontato quei mostri di ferro, avrebbe
pensato a
Darya. Ai suoi baci. Al tempo trascorso con lei.
Il resto della cavalleria si svegliò
poco dopo, mentre la notte cominciava a perdere la sua
oscurità.
Era
ora.
Un cenno, gli
uomini che
raggiungevano i cavalli, che facevano colazione con la vodka.
Movimenti lenti negli occhi di Vania,
eppure l’animo della battaglia era in loro. In tutti loro.
Montò in sella, seguì gli altri,
marciò finché il braccio del Comandante non diede
l’ordine di fermarsi.
Erano
lì.
Due carri armati
tedeschi, separati
dalla battaglia. Forse aspettavano il loro momento, forse difendevano
un punto.
Vania non lo sapeva. Non gli
importava.
Da un momento all’altro avrebbero
caricato, sparando ai comandanti sulle torrette, e attirando i carri in
un’imboscata. Su una striscia di ghiaccio, o dove si
sarebbero impantanati…
“Vania.”
La voce di Darya… Lei lo avrebbe
accompagnato in quell’impresa, gli avrebbe dato coraggio.
Più della vodka, più
degli incitamenti dei compagni.
«Vania.»
No.
Non
era possibile.
Vania strinse le
redini. Poi le
appoggiò al garrese e tolse un guanto. Erano fermi, in
attesa. E la sua mano
cercò il contatto con il collo caldo del cavallo, mentre lui
socchiudeva gli
occhi.
Non
era possibile.
«Vania!»
Quando si
voltò, il compagno al suo
fianco sfilò la fascia rossa dal volto. Era lei. No. Non era
possibile. Non
doveva essere lì. Caftano, pantaloni larghi grigio-blu,
stivali, cappuccio di
pelliccia, colbacco. Fascia rossa.
E sotto la divisa, sotto quegli abiti
maschili, c’era lei. Darya.
«No!»
Allungò
le mani per rubarle le
redini, ma a Darya bastò spostare il peso di lato
perché il cavallo la
imitasse, seguendo i suoi movimenti.
Era brava a cavalcare, brava quanto
un uomo.
«Sei
pazza.»
Il
voltò di lei si indurì. Scorrendo
gli occhi sul suo viso, Vania raggiunse l’orecchio, vide cosa
c’era sotto il
cappello. Rasata. Testa rasata.
Come
le donne del Battaglione della Morte, come le cosacche che combattevano.
«Sono qui per te» disse lei,
sollevando la fascia sulla bocca.
«Non
avresti dovuto. Ti farai
uccidere, Dasha. Morirai, e allora cosa dirò a tuo padre?
Cosa dirò al
villaggio?»
Darya
mandò il piede più a fondo
nella staffa. Sbuffò, e il cavallo con lei. «Se
è per loro che ti preoccupi…»
«Mi
preoccupo per te» la interruppe.
Poi fece una pausa. «Mi dispiace» aggiunse.
«Ma devo dirlo al Comandante.»
Forse lui l’avrebbe rimandata a casa.
Sì, l’avrebbe costretta, dicendole che una donna
deve fare quanto comanda
l’uomo. Il suo uomo. E per il momento, era a suo padre che
Darya doveva rendere
conto…
Fece per avanzare, ma Darya spinse il
cavallo contro il suo, facendo innervosire l’animale.
«Voglio
venire con te, Vania. Ormai
ho deciso, non puoi fermarmi.»
«Dashenka…»
Era lei che
amava. Era per quel
temperamento, quella sua aria ribelle, che l’aveva desiderata
la prima volta.
Quando suo fratello l’aveva colpita, spingendola a terra.
Darya si era
rialzata, lo aveva sfidato con uno sguardo, con una parola, e Vania era
intervenuto per fermarli.
Avrebbero
combattuto insieme. Fianco
a fianco. Il cannone avrebbe tuonato per loro, li avrebbe spronati a
continuare, a spingere i cavalli al galoppo, ad affrontare la morte.
Se fossero sopravvissuti, allora
Vania l’avrebbe presa in moglie, tornando nel villaggio senza
separarsi più da
lei.
«Lasciami
venire» lo supplicò Darya.
Non ebbe il
tempo di pensare. Il
braccio del Comandante volò verso l’alto, il suo
grido di battaglia riecheggiò
tra le file, fino a loro.
Non un comando, non un gesto, il
corpo stesso che si muoveva dominando il cavallo, incitandolo a correre
verso
il nemico. Verso il pericolo. Verso la morte.
Darya si mosse
insieme a lui, in una
danza diversa da quella che avevano condiviso; partì al suo
fianco, sgolandosi
in urla che chiamavano la violenza.
Il cavallo sotto di lui, lei al suo
fianco, pazza e indomabile, ribelle come doveva essere un cosacco,
bella come
quell’alba in cui avrebbero affrontato i tedeschi.
Vania
sentì salire alle labbra il
sapore di quei baci, che sembravano durare in eterno. Più
delle esplosioni, più
delle battaglie, più del pericolo. Oltre la vita. Oltre la
morte.
L’eccitazione
corse lungo il suo
corpo, brivido su brivido, mentre affondava i talloni nei fianchi
dell’animale,
mentre i carri armati erano sempre più vicini.
La torretta di guardia ruotò
verso di loro.
Poi,
tuonò il cannone.
Note
dell’autrice:
[1]
bellissima frase presa in prestito da Robin Wood.
Ho aspettato
l’ultimo giorno per
pensare a una storia per il Contest. Poi ho capito che sarebbe stato
più
semplice dedicarmi a uno storico, il
genere che ha visto crescere la mia scrittura nel corso degli anni.
Non sono solita riportare date e
prove, ma questo non significa che le informazioni contenute
all’interno del
testo siano fasulle. I comunisti odiavano le religioni, così
come odiavano i
Cosacchi per aver combattuto per lo Zar. Hitler aveva davvero i suoi Cosacchi. Tradizioni e
costumi sono
frutto di vecchie ricerche, un pochino arrugginite nella mia mente.
Ho preferito parlare di loro in
generale, senza fissarmi su un dato gruppo. In quel caso sì
che avrei combinato
pasticci!
Celtica
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