Have a little fairy tale

di Cassie chan
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Capitolo 47: Disturbia, step two: about serendipity (part I)

 

7 dicembre

 

 

 

Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, era sempre stata una donna gelosa della sua apparente perfezione ed invulnerabilità. Mai un’assenza dal lavoro per malattia, mai un raffreddore complicatosi in febbre, mai un’influenza non stroncata sul nascere, mai un’intossicazione alimentare immediatamente prevista e sanata alle prime avvisaglie. 
Odiava stare male, ma soprattutto odiava stare a letto. 
Suo marito la derideva, dicendo che in realtà quello che lei non sopportava, era non andare al lavoro. Era una canzonatura gratuita che perdurava dai tempi della scuola quando nelle rare occasioni in cui si ammalava, si perdeva i compiti in classe, le lezioni supplementari, le spiegazioni vitali. Harry e Ron non erano mai in grado di supplire alla sua meticolosità ed impegno nel prendere appunti o registrare nozioni. Lei fingeva di prendersela, sbuffava accoccolata nelle coperte calde, incrociava le braccia e dopo rideva, scuotendo il capo.
Da valente dipendente del Ministero, la scenetta era proseguita ed Hermione non aveva fatto nulla per cambiare registro. 
Solo lei poteva sapere che, adesso, non le pesava tanto prendersi un’assenza da un lavoro che non amava fare. Poteva infastidirla, certo. Poteva preoccuparsi per ciò che sarebbe accaduto in sua assenza, probabilmente. Poteva supporre che al suo ritorno il lavoro sarebbe triplicato, certamente. Ma non era quello che la mandava in panico. 
La terrorizzava restare a letto per troppo tempo, arrendersi al fatto che avrebbe dormito di più, piegata dalla febbre, dalla spossatezza e persino dalla noia. 
Dormire troppo la inquietava come niente al mondo. 
Non ricordava mai i suoi sogni. Erano solo lampi dorati nel bianco, nulla di cui terrorizzarsi. 
Ma solo una volta, sette giorni dopo la partenza di Rose, quando si era presa un brutto raffreddore, lei aveva fatto un sogno che non aveva mai dimenticato. 
E che adesso, ogni notte prima di dormire, temeva di rifare… e che ogni volta che ora pensava di ammalarsi, rivedeva affacciato sulle soglie della coscienza come una bestia in agguato. 
Non c’erano assassini comparsi nella notte con delle maschere bianche. Non c’era nemmeno un mostro risorto dall’infanzia per occhieggiare da sotto il letto. Non c’era nemmeno Voldemort e un’immortalità mai raggiunta. E non c’era tantomeno la sofferenza dei suoi amici o della sua famiglia. 
C’era solo lei. Immobile, in una piazza di paese sferzata dal vento. Il cielo grigio vomitava fulmini, ma non pioveva. Attorno, sedie spezzate, banchetti distrutti, scaglie di vetro come se ci fosse stato un terremoto. E, lontano, un palco abbandonato. 
Lo guardava e basta, e non respirava. Lo guardava, e moriva soffocata. Lo guardava, e sapeva che le stavano strappando il cuore. Lo guardava, e voleva essere ovunque tranne che lì. Ed al contempo non era possibile andare via, perché era lì che doveva stare. E poco importa che il cuore non c’era in petto, poco importa che si graffiava le mani, poco importa tutto… lei lì doveva stare, non in nessun altro posto. 
Piangeva, persino da sveglia pianse. Nelle braccia di suo marito, singhiozzando senza ritegno. 
“E’ stato solo un sogno, Mione… un incubo. Calmati, adesso…”.
“I-io… dovevo stare lì… non in un altro posto…”. 
Lo ripeté per ore nel delirio della febbre, prima che Ron le dette un blando sedativo per farla calmare. E dormire senza sogni. 
Le raccontò tutto al risveglio, quando era più calma. Lei ricordò il sogno e la sensazione di squarcio al petto, ma non seppe collegarlo a niente della sua vita. 
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, diceva di non voler stare a letto perché perdeva solo tempo ed aveva mille cose da fare. 
Ma dentro sapeva di mentire.
Lo sapeva perché, quando stava male, prendeva sempre una sola pozione. 
Un sedativo che non la facesse sognare.

 

 

“Sì, allora: ora mi ascolti molto attentamente, ok? Ti scandisco bene le parole, così sono sicura che mi segui, va bene? D’accordo? No, Leda, certo… sì, hai ragione, non sei tu, è lo schedario che è proprio un trip mentale da sturbo, e quindi tu giustamente, povera cara, non ti raccapezzi. Quando torno a lavoro, ci mettiamo mano assieme… sì, sì, certo, ci metto mano io, non sia mai che ti si scheggiano le unghie. No, no, che sarcasmo… sono sinceramente preoccupata delle tue falangi, che scherzi… torniamo a noi. Scaffale C. C… insomma come Cardiff, Cleveland, Corinto… ecco, C come Chanel. Hai trovato?! Ok, perfetto. Andiamo avanti… fila 14. Sì, quattordici. Sì, quando hai perso la verginità, potevo anche non saperlo, andiamo avanti… c’è una cartellina azzurra. Che significa azzurra come? Cielo, mare, puffo?! Comprendi? Non ce ne sono otto di azzurre, ce ne solo una… descrivile, Leda! Sì, sì, ecco, brava… quella color Tiffany. Brava. La pratica Latimore è lì. Torno dopodomani al lavoro, fanne tre fotocopie e mettile sulla scrivania… sai, quel mobile rettangolare con i cassetti? Perfetto, meriti una promozione, ciao cara, a lunedì”.

Riaggancio il telefono con un colpo di falangi perfettamente calibrato, in modo da esprimere la mia indignazione senza però scardinare il tasto rosso del cellulare. Mi abbandono drammaticamente contro i cuscini del mio letto, ammonticchiati contro la testiera, lasciandomi andare ad un sospiro esausto come se avessi percorso quattordici miglia a piedi nel deserto: l’esasperazione e la stanchezza di una conversazione con la mia segretaria, del resto, battono qualsiasi Parigi – Dakar pedestre, aggiunta ad una serie di maratone di New York e a tredici scalate del K2. Considerando poi che sono ancora convalescente, mi sento sfibrata da questi otto minuti scarsi di conversazione.

Accanto a me, dopo una serie di versi trattenuti, scoppia finalmente una risata lunga e liberatoria, di gola, profonda, proveniente dalle voci congiunte dei miei cognati, venutimi a trovare per poi ritrovarsi spettatori dell’intera conversazione. Harry si stringe le costole con le mani, come a trattenersi nel corpo le viscere sul punto di fuggire per la grande ilarità, mentre Ginny scoppia nei suoi soliti gorgheggi acuti e ritmici, che la rendono simile ad un mantice in iper-lavoro.

Roteo gli occhi al cielo, incrociando le braccia nel mio pigiama di cotone azzurro, bofonchiando caustica: “Sono contenta che la cosa vi diverta… ma con il suddetto personaggio, da lunedì io ci avrò a che fare di nuovo ogni santissimo giorno, posso subaffittarvela se vi piace così tanto… non sia mai che sia una mia sola esclusiva…”.

Harry torna serio di schianto, mentre Ginny si asciuga le lacrime con il dorso della mano, prima che il marito proferisca solenne: “Non se ne parla nemmeno. L’oca è tua e te la tieni tu. Sei sempre stata più crocerossina di me...”.

“… d’altronde hai sposato Ronald! Più di questo!” commenta gaia Ginny, facendo scoppiare di nuovo a ridere Harry e trascinando stavolta nella risata anche me. Esauritasi il momento di divertimento, cala un silenzio piacevole, quieto e rilassato. Con lo sguardo socchiuso, guardo fuori dalla finestra della mia camera da letto: sembra una giornata stranamente trasparente persino per Londra. Il vento di tramontana ha pulito l’aria e, tra comignoli ed antenne tv, il mio angolo di cielo è azzurro intenso. Lo fisso per qualche secondo, lasciando che mi riempia di pace.

“Come va allora, Herm?” mi chiede Ginny con un filo di apprensione, non ci vediamo dal giorno del mio svenimento alla Tana e comprendo solo in quel momento che l’ha impensierita parecchio. Mi ha chiamato spesso, si è fatta sentire ogni giorno come mia suocera e le mie altre cognate, ma non è mai potuta passare da me, sebbene fosse così vicina. Lily, infatti, ha avuto l’influenza ed è stata persino più intrattabile del consueto, monopolizzando tutte le sue attenzioni. Del resto, il mio malessere è stato liquidato come semplice stress e come necessità di un periodo di riposo, quindi non ero propriamente una malata terminale. Anzi, il fatto che mi abbiano lasciata in pace deve essere sembrato loro il migliore dei contributi per la mia guarigione.

Cosa che ho decisamente apprezzato.

Nonostante tutto, non so come rispondere alla sua domanda. Sul come stia. Sono stata dieci giorni in malattia, a casa, cosa che a suo modo è stata anche piacevole. La diagnosi di forte stress ha fatto sì che fosse creata attorno a me una sorta di campana di vetro immunizzante dal mondo esterno, e quella è stata decisamente la parte migliore. Ron ed Hugo hanno funto da guardie armate del mio benessere, imponendomi di restare a letto, di non stancarmi, di non contattare l’ufficio, di non seguire le beghe famigliari per la faccenda di Teddy e Victorie. Hanno quindi filtrato lettere e telefonate, messaggi e visite, con il risultato che mi sono dedicata solo a televisione e libri, ad uncinetto e minestrine di pollo, fingendo di lamentarmi ma in realtà rinfrancandomi della pace. Ron e mio figlio sono stati due ottimi infermieri, specie perché hanno spinto ogni litigio fuori dalla porta della mia camera da letto, mostrandomi sempre la loro immagine più ordinata e compita e portandomi sempre notizie rassicuranti e piacevoli, come se fossi in una sorta di bambagia mentale. Avrebbe dovuto darmi fastidio, in certi momenti ho persino finto che fosse così per rassicurarli sul fatto che fossi sempre la solita. Ma in verità ero oggettivamente così esausta che accoglievo le loro premure con tutta la provvidenzialità del caso, mostrando un viso sempre più sorridente ed un appetito sempre maggiore.

Ma la nausea non è mai passata. Ha solo cambiato forma, diventando più lieve ed accompagnandosi ad una serie di vertigini di pochi attimi.

Loro, ovviamente, non lo sanno: mi spingerebbero a maggiori controlli, mi rimprovererebbero perché non ho preso la medicina della dottoressa chiamata da Ron, mi pungolerebbero continuamente. Ho certamente intenzione di approfondire la cosa, ma per conto mio, senza che nessuno me lo faccia notare costantemente. La vedo come una cosa innocua, come viene, passa. E magari è solo un po’ di gastrite: nulla di cui preoccuparsi. 

Non ho avuto più episodi allarmanti, del resto.

I picchi più forti sono stati durante una replica di “Orgoglio e Pregiudizio”, dove per fortuna ero sola e nessuno se ne era accorto. Lì, alla scena dove si scopre che Wickham aveva sedotto in passato la sorella di Darcy, mi sono piegata in due sul copriletto pronta a rimettere anche l’anima. Ma, alla fine, era passato tutto. Quindi avevo sorvolato.

Solo che, naturalmente, alla domanda di Ginny per un attimo guardo il copriletto rosso e le mie mani conserte, chiedendomi se non dovrei dirle la verità. Lei, in fondo, frequenta molto il San Mungo e gli ambienti medici, mentre cerca di diventare volontaria, molto probabilmente potrebbe aiutarmi meglio di chiunque altro. Poi ricordo che Ginny è in primo luogo la mia apprensiva ed ansiosa cognata, quindi decido di tacere.

"Tranquilla, Gin…” sussurro con un filo di voce, affidando la secchezza delle parole ad un sorriso rassicurante “Sto bene adesso". Sia lei che Harry sembrano studiare tutte le linee del mio viso alla ricerca di un qualsivoglia segnale che possa sbugiardarmi. Apparentemente quello che vedono sembra consolarli, e quindi lasciano perdere.

Ginny, però, improvvisamente si batte le mani come se si fosse ricordata di schianto di qualcosa e, sotto il mio sguardo indagatore, raccoglie la borsa che aveva lasciato in un angolo della stanza, ci fruga dentro mentre impreca tra sé e sé, scansando cianfrusaglie. Infine, vittoriosa e soddisfatta, ne estrae un piccolo sacchettino consunto di velluto rosa sporco.

Me lo lancia in grembo, aggiungendo sfottente: “In ogni caso, questo te lo manda la geniale promessa della medicina moderna". Afferro il sacchettino con due dita, un po’ intimorita, quasi memore dell’avvertimento adolescenziale di star attenta a qualsiasi dono di un fratello Weasley perché potrebbe rivelarsi un Tiro Vispo che stanno ancora mettendo a punto usando te come ignaro esperimento. Tocco il contenuto, sembra una sorta di polvere molto granulosa, ed allentando il cordoncino del sacchetto, mi si rivela come una manciata di fiori secchi di colore misto tra il carminio e lo scarlatto. Mi raggiunge le narici un odore che ricorda la fragola e il sandalo.
Guardo Ginny, inarcando un sopracciglio: "Dovrei capire qualcosa, adesso? No, perché io vedo solo un sacchetto di fiori secchi…”, poi ricordo il suo accenno ad una fantomatica promessa della medicina e chiedo perplessa: “Di chi diamine stai parlando?". 

Harry trattiene una risata mentre Ginny bofonchia qualcosa a mezza bocca, assumendo l’espressione scocciata che aveva a scuola quando le chiedevamo di Lavanda. Si mette nervosamente una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, prima di borbottare stizzita: “Herm, stai perdendo colpi. E tanti. Insomma la geniale promessa... la mia compagna di corso al San Mungo... la mocciosa, Isolde Crane". 

Al nome Isolde Crane, decisamente poco comune, finalmente mi si accende una flebile lampadina nel cervello e collego tutti i punti.

Ginny mi ha parlato spesso di questa sua compagna di corso del San Mungo, inserendola in tutta una serie di discorsi e lamentele che ho sempre ascoltato fingendo partecipazione emotiva, ma in realtà divertendomi tantissimo per come definiva la suddetta ragazzina.

Il corso che sta frequentando Ginny, infatti, è propedeutico a diventare volontarie in ospedale appunto, cosa che vorrebbe fare lei: quindi studia nozioni di pronto soccorso, di psicologia per l’aiuto dei pazienti, di erbologia spiccia e così via. Ginny, alla sua età, ormai può ambire solo ad essere una volontaria nei casi in cui l’ospedale abbia delle carenze di personale, o in casi sciagurati di particolari emergenze, o comunque quando Ginny vorrà fare volontariato. Ma per le ragazze più giovani, che stanno frequentando la scuola per diventare Medimaghe, questo corso è una sorta di primo vero e proprio test di vita all’interno delle dinamiche ospedaliere, nonché un’occasione per accumulare crediti formativi. Perciò è abbastanza normale che, a parte due o tre coetanee di Ginny, ci sia tutta una schiera di ragazzine di massimo una ventina d’anni che stanno frequentando la scuola e contemporaneamente seguono anche questo corso.

La maggior parte di loro ha preso in simpatia Ginny e le sue amiche, che considerano molto giovanili ma che comunque danno loro la dolcezza confortante di mamme, e quindi non insistono a sottolineare il fatto abbastanza scontato che loro stanno studiando per diventare dottoresse ed invece nel loro caso, è solo un hobby da casalinghe annoiate.

Questo commento invece, variamente infarcito, è una delle costanti di Isolde Crane.

Per sfortuna di Ginny, Isolde è anche una ragazza molto intelligente e dotata. È già entrata nell’Accademia medica a soli diciassette anni ed ora, a diciannove, è la più talentuosa e promettente del suo corso di studi, al punto che alcune sue ricerche sono state già pubblicate sulle riviste mediche di mezzo mondo.

Lei e Ginny, quindi, si scornano amichevolmente dal primo giorno: Isolde sminuendone l’impegno, Ginny sminuendole l’intelligenza. E puntualmente quando Ginny torna a casa, rimarca per due ore e mezzo con accenti piuttosto comici e grotteschi sulla sua arroganza e presunzione, sulla sua maleducazione e mancanza di rispetto per gli adulti, fino a giungere alla “piega stupida del suo padiglione auricolare” ed alla “penna idiota color rosa shocking che usa per scrivere”.

Quindi mi sembra oltremodo strano che Ginny, preoccupata della mia salute, si sia rivolta alla sua arci-nemica e che quest’ultima, grondando miele, le abbia dato persino un rimedio per me.

Che possa restare vittima di una vendetta trasversale?

Lo penso con un filo di panico fin troppo veritiero, e quindi tengo il sacchettino tra le dita come se contenesse nitroglicerina, esplodendo torva: "E che c'entra lei adesso con il fatto che non sto bene? Glielo hai detto tu? Non mi sembra di essere chissà che caso medico. Stress, vertigini e nausea... ci faranno una ricerca scientifica sopra, faranno pure una raccolta fondi con il numero verde in sovrimpressione". 

Ginny si inalbera subito, punta sul vivo dalla velata accusa per cui lei ed Isolde possano essere amiche del cuore, incrocia le braccia al petto con un atteggiamento che aveva anche da ragazzina quando si innervosiva, e sbuffa giustificandosi con voce accorata: "Senti, stavo parlando con Harry al telefono per chiedere come stessi. Lei si è materializzata accanto a me. E mi ha dato questo sacchetto, dicendo che, se ne avessi fatto un decotto, ti avrebbe fatto bene. Tutti i tuoi disturbi sarebbero passati. < Non servono medicine, o altre pozioni date dai medici, serve solo questa... Dì a tua cognata di non prendere altro>…”. Getto un’occhiata in tralice alla macchia sul tappeto che reca ancora le tracce della medicina che mi aveva prescritto la dottoressa chiamata da Ron: si è stranamente rappresa, senza venir via. Un brivido mi sale sulla schiena, come se quella di Isolde sia una sorta di premonizione su una sensazione di fastidio che già avevo avuto. Ginny, ignara dei miei pensieri, prosegue con voce incolore, ammettendo a fatica: “Isolde è un'insopportabile saccente mocciosa, ma... ne capisce. Male che vada ti sei fatta una tisana". 
"Ma poi si può sapere che diamine sarebbe?" chiedo, annusando con un po’ più di fiducia il contenuto del sacchettino. Ha un odore buono e penetrante, sembra allargarmi le narici.
"Grani di loto rosso…” enumera Ginny come se stesse cercando di ricordare esattamente che cosa le ha detto Isolde “E' una pianta antica, ha detto, che ormai si trova raramente in natura. E' molto indicata per vincere nausee e vertigini. Mi ha spiegato che veniva usata dai Maya, ma che poi se ne sono perse le tracce: loro credevano che tali sintomi indicassero la nostalgia di un'altra vita. Il loto rosso incardinava l'anima nel corpo, impedendo che sfuggisse". 

Inarco un sopracciglio con scetticismo, prima di replicare sarcastica: “Poetica come cosa... ma non sono propriamente depressa, io". 

Un’anima che vuole fuggire dal corpo.

È un concetto particolarmente suggestivo, e mi dà esattamente di questo: della depressione di vivere una vita che non ci appartiene. Chiunque l’ha provata come sensazione nell’arco della vita, ma non mi descrive affatto al momento. Magari il mio problema è esattamente il contrario, cioè che sono troppo incardinata nella mia vita al punto di non vedere nulla di diverso dalle mille beghe quotidiane.

La nostalgia di un’altra vita.

Questa è la sola vita che avrei potuto vivere, non ne ho dubbi.

La bocca dello stomaco brucia a quel pensiero, la chiudo con la mano mettendola a tacere.
"Pensa che l'ha detto pure lei... che non sei affatto depressa…” prosegue Ginny, ignara dei miei pensieri, per poi borbottare incrociando di nuovo le braccia: “Quella secondo me è una maledetta telepata... comunque ha aggiunto che adesso serve solo ad attenuare la nausea. E che ti farà bene. Ha aggiunto poi delle ciance strane ed inquietanti, ma non l'ho ascoltata più, mi stava facendo venire i sudori freddi". 
"Che avrebbe detto?" chiedo con un filo di incertezza.

Ginny si prende tutto il tempo per rispondere, come se le parole le costassero fatica: "Ha detto:  - Il loto rosso cancella le tracce. Così il male smette di trovarti sempre - ".

La frase rimbalza nel mio cervello lasciando quasi dei pomfi, dei lividi, delle escoriazioni sulla parete dei miei pensieri. È così… inquietante, che il sacchettino nella mia mano sembra per un attimo puzzare di marcio e pesare tonnellate. Echeggia nel tessuto della mia mente l’immagine di una sorta di ombra nera simile al petrolio che, costantemente, continuamente, instancabilmente, macera chilometri per raggiungermi, scivolando piano viscida ed appiccicosa. La sento per un attimo vorticare e respirare attorno a me, come se fosse qualcosa di estremamente reale.

Per liberarmi del potere della mia suggestione, con un gesto meccanico della bacchetta accendo una candela bianca che tengo sul comodino e ho comprato qualche settimana fa, spinta da un acquisto impulsivo. L’odore dell’erba bagnata a settembre, come recitava l’etichetta sgargiante sulla scatola, mi soffia nelle narici un senso inquieto di maggiore calma.

“Merlino, la tua amica deve essere rassicurante come Bellatrix Lestrange…” biascica Harry, fingendo di trattenere un’ondata di brividi freddi lungo le braccia, strofinando le mani con energia contro le maniche del maglione “Mione, fatti un esorcismo, piuttosto!”.

La sua battuta alleggerisce molto l’atmosfera pesante che le parole di Isolde Crane hanno portato, ed io e Ginny scoppiamo a ridere simultaneamente in un modo anche troppo meccanico per non comprendere che, comunque, quel discorso è penetrato in qualche parte non troppo nascosta del nostro inconscio. Nonostante tutto, quando Ginny cerca di prendermi il sacchettino dalle mani, la fermo con il palmo della mano aperta.

Per un qualche eccesso di fiducia che io stessa non comprendo appieno, richiamo con la bacchetta dalla cucina la teiera che avevo messo sul fuoco all’arrivo dei miei cognati: mentre a loro servo un Earl Grey, preparo un infuso con le erbe di Isolde. Ne viene fuori una bevanda piacevole, calda, al sapore di miele di lavanda e lampone. Scivola nella gola come se fosse lava liquida, riscaldando anche l’esofago e lo stomaco. La sorseggio con flemma, deliziata.

Se tiene anche alla larga il malocchio, siamo a cavallo.

"Quella è una macchia di sangue. Dimmi quello che vuoi, ma è così" Ginny erompe all’improvviso, portandosi la tazza di tè alle labbra e chiudendo gli occhi con espressione saputella. Sospiro per l’ennesima volta, provando l’ulteriore Gratta e Netta sul tappeto sporco a causa della medicina di quella dottoressa farlocca. Si è effettivamente rappresa come se fosse sangue, dando l’alibi a Ginny di sostenere che io e Ron ci siamo picchiati selvaggiamente durante uno dei nostri memorabili litigi, oppure ci siamo dati dentro con le pratiche alla “Cinquanta sfumature di grigio”.

Roteo di nuovo gli occhi innervosita, prendendo un altro sorso dell’intruglio di Isolde, mentre medito velocemente di cambiare discorso. Il primo pensiero che mi viene in mente, è quello del matrimonio tra Teddy e Victorie. Ron non me ne ha più parlato granché, nonostante la mia curiosità a riguardo, ma implicitamente ho anche apprezzato che mi evitasse nervosismo ed ansia, facilitando la mia ripresa.

Non credo che sarei riuscita a non esprimere in modo pacato la mia opinione se fossi stata interpellata: e al 99% la mia opinione e quella di mio marito convergono come le orbite di Mercurio e Plutone. Quindi in una sorta di evento cosmico millenario che magari i Sumeri identificavano come la fine del mondo. Meglio non rischiare, dunque.

Quando interrogo Harry e Ginny a riguardo, sono molto laconici e svogliati: di primo acchito penso che mi stiano tributando lo stesso eccesso di cura ed affetto di Ron, e non vogliano farmi preoccupare. Sotto però il fuoco incrociato delle mie domande, capisco che in realtà non c’è moltissimo da dire. Non ci sono stati passi avanti, né tantomeno indietro; forse non ci sono stati proprio dei passi in alcuna direzione.

Teddy e Victorie sono sempre convinti della loro decisione, non c’è verso di smuoverli da lì in alcun ragionevole modo: si sposeranno probabilmente ad aprile. Ascoltano tutti, parlano con tutti, ma nel momento in cui qualcuno prova a dissuaderli dal loro proposito, diventano dei muri di gomma e fanno quadrato attorno a sé stessi per non ascoltare.

Attorno a loro, continua a chiocciare il clan Weasley al gran completo: ogni sera, da quando ci hanno comunicato quella decisione, si sono tutti ritrovati alla Tana per discuterne e parlarne fino alla noia, al punto che Harry e Ginny hanno cominciato a disertare le riunioni per la pace del loro sistema nervoso nonché per la ripetitività degli argomenti.

Cosa che invece so che non ha fatto minimamente mio marito, presente in ogni discussione fino al tedio e allo strazio.

La sola novità che loro mi raccontano riguarda i genitori di Victorie, Bill e Fleur, ormai completamente concordi con la decisione della figlia di sposarsi ed avere un figlio a diciassette anni: cosa del resto ragionevole, visto la sua assoluta irremovibilità. Pragmaticamente avranno concluso che è meglio acquistare un genero ed un nipote che perdere una figlia, negandole sostegno affettivo e forse anche economico nella sua scelta di vita. Forse, in modo cinico, prevedono anche il momento in cui la scelta apparirà eccessivamente gravosa o anche sbagliata, e dovranno essere lì a recuperare i cocci della loro bambina cresciuta in fretta.

Effettivamente se penso a Rose, io avrei fatto lo stesso. I figli, d’altronde, non ci appartengono sul serio. Appartengono al loro tempo, alle loro scelte e al loro carattere. Per quanto cerchiamo di renderli calchi di noi stessi e per quanto vogliamo preservarli dalla sofferenza indirizzandoli verso ciò che sappiamo essere giusto, può darsi che il loro destino sia altrove, in tutto quello che percepiamo persino come sbagliato.

In questa storia, del resto, neanche io che sono così avvezza alle partiture morali, ho ben compreso che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato. Mi sembra davvero tutto avvolto nel grigio dell’irrisolutezza, dove ogni cosa ha un suo rovescio che la qualifica come contemporaneamente giusta e corretta, e sbagliata e inopportuna.

So solo che il pensiero di un matrimonio tra diciassettenni mi provoca un senso di stretta allo stomaco ben più concreto di quello di una gravidanza alla medesima età. Non saprei come definirlo. Questa storia mette alla prova il mio inconscio in un modo mai sperimentato prima.

Se mi proietto diciassettenne, pronta ad inforcare una navata per bardarmi del ruolo di moglie, mi sale l’angoscia. Se invece mi proietto alla stessa età o poco più grande, sorpresa dalla vita con una gravidanza improvvisa, con un padre probabilmente assente e non nelle migliori condizioni economiche ed esistenziali, non provo alcun disagio.

Penso persino di provare ad immaginare che cosa si prova. E non mi sconvolge, come se ci fossi passata. Delineo chiaramente la preoccupazione, l’ansia e l’incertezza. Ma non è nulla in confronto ad un matrimonio da adolescente. Quello invece mi fa sentire al cappio, come una bestia braccata.

Do voce ai miei pensieri in modo quasi automatico, non collegando per un momento cervello e voce: “Certo che sposarsi a diciassette anni… per quanto mi sforzi, non riesco a capacitarmene. Come si fa ad essere sicuri di voler passare tutta la vita con il tuo primo amore? E se qualcun altro spuntasse per caso nella tua vita e ti facesse mettere in discussione tutto? Hai ancora un’intera vita di incontri davanti… e di scoperte, pure su te stessa. Questa cosa non la capirò mai…”.

Comprendo di aver detto qualcosa di strano quando Harry e Ginny si fissano la punta delle scarpe, con un’espressione tra l’imbarazzato e il fremente dalla voglia di controbattere. In un lampo capisco che forse hanno frainteso le mie parole, cogliendo un’implicita frecciata anche a loro. A parte qualche relazione davvero infantile, loro si sono sposati felicemente con il primo amore della loro vita. Nel caso di Ginny, addirittura, si può parlare della sua fantasia da bambina.

Cerco di correggere il tiro in modo maldestro, sussurrando ovvia: “Chiaramente a voi è andata bene, ma non è detto che vada così bene per tutti! Del resto, uno a diciassette anni che ne sa che…”.

“Veramente io stavo pensando a te e Ron, non a me ed Harry” controbatte secca Ginny, interrompendomi e ricevendo un cenno di assenso da parte del consorte “Anche tu hai sposato la persona che amavi a diciassette anni. E non penso che ti sia andata male… o sbaglio?”.

“Certo, certo…” ribatto punta sul vivo, ma troppo velocemente perché effettivamente possa dare l’impressione corretta di aver pensato alla mia risposta. Piccoli crampi ghiacciati si arrampicano sulla pelle della nuca e delle spalle, mentre simulando tranquillità svuoto in un sorso bollente il resto della tisana di Isolde. Il liquido scende veloce lungo l’esofago e scoppia in pancia, causandomi una fitta di dolore che reprimo a fatica. 

Non mi è andata male.

Certo, certo.

Mentre devio l’attenzione dei miei cognati con una domanda calibrata sulla loro figlia pestifera, cosa che comporterà un monologo di quindici minuti da cui posso assentarmi giustificata, la mia mente si incarta in un soliloquio angoscioso che ha l’effetto di aprirmi in due come una mela.

Non ho mai fatto davvero dei bilanci del mio matrimonio.

Non ne ho mai sentito l’esigenza.

Ora però immagino un ragazzo di diciassette anni o poco più che, in cerca di consiglio, mi chieda precauzioni e controindicazioni del matrimonio con la prima ed unica persona che tu abbia mai amato. La mia versione mentale è prolissa di pappa psicanalitica da due soldi, figlia di certe letture distratte su riviste femminili e certi discorsi a tardo pomeriggio con qualche amica pensosa.

Certo che puoi sposare la prima persona che tu abbia mai amato, bisogna solo crescere assieme, allo stesso ritmo, aspettarsi nei momenti in cui uno resta indietro, l’amore deve crescere e mutare con te, cambiare alla stessa velocità, e sai che bello è guardare le foto assieme di quando si era ragazzini, scoprire che ci si pensa persino due persone diverse ed invece si è sempre gli stessi, avevi i capelli più corti e ti eri fatto male i colpi di sole così schiarirono e sembrarono arancioni, e lui invece era magro come un chiodo, si contavano le costole come un Gesù in croce e d’altronde anche quei capelli erano imbarazzanti, senza contare la barba lunga da clochard. Vorresti davvero perderti tutto questo, il miracolo di una vita che cambia davanti ai tuoi occhi?

Acquisto coraggio e vigore dal mio discorso, persino le guance mi si infiammano esteriormente mentre Harry e Ginny, ignari spettatori, continuano a parlarmi della distruzione di chissà quale artefatto antico da parte della diabolica figlia.

Il bilancio del mio matrimonio è decisamente positivo: in attivo, come una piccola ma solida azienda che macina lavoro e sudore, producendo una discreta e considerevole ricchezza.

Ed è un attimo, prima che il Teddy mentale della mia testa mi si pari innanzi con un sorriso ingenuo che per un attimo credo persino di vedere trasfigurato in un ghigno.

Dice serafico: “Quindi tutto questo è successo a te e a zio Ron? Siete cresciuti assieme?”.

Avrei voluto a quel punto aver sentito una sorta di fragore di acqua, qualche scossa di terremoto, fulmini e saette, inondazioni ed urla di disastri naturali che rovesciano la testa e mi suggeriscono le risposte che, fino a quel momento, non avevo mai contemplato.

Avrei voluto, in sintesi, che la mia risposta fosse una sorpresa così che mi andasse di traverso il cuore e mi scoprissi d’improvviso in una verità che avevo solo ignorato.

Invece, con nitore incolpevole, rispondo fiacca a Teddy: “No. Non siamo cresciuti affatto assieme. Lui è rimasto uguale. Ed io ho finto di essere rimasta uguale così non se ne accorgesse”.

La vera sorpresa viene dopo, non a quel pensiero.

Lì, viene il fracasso infernale dei neuroni che si ribellano, della moglie che tradisce nel pensiero e della madre che non usa i figli come merce di scambio della felicità che non ha trovato.

Il tuono, il fulmine, il terremoto viene dopo.

Quando mi spoglio di metafore e di similitudini con Teddy e Victorie, e con l’adolescente che sono stata. Quando sono di nuovo io, di fronte ad un anello con la pietra rossa e alla richiesta di una promessa di matrimonio. Quando sapevo tutto nella mia testa di ciò che non andava, eppure dissi il contrario di quello che pensavo.

Quando invece di dire di no, dissi di sì.

… e sposai Ron Weasley.

.

.

.

Non ci saremmo dovuti sposare.

Certo non allora.

Forse mai.  

 

8 dicembre

 

Quando torno in ufficio, è facile liquidare quel pensiero sotto un mare di scartoffie e di impegni. Semplicemente lo metto a tacere sotto mille spiegazioni tornite di logica e raziocinio, parlando di stanchezza e del tempo che passa. Abbiamo la scomoda ma illuminante perfezione di non poter mai sapere come sarebbe andata, se avessimo fatto qualcosa in modo differente: perciò mi cullo nella rassicurante considerazione che, se anche io e Ron non ci fossimo sposati allora, probabilmente il futuro ci avrebbe riportato comunque assieme allo stesso punto.

Anzi, sicuramente sarebbe andata così.

E poi diamine abbiamo avuto due bambini bellissimi, abbiamo due carriere quasi soddisfacenti, cresciamo in una bella famiglia unita ed ampia… queste recriminazioni sono da massaie annoiate sulla soglia della mezza età, e Dio me ne scampi e liberi se sono così.

La mia vita è questa. Basta.

Mi torna in mente la frase di Isolde sulla nostalgia di un’altra vita, mi si accappona la pelle di nuovo per l’improvvisa adeguatezza di quell’espressione che, all’inizio, sembrava un pezzo stonato.

La esco fuori dal mio cervello, sbattendo senza alcuna esigenza un faldone di pratiche ammuffite sul legno della scrivania, nell’apparente intento di spostarlo e basta.

Attratta dal tonfo secco e dalla probabile materializzazione di un gossip, Leda compare nel vano della porta spalancando gli occhi e chiedendo stucchevole: “Tutto bene, capo?”.

Roteo gli occhi e per un attimo faccio stridere le mie unghie sulla superficie della scrivania come una sorta di pantera incattivita. Stamattina mi infastidisce come il colore cremisi negli occhi di un toro: prima di tutto, è vestita in quella poco appariscente tonalità. Una camicetta striminzita da cui si indovina il pizzo del reggiseno crema di La perla, ed un paio di shorts a pois bianchi su fondo sempre rosso. Quando si palesa alla mia vista, è intenta a succhiare un Chupa Chups color fragola matura, in un’accordanza cromatica tipica di un porno soft liceale.

Ovviamente Leda, dall’alto della sua esperienza, sa che il prototipo “Lolita bionda, apparentemente ignara del suo fascino” vende parecchio e quindi spinge molto su di esso; del resto sembra anche funzionare discretamente, Dean è entrato nel mio ufficio circa dodici volte nelle ultime tre ore chiedendo in prestito pezzi sempre diversi di cartoleria.

Cosa estintasi sul nascere quando gli ho detto che, a meno di tre porte dalla sua, vi è il deposito cancelleria dell’intero Ministero e che, se è in tale penuria di penne e pergamena, può rifornirsi tranquillamente lì. Credo anche di avergli suggerito di infilarsi i suddetti articoli in un punto nevralgico, ma penso di averlo solo sussurrato a voce non troppo alta a me stessa, quindi forse tra otto minuti sarà di nuovo qui. E tutto per colpa di questa squinzia in piena attività.

Che mi ha chiamato capo. Di nuovo. Quando sa che lo detesto.

Se la becco con questo faldone in testa e la metto KO per un anno e mezzo, potrei accordare un bellissimo Incantesimo della memoria per convincerla di aver sbattuto contro uno stand Chanel ad una svendita da panico! Dubito che qualcuno troverebbe mai la falla nel mio favoloso piano.

Tamburello con le dita sulla copertina rigida del fascio di documenti rilegati, prima di rassicurarla con un sorriso melenso sul mio stato attuale.

Gesticolando in modo decisamente esagerato con quel leccalecca appiccicoso, Leda mi informa che ci sono due persone in attesa di vedermi da circa una ventina di minuti. Le spalle mi si afflosciano come se fossi un pesce spinato mentre mi chiedo mentalmente perché non le abbia fatte entrare prima, visto che non c’era nessuno. Ma naturalmente non paleso ad alta voce la mia domanda, visto che comunque al 99% sono certa che la sua mancanza di solerzia sia dovuta al fatto che le persone che aspettano sono delle donne, cosa che a lei non interessa.

“Di chi si tratta?” chiedo nervosamente, mordicchiandomi l’unghia del pollice e consultando l’agenda in modo febbrile. Sono così fuori fase che temo di aver dimenticato qualche appuntamento importante, ma come ricordavo la pagina odierna dei miei impegni lavorativi riporta solo un incontro con un membro del Wizengamot per le 15 e 30.

“Mah non lo so, mi hanno detto il nome, ma l’ho scordato…” chiosa Leda ovvia, e non sia mai che ricordi qualche dato anagrafico di tre sillabe scarse “Ma sono due tipe straniere. Pure piuttosto… fuori, se capisce che cosa intendo, capo”.

Annuisco come se avessi capito tutto, quando invece penso che essere fuori dai dettami di questa oca significa probabilmente essere individui utili ed ammirevoli della società civile.

“Ti hanno almeno detto che cosa vogliono?”, ultimo disperato tentativo di aggrapparmi a qualche sua sinapsi funzionante.

“Mmm, mi faccia pensare…” arriccia le labbra in modo pensoso, come se stesse ricordando tutte le cifre del PI greco e non una qualche sorta di informazione ascoltata massimo trenta minuti fa, poi si illumina come un albero di Natale e chioccia geniale: “Una causa di divorzio! Una causa di divorzio per maltrattamenti del coniuge! Doveva occuparsene l’avvocato Nott, ma è in ferie. Sono necessari alcuni adempimenti burocratici perché la moglie è straniera, ma ora vive qui a Londra con la figlia”.

Sgrano gli occhi con un moto di autentica sorpresa, mentre Leda si massaggia la tempia in modo meccanico come se fosse affetta da una tremenda emicrania. Piacere, non so da dove le sia uscita tanta memoria e tanto linguaggio appropriato. Forse nel leccalecca c’è qualche pozione Arricchisci-Intelligenza. Se è così, gliene compro uno stock industriale.

Ovviamente lo sforzo è stato tale che mi chiede il permesso di fare una pausa caffè, e gliela accordo volentieri così non sarà nelle vicinanze per fare domande inopportune a questa donna. Se sente parole come divorzio o tradimento, resta ad origliare o a dare pessimi consigli che nessuno le ha mai chiesto.

Con un gesto sgraziato della testa ed un’ultima occhiata pettegola, Leda fa entrare le due donne che sostavano fuori. Mi preparo già a renderle destinatarie della mia migliore occhiata di comprensione e pietà umana per aver avuto a che fare con la mia segretaria.

A palesarsi per prima, mentre entra nella mia austera stanzetta con un passo militare ed autoritario, è una ragazzina di non più di diciotto anni, forse coetanea di Teddy. Desumo la sua età dai tratti ancora evidentemente infantili, in particolare dalle guance paffute, da un corpo allampanato e da un seno acerbo, senza dimenticare che porta in modo negletto una specie di zaino di scuola, poggiato mollemente sulla spalla sinistra. Per il resto, la sua posa e il suo contegno suggerisce qualcosa di stridente con la sua apparente giovane età. Ha uno sguardo penetrante ed azzurro come ce ne sono pochi, apparentemente glaciale, circondato da una cascata di capelli arricciati in punta di colore castano chiaro. La mascella è serrata, ogni tanto si mordicchia nervosamente il labbro inferiore: resta in piedi davanti alla mia scrivania e,  soverchiandomi con la sua altezza, mi destina uno sguardo particolare. Dapprima incerto, inquieto, forse persino spaventato. Dopo, con un lampo cobalto che colgo distintamente, studia senza ritegno le linee del mio viso come alla ricerca di qualcosa. Mi mette profondamente a disagio con questo esame interiore, quindi mi affretto con la schiena sudata a guardare in direzione della porta, aspettando sua madre.

La segue dopo qualche istante una donna con un vestito azzurro di lana, lungo sulle maniche come a coprirle le mani affusolate. Stavolta sono io a renderla oggetto di una lunga occhiata incuriosita, mentre mi torna in mente il giudizio di Leda che le ha definite “fuori”. La donna che mi si palesa davanti, un quieto sorriso gentile sulle labbra, ha dei tratti di vaga traccia slava: appare decisamente più piccola nella statura della figlia, che la supera di una spanna abbondante. Ha lunghi e liscissimi capelli scuri a contornare un viso pulito dalla pelle olivastra. Gli occhi cervoni sono limpidi, chiari, circondati da lunghe ciglia nere, cosa che le dà l’impressione di somigliare ad un cerbiatto perso nella foresta. È lo sguardo che Leda si sogna nelle sue interpretazioni da ragazzina verginella; questo appare autentico, vero, incomparabilmente ammaliante.

La guardo per qualche secondo senza capire perché mi comunichi una sensazione di… sicurezza. Calma. Serenità. Come una stretta gentile sulla nuca. La assaporo a pieni polmoni, come se ne avessi un bisogno ancestrale finalmente soddisfatto. La cosa mi sembra piuttosto strana, non sono una da sensazioni improvvise ed impreviste davanti agli sconosciuti. O meglio, non sono una da sensazioni positive, quando si tratta di sconosciuti. Però l’aspetto quieto e gentile della donna di fronte a me, è abbastanza pervasivo nel trasmettermi immediatamente quel calore.

“Prego, accomodatevi…” sussurro calorosa alle due, indicando le due poltrone davanti alla mia scrivania, mentre rintuzzo con la bacchetta il fuoco del camino nella fredda giornata di dicembre. Proseguo poi atona: “Potete gentilmente ripetermi i vostri nomi? La mia assistente… ha mancato di riferirmeli…”.

La ragazza, subito, interviene con decisione, ha una voce pastosa, abbastanza dura e marcata sulle gutturali: “Charlotte D. Karkaroff… e lei è mia madre, Tatia Krasova. Lei è la signora Granger, giusto?”. Ascolto i loro nomi con un lieve fremito delle ciglia, un dejà vu mi frastorna tagliandomi fuori dal presente e piombandomi in una ripetizione di parole e sillabe senza senso.

Scuoto la testa cancellando la sensazione, sono nomi particolari ma ovviamente perché riecheggiano la loro origine straniera. Forse solo il cognome della ragazzina mi accende una piccola spia luminosa.

Igor Karkaroff: il preside di Durmstrang al torneo Tremaghi.

Che siano imparentati?

Proseguo con gentilezza: “Chiamatemi pure Hermione… mando subito un gufo a recuperare la vostra documentazione, così possiamo analizzare assieme il caso e quello di cui avete bisogno. Ci vorrà qualche minuto”.

La donna di nome Tatia sorride gentile ringraziandomi a bassa voce, mentre Charlotte fa uno sbuffo nervoso con il naso mentre il mio gufo prende il volo. Cala naturalmente un silenzio pesante come piombo che mi innervosisce come non mai. Fingo di essere completamente assorbita da un documento che leggo con sussiego, seguendo le righe stampate con l’indice. Naturalmente non possono sapere che si tratta semplicemente della lista degli ingredienti del tacchino con il curry che mi ha infilato Ginny nell’agenda in vista del Natale. Lo sguardo della ragazzina mi buca la fronte china sul foglio, facendomi sudare freddo. 

“Lei… non è di qui, vero?” erompe alla fine con voce nervosa, un po’ acuta e stridula.

“Cosa?” chiedo con una punta d’ansia, sollevando il capo.

Charlotte mi studia senza ritegno e contegno, poi le rughe della fronte arricciata si spianano con risolutezza e ripete stavolta senza inflessione di domanda, stentorea: “Lei… non è di qui…”.

Sorrido piuttosto nervosamente, e garantisco con voce che suona isterica persino alle mie orecchie: “Sono nata e cresciuta a Londra. Quindi sì, sono decisamente di qui…”, con un improvviso fulmine di consapevolezza, aggiungo ispirata: “Posso garantirti che ho piena conoscenza della legislazione inglese sia babbana che magica, ed anche…”.

Charlotte finge di non sentirmi neppure come se avesse parlato il vento, e si rivolge alla madre con tono lezioso e pedante: “Mamma, lei non è di qui vero?”.

Tatia, apparentemente, nemmeno si sconvolge. Sorride ancora, poggiando una mano sul braccio della figlia in un gesto affettuoso che seguo senza accorgermene: “Ovvio che no, tesoro. Sei stata molto brava ad accorgertene”. Ha una voce soffice ed orgogliosa, gli occhi le si illuminano guardando la figlia.

Charlotte, inorgoglita dal complimento, sfodera un sorriso luminoso ed arrossisce, prima di dire meticolosa con una nuova occhiata severa nella mia direzione: “Vibra quasi in modo diverso, sembra piuttosto evidente. Chissà per quale motivo”.

Il mio straniamento, ovviamente, finisce in quel momento. Il ritorno del gufo con il faldone di documenti, mi riporta alla realtà contingente ed alla assurdità della situazione, così che possa ribattere acidamente, schioccando la lingua ed aprendo le cartelline con un gesto repentino: “E questo è il momento in cui mi schiarisco la voce, richiamando l’attenzione su un piano del discorso più normale, mentre mi perdo nei meandri di una conversazione nient’affatto inquietante”.

Le due mi guardano allora tra il colpevole (Tatia) e l’infastidito (Charlotte), sobbalzando però entrambe come se si fossero ricordate solo in quel momento della mia presenza, sebbene stessero tranquillamente parlando della mia natura aliena al mondo civilizzato. Mi ritrovo per la prima sciagurata volta nella vita a dare ragione a Leda. Sono fuori.

Prima, lei mette due parole in croce di senso competente e compiuto. Poi, io le do ragione.

Due volte in una giornata: si sarà aperto il secondo sigillo dell’Apocalisse.

Tatia, con maggiore tatto rispetto alla figlia, si scusa mortificata e bisbiglia cortese: “Ci scusi Hermione, io e Charlotte non volevamo essere indelicate o farla spaventare…”. Assume un tono solenne ma confidenziale, prima di proseguire: “Io e mia figlia abbiamo una… percezione diversa del reale, rispetto alla gente comune. Le nostre conversazioni perciò possono risultare pienamente comprensibili da noi due, ma naturalmente possono risultare persino preoccupanti se ascoltate da altri… le domando scusa…”.

Annuisco con partecipazione, il calore di Tatia induce chiunque a darle ragione a prescindere con un sorriso dolce. Una percezione diversa del reale: due sensitive, quindi? Ammetto il mio scetticismo, ma lo nascondo dietro un’espressione cautamente neutra.

Tatia però sembra quasi indovinare la mia reticenza a crederle, quindi si sente in dovere di spiegare sommessamente: “Ho goduto del dono della chiaroveggenza fin dalla più tenera età. Mi troverà in tutti i testi più accreditati sulla Divinazione del nostro secolo. Non che abbia bisogno di referenze, ci mancherebbe. Ma comprendo che possa pensare di avere a che fare con una ciarlatana…”.

“Non lo avevo assolutamente pensato, Tatia…” aggiungo con una punta di senso di colpa per i miei pensieri, mentre preciso incolore: “E d’altronde non credo nemmeno che mi interesserebbe… non potrei negarle assistenza legale nemmeno se fosse una visionaria…”. Sposto senza alcuna necessità il calamaio della mia penna, mentre cerco di mantenermi sulla china neutra tra la dipendente del Ministero che deve suonare professionale e la donna da sempre abituata alla gentilezza e all’educazione. Con tatto chiedo a quel punto, indicando la minore delle due: “Sua figlia condivide il suo dono?”.

La ragazzina, in un moto di difesa, si serra le spalle come se avessi osato troppo nella mia domanda innocente. Persino gli occhi sembrano bruscamente cambiare colore, diventando più scuri. Tatia stringe un polso della figlia, accarezzandole il palmo con il pollice in modo gentile, mentre sussurra fieramente: “Charlotte non è come me. E’ del tutto… diversa. Dovrei spiegarle troppe cose noiose per farle capire la sua natura…”, la ragazzina sospira partecipe, assolutamente estranea alla presunzione di essere definita così particolare. Sembra piuttosto quasi vergognosa a riguardo, come se sua madre stesse dicendo qualcosa di cui non andare così orgogliosi e fieri come lei vuole far credere. Con una punta di angosciosa curiosità, mi chiedo allora che cosa sia Charlotte Karkaroff. L’aspetto è assolutamente comune, sembra solo un po’ più grande della sua età. Non ha nessun segno esteriore che faccia pensare a vampirismo, licantropia o sangue Veela. E suppongo che in quel caso, sua madre non sarebbe così misteriosa.

Però stiamo parlando di una Karkaroff: se fosse davvero imparentata con Igor, comprenderei se dietro ci fosse più di quanto appare. Spero solo che non si tratti di nulla di oscuro.

Non so perché, in modo abbastanza istintivo, gli occhi di Charlotte mi suggeriscono che non c’è nulla di malvagio in lei. Forse solo di… incomparabilmente speciale.

Tatia, dopo una piccola pausa, continua con voce tranquilla: “Io e Charlotte condividiamo un livello di percezione maggiore rispetto al normale, anche se il suo è infinitamente superiore al mio… ci ha incuriosito solo che lei fosse… diversa, ecco… a livello di energia vitale e mistica… è una cosa rara, ha mille motivazioni. Ma non c’è nulla di preoccupante…”.

Guardo con la coda dell’occhio ancora per qualche secondo il viso della ragazzina, come a cercare in quelle linee paffute e puerili velate di imbarazzo le tracce di questo enorme potere, poi con un po’ di vergogna per la mia attenzione maleducata, distolgo forzatamente lo sguardo da lei, tornando agli accenni che stanno facendo alla mia presunta energia mistica diversa dal normale.

“Mi scusi la domanda, ma sono una persona molto curiosa. Ed è la prima volta che onestamente parlo con un’esperta di divinazione che non mi sembri un’indovina e basta…”, il complimento inorgoglisce Tatia che si sporge sulla sedia, ascoltandomi: “Ma che cosa significa che la mia… energia… è diversa?”.

“Mi perdonerà se il mio discorso sarà forzatamente semplicistico…” prosegue Tatia con un profondo respiro “Ma comprenderà che si parla di percezioni. Ogni persona ha un’aura diversa a livello divinatorio, legata ad uno dei cinque destini di ogni uomo che sta evidentemente perseguendo…”, la ascolto rapita come una bambina alla prima lettura di una fiaba “Cervello, cuore, ossa, fegato e sangue: sono questi. Ogni uomo li possiede tutti e cinque, ma non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque. E, per una profetessa, ciò è visibile tramite una sorta di aura… colorata, luminosa. Comprenderà quanto sia iridescente come un arcobaleno per chi vive così felice da racchiudere cinque destini…”. Tatia a quel punto si interrompe a disagio, gettandomi un’occhiata in trasparenza che mi fa sentire nuda ed infreddolita. Anche Charlotte mi destina un’occhiata simile, tinta ancora da una vena interrogativa che le fa aggrottare le sopracciglia scure.

Come se cercasse di capire come funzionassi.

Vedo distintamente le parole rincorrersi nella mente di Tatia Krasova, mentre cerca di spiegare a grandi linee quello che sente su di me. Le pupille si aprono e restringono, come se seguisse delle linee attorno alla mia figura. Poi, in un respiro più intenso, sussurra quasi sfibrata: “La sua aura… è particolare perché… è fioca, produce il bagliore che avrebbe una lucciola agonizzante”.

Quell’ultimo aggettivo, agonizzante, mi fa rabbrividire e gelare come se fossi in mezzo alla neve. Nascondo le mani ghiacciate sotto la scrivania, stringendole forte sulle mie ginocchia nel tentativo di riscaldarle. Tatia, quasi mortificata, prosegue fiacca: “Ed ha una luce intermittente e… grigia. Come il mare di gennaio. Nessun destino è così. Può sembrarle una cosa strana da spiegare, ma non credo di potermi esprimere meglio”.

Un’aura grigia.

Picchietto pensosamente un indice sulle mie labbra, come se mi stessi concentrando sommamente nel silenzio delle mie interlocutrici. Ma, in realtà, la mia mente è piuttosto sgombra e deserta: strano a dirsi, conoscendomi.

Non è francamente rassicurante che una chiaroveggente ti veda in modo incerto. Non ho grandissima esperienza in materia, ma suppongo che non sia un segnale incoraggiante alla “vai avanti così, Hermione, sei una grande!”. E del resto lo sguardo di Tatia, così profondamente mortificato dall’impossibilità di spiegarsi e di argomentare meglio, nonché le occhiate in tralice di curiosità della figlia, mi comunicano l’assoluta buona fede e verità dei loro giudizi. Non riesco nemmeno a rigettare tutto malamente indietro, parlando di panzane e ciarlatanerie inutili, come solevo fare alle profezie della Cooman. So che stanno dicendo il vero, in un modo che è solo intuizione e ben poco di logica.

Perciò ammetto il brivido di spavento che mi coglie imprevisto e che scanso malamente, fingendo di massaggiarmi la nuca in modo distratto.

Stranamente, però, quando Tatia aggiunge che la mia aura tra tutti i colori dello spettro dell’arcobaleno è grigia, ho un moto di torsione dello stomaco che somiglia ad un curioso sollievo.

Penso, in modo lucido, che magari un nero pece mi sarebbe sembrato più luttuoso o terrorizzante. O la prospettiva di avere un’aura viola, mi avrebbe fatto chiedere stupidamente sulle preferenze cromatiche assurde della mia energia mistica.

Invece, il grigio mi calma. Persino più del rosso, il mio colore preferito.

Che cosa assurda.

Torno con un sobbalzo al presente, Tatia continua a studiarmi come se avessi scritta sulla fronte una pagina prolissa di un libro da imparare a memoria.

Sussurro con un filo di voce arrocchita: “E… a… cosa potrebbe essere dovuto?”.

Tatia guarda in obliquo Charlotte come a cercare da lei ispirazione, ma la ragazzina scuote le spalle in modo negletto e distratto ad assicurarle che non ha nemmeno lei le parole giuste per potermi spiegare la cosa.

“Non lo so, Hermione, sono onesta…” riprende allora la madre con tono sconfitto “Mi dà l’impressione di una luce che… filtri da un’altra stanza. E che quindi arrivi soffusa ed in ombra. Come se non appartenesse davvero a questo tempo. È come se il suo vero destino fosse… bloccato altrove…”.

Le sue parole mi riportano naturalmente alla memoria quelle di Isolde, la nostalgia di un’altra vita. Sembrano così stranamente gemelle, da darmi l’impressione di un complotto metafisico ordito alle mie spalle. Le accosto mentalmente, e fanno paio ed eco le une con le altre.

Eppure, con una scarica di brividi diffusi di riflessione, non riesco assolutamente a focalizzare che cosa dovrei rimpiangere e che non ho fatto. Penso in modo automatico ai miei recenti pensieri su Ron e sul matrimonio, ma non li considero così drammatici in fondo.

Se pure dovesse essere vero che la mia strada non è questa, è anche vero che nessuna mi si è mai aperta parallela al crocevia. È tutto indistinto ed irrisolto, come ogni “se fosse” umano.

Perciò, oggettivamente, continuo a non capire come mai questo ritornello mi si ripropone costante da qualche giorno.

Tatia, quasi in dovere di aggiungere qualcosa, continua a mormorare piatta alla maniera di una indovina di quinta categoria. Non ha più nulla della carica emotiva precedente, della indecisione tutto sommato sincera che mostrava prima. Ora sembra solo intenzionata a chiudere con una risposta da cioccolatino incartato: “Forse è solo in una fase emblematica della sua vita che prelude ad una svolta decisiva. Ammetto che ho notato in quei casi variazioni diverse dalla sua, ma non è così inconsueta come spiegazione”.

“Non è che…” chiedo con una risata nervosa, tanto per dire qualcosa che comunque, stranamente, non mi impensierisce: “… sto per morire?”.

“No, cara”, Tatia riassume un tono flautato e deciso, appoggiato da un secco cenno di diniego con il capo imitato da Charlotte, come se effettivamente fossi un’idiota a chiedere una cosa così stupida “Il destino non si interrompe per la morte imminente. Si magnifica quando arriva a conclusione. Splenderebbe di più. Se sta brillando di meno, è un altro il motivo. Probabilmente è ad un crocevia della sua vita”.

Risentendo ancora la frase banale sul crocevia, scivolata fuori come se me ne desse spiegazione tanto per cambiare argomento, aggiungo di nuovo fredda e lucida: “Mi scusi, le devo sembrare una donna sull’orlo di una crisi nervosa”.

Tatia sorride, scuote il capo e dice compita chiudendo gli occhi: “Si è sempre curiosi su ciò che non si conosce. Invidio chi ha ancora meraviglia del futuro. Ma comprendo anche la paura di non saperci avere a che fare. Ma hai già tutto quello che serve… hai sempre avuto tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche stavolta sarà così…”.

L’ultimo monito viene pronunciato da Tatia come se le scivolasse dalla gola inconsapevolmente. Le parole sfrigolano fuori dalle sue labbra rapide e veloci, come se le sfuggissero. Si incespica persino sul finale, come se davvero fosse stato più forte di lei e della sua volontà. Gli occhi le si annebbiano lievemente, e lei accenna persino ad un capogiro. Ma, quando Charlotte si china per soccorrerla, biascica che non è nulla. Non evita però di destinarmi un’altra occhiata profonda, come se cercasse di trovare l’origine del suo malessere in me.

Mi stringo nelle spalle, decisa ad interrompere la stranezza di quest’incontro quanto prima, riportando tutto su un piano più normale.

“Siete venute qui… per parlarmi di una causa di divorzio, giusto?” esordisco quindi decisa, rompendo ulteriori indugi. Tutte le varie teorie sulla mia aura bizzarra e sulla sua motivazione, ristagnano in un punto nascosto della mia testa, mentre con una punta di soddisfazione noto di poter esercitare adesso io il controllo della situazione, come sarebbe stato normale sin dall’inizio.

Ora sono io quella che sa di che cosa stiamo parlando.

Per converso, Tatia si rimpicciolisce come se diventasse minuscola solo per effetto di un misto tra la vergogna e la ritrosia, mentre Charlotte si erge insormontabile, petto in fuori e spalle aperte come un generale sul campo di battaglia. È lei, infatti, a cominciare arrogante, schioccando la lingua infastidita e guardandomi severamente: “Mia madre non voleva venire qui. Mia madre non voleva divorziare affatto da quello stronzo di mio padre… forse sarà meglio che faccia seguire a me la cosa”.

“Charlotte!”. Tatia la rimprovera sommessamente, tirandosi a sedere più dritta, ma non sortisce alcun effetto di pentimento nella figlia che continua a guardarmi in attesa, riservando alla genitrice solo uno sbuffo di impazienza.

“Cosa è successo?” chiedo allora con una punta di nervosismo, comprendendo che deve trattarsi di una questione piuttosto delicata.

Nell’ora successiva, vengo a conoscenza di tutta la storia di Tatia Krasova e di sua figlia Charlotte Karkaroff. Non è quella che definirei una bella fiaba, e mi provoca spesso picchi di contemporanea empatia e disagio. E’ la storia di una ragazzina, Tatia, cresciuta con un dono ingombrante come quello della profezia che le ha reso lontana la madre, la quale non accettò mai che proprio sua figlia fosse stata la Cassandra, rea di annunciarle la morte del marito nella Prima Guerra Magica. Tatia, estraniata dal suo stesso sangue e portatrice di questa dote funesta, stringe amicizia con i due figli di Igor Karkaroff, Raissa e Dimitri, allontanati dal padre con la moglie Dasha proprio per la guerra.

I tre diventano inseparabili, Raissa e Dimitri si ergono a difensori della piccola profetessa nonché suoi custodi.

E carcerieri.

Tatia, però, è una bambina, non comprende, non capisce.

Li vede come due divinità, come i soli artefici della sua felicità, mentre i due ammirano ed aborriscono il potere di Tatia nella stessa letale e dipendente mistura. Studiano la sua mente e la sua magia, la imbrigliano in un gioco perverso di tracotante superiorità, fanno sì che Tatia creda per tutta la vita di valere solo la misura che loro sono disposti a riconoscerle.

Tatia, con gli occhi lucidi, mi confessa persino di aver avuto un giorno di fine estate, prima di cominciare la scuola a Durmstrang, una profezia per cui sarebbe stata uccisa da Raissa nel giorno del suo diciannovesimo compleanno per un accesso di rabbia e gelosia, al suo tentativo di ribellarsi al loro controllo. Ma Tatia, pensando intimamente che la sua stessa vita è una loro proprietà, si è persino sottomessa a quel destino ed implicitamente al loro controllo così che, alla fine, in modo autonomo, quel destino è cambiato, scongiurando l’omicidio.

La sua vita prosegue incolore ed insapore per anni, presto la felicità di avere una sorta di famiglia che sostituisca il legame infranto con la madre e la vanità di sentirsi considerata una creatura a cui tutto è concesso e niente può essere negato, sparisce, lasciando il posto ad un’apatia costante e ad un senso di estraneità continua a sé stessa, come se vivesse sempre le spoglie di un’altra persona.

A diciannove anni, l’età di Teddy, accetta di sposare il suo carceriere, Dimitri, convinta di non poter aspirare a nulla di meglio nella vita, se non all’amore malato di possesso e di brama che lui l’ha convinta di meritare.

Vanno a vivere in un grande castello in Bielorussia, assieme alla sorella Raissa, per scampare alla guerra divampata nuovamente, ma essa con il suo fiato violento li raggiunge comunque in un attacco mortifero da parte di un gruppo di Mangiamorte, che cercano i figli del traditore Karkaroff. Raissa viene barbaramente uccisa, mentre Dimitri viene gravemente ferito, riportando delle gravi lesioni così che resti immobilizzato su una sedia a rotelle, paralizzato dalla vita in giù.

Il lutto per la sorella a cui era così strenuamente legato, un senso cieco di frustrazione per una vita che non è andata come lui voleva, l’insofferenza per la giovane moglie persino più devota e amabile dopo l’incidente, lo rendono una creatura incattivita, inselvatichita, violenta, che ha come suo bersaglio di boria ed angherie solo Tatia. Inizia a destinarle scarti sempre più feroci di violenza verbale, dandole la colpa di ogni cosa, e non lo addolcisce nemmeno la nascita della figlioletta Charlotte. Le chiude entrambe in una reclusione morbosa, le soffoca di appiccicosa dipendenza, le annienta in un miasma di negatività e di male di vivere, alternando il tutto con momenti di apparentemente sincero affetto ed attaccamento che le lega entrambe.

Tatia, con gli ultimi sprazzi di lucidità, riesce però fin dalla più tenera età della figlia, a tenere nascosti i suoi enormi poteri, in modo che il padre non se ne ingolosisca come accadde per lei. Charlotte, quindi, ha la fortuna immensa di essere sempre piuttosto ignorata da Dimitri.

L’inganno, però, si è rotto qualche settimana prima: in un momento di particolare violenza stavolta anche fisica del padre a danno della madre, la ragazzina scoppia di potere represso per difendere Tatia. Dimitri comprende subito la portata dell’enorme potenziale magico della figlia, si convince automaticamente che, se le strappasse i poteri, potrebbe essere in grado di fare qualsiasi cosa, sordo pure alla possibilità che così Charlotte perda la vita.

È solo allora, di fronte alla possibilità che la figlia muoia, che Tatia riesce a trovare la forza di fuggire, scappando in Inghilterra e nascondendosi, decidendo finalmente per una causa di divorzio che potrebbe togliere la patria potestà di Dimitri su Charlotte: a quel punto, nel mondo magico, i minori vengono protetti da speciali incanti per cui, anche se il padre la incontrasse per strada, non sarebbe nemmeno lontanamente in grado di capire che si tratta di lei.

Al racconto, Tatia si affloscia progressivamente come un giunco secco, come se le fosse stata succhiata fuori ogni energia: ripete in modo maniacale di quanto fosse stata ingenua a sposare un uomo in un’età in cui, forse, nemmeno aveva idea di che cosa fosse l’amore.

Dovrei fare un collegamento immediato con Teddy e con tutte le reticenze che ho al fatto che si sposi così giovane: eppure, nonostante io fossi molto più grande al momento delle mie nozze, continuo di nuovo e furiosamente a pensare a me stessa.

Mentre annoto i riferimenti anagrafici di Tatia e della figlia e le rassicuro sommariamente che saranno immediatamente poste sotto la protezione del Ministero Inglese della Magia, continuo ossessivamente a pensare alla metafora del disastro aereo: alle persone che, per un soffio, per un insperato colpo di fortuna, prendono il velivolo che li condurrà alla morte, e poi a quelli che, invece, non sentono la sveglia, o perdono una coincidenza, e mancano l’appuntamento con il destino.

Con un odore fastidioso di polvere nel naso, mi sento bloccata nella sala di attesa di un aeroporto, sballottolata come se la gente mi urtasse correndo verso i suoi impegni, ed io invece me ne stessi ferma, rigida, con le gambe incollate al terreno, senza capire se sono nel primo gruppo di persone, quelli che l’aereo lo hanno preso, o nel secondo, quelli che l’aereo lo mancheranno di un minuto.

Quale destino è stato il mio? Quello del matrimonio che, nonostante le circostanze, è stato inaspettatamente fortunato? O quello dell’unione che, inevitabilmente, mi schianterà al suolo come decine di persone come me? Siamo quelli speciali… o siamo quelli come tutti?

Paragonare, però, il mio matrimonio ad un disastro aereo, mancato o avvenuto che sia, ha l’effetto di sconquassarmi i nervi come un uragano di vento; penso di voler mettere solo più distanza possibile tra me e Tatia Krasova e quelli scomodi pensieri. Trovare un vertice di somiglianza con una donna maltrattata per anni dal coniuge, è qualcosa di assurdamente ingiusto: sopravvaluta me, sottovaluta lei e svilisce Ron ad un livello bestiale che non gli è mai appartenuto.

Non so da dove mi venga questa empatia spiccia con lei.

Affretto, quindi, le pratiche così da farle congedare quanto prima, accompagnando il tutto con vane parole di circostanza che le tranquillizzino sulla possibilità che tutto vada a concludersi per il meglio. Mi accorgo con profondo disagio di spintonarle quasi sulla porta del mio ufficio, Charlotte reagisce con stizza ed allunga la falcata per allontanarsi severa.

Tatia, invece, fa quasi resistenza sulla porta, mi destina ancora un’occhiata in controluce, come ad imprimersi il mio volto nel cervello; poi, in un guizzo feroce dello sguardo, punta le iridi castane sul mio collo. Il volto olivastro le diventa immediatamente diafano, come se il sangue fosse fluito via, e balbettando con voce smunta, indica il mio petto e soggiunge abbandonando ogni cortesia: “Dove hai preso quella collana?”.

La guardo senza comprendere, per un attimo completamente avvolta dall’amnesia su che cosa abbia attirato la sua attenzione. Mi tocco il collo a disagio, riconoscendo infine la catenina d’oro bianco che porta il ciondolo a forma di goccia di sangue che indosso sempre.

“Questa?” chiedo, non senza una buona dose di autentica meraviglia alla banalità della domanda. Lei annuisce ancora, il volto di cera, allungando persino una mano per toccarmi il braccio, arrendendosi prima di artigliarsi al mio polso: “Dove l’hai presa?”, chiede ancora con un filo di calma in più.

Dove l’ho presa?

Per un attimo idiota, davvero non me lo ricordo. Mi porto persino una mano alla testa sotto l’impeto che si spacchi esattamente a metà, chiudo gli occhi a disagio in un lampo d’oro malato che mi acceca la vista. Poi, vittima della stanchezza di quel momento, ricordo improvvisamente tutto, sgonfiandomi come un palloncino bucato.

“Una fiera di paese. E’ un regalo di mio marito, sa che adoro il colore rosso…” aggiungo incolore, il tumulto dentro sedato come una rivolta popolare soffocata “La strega che me la vendette, assicurava che fosse una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto. Una cosa rarissima che dovrebbe contenere persino una sorta di desiderio per una madre…”, borbotto assolutamente convinta di essere stata così ingannata sul prezzo “… ma in realtà, non penso che sia nulla di che. Solo un oggetto carino. Al massimo, potrebbe essere una sorta di bussola”.

“Di bussola?” chiede Tatia con un rantolo esausto di voce, come se avesse corso chilometri.

“Già…” commento senza più un briciolo di entusiasmo “Indica sempre il mare… almeno mi piacesse andarci…”.

 

 

Verso le 17 del pomeriggio, decido di andare via dal lavoro, consapevole che la mia mente sia altrove e che sia praticamente impossibile continuare a concentrarmi. Per la mia assoluta non volontà di focalizzare l’oggetto dei miei pensieri, sento i neuroni invasi da una melassa condensata e stopposa come zucchero filato.

Evito di riconoscere qualsiasi ragionamento per terrore che mi faccia del male; piuttosto tento di decolorarlo e farlo diventare inoffensivo sotto la prospettiva di una normalissima fase di crisi e confusione. Può essere, no? Credo che a trentasei anni, con due figli, a chiunque, persino a me, possa venire in mente di mettersi in discussione: nulla di particolarmente originale o drammatico.

Quando arrivo nella hall del Ministero, abbastanza deserta dato che molti hanno deciso di staccare prima a causa di un’imminente tempesta di neve, mi accoglie un gufo color bianco latte, che deposita sulle mie palme aperte un semplice biglietto. Esso si rivela essere una nota di Ginny che mi invita alla Tana per quella sera stessa per parlare dell’ormai imminente pranzo di Natale. Naturalmente, sebbene mia cognata non vi faccia riferimento, so che è l’occasione perché io riprenda a pieno titolo il mio ruolo nella discussione del decennio, ossia il matrimonio tra Teddy e Victorie.

Proprio quello di cui ho bisogno.

Penso ad una scusa che mi impedisca di recarmi alla Tana, un malessere o il riacutizzarsi della nausea che mi ha tormentato improvvida per settimane, ma che oggi ha deciso di non farsi sentire per nulla. Alla fine, con un gesto stizzito della bacchetta, mi smaterializzo e decido di togliermi il dente fino a quando non è diventato un ascesso, ma è una semplice carie da poter ancora curare.

Ma, sebbene mi imponga in modo serio e freddo di essere quanto più calma e serena possibile, in pochi secondi mando in frantumi il mio proposito.

La cocciutaggine di Ron che, tra un appunto e l’altro sulla spesa da fare per Natale, continua a sostenere l’assoluta impossibilità di una strada diversa dal matrimonio per Teddy e Victorie, mi fa saltare la mosca al naso in quattro e quattr’otto. Il fatto che, poi, i due ragazzi non siano oggi presenti, rintuzza la mia libertà di parola che si incendia come un rogo boschivo, mentre comprendo di non essere in grado di guardare negli occhi mio marito, per paura che vi legga i miei ultimi pensieri. I miei cognati cercano di riportarci alla ragione a suon di parole rassicuranti o di elusioni, ma senza che nemmeno me ne renda conto, Ron pronuncia qualche parola di troppo, io rispondo a tono e finiamo per superare il limite.

Saturata dall’aria asfittica della stanza, non volendo tornare a casa per paura di restare ancora più in silenzio con i miei pensieri, apro la portafinestra ed esco sulla terrazzina dei Weasley, gettandomi distrattamente il mantello sulle spalle. Fuori, la neve è un manto di silenzio che cade leggero a grandi fiocchi, insonorizzando ogni cosa. Sollevo il cappuccio sulla testa, appoggiandomi alla balaustra e asciugandomi rabbiosamente con la mano la guancia bagnata.

D’improvviso, alle mie spalle, avverto un rumore: un fruscio di vesti ed un tramestio sommesso di passi, come di qualcuno che stesse cercando di sgattaiolare via nel modo più rapido e silenzioso possibile. Mi volto su me stessa con la bacchetta sguainata, pensando immediatamente ad un ladro, poi con la coda dell’occhio, riconosco l’ignaro avventore e urlo, stizzita, battendo un piede per terra per lo spavento: “Dannazione, Malfoy!”.

Draco Malfoy lascia cadere la mano, probabilmente andata alla ricerca della bacchetta nascosta nelle falde del mantello che indossa, e mi guarda torvo, mentre cerco di far tornare il mio respiro normale, la mano poggiata sul torace. Lo guardo in tralice con il sopracciglio inarcato, pronta a riversagli addosso ogni genere di insulti, solo per sfogarmi un po’. A sua volta, lui abbassa le spalle che aveva serrato in modo automatico e mi destina uno sguardo livoroso, le labbra già quasi aperte per rispondermi a tono.

Eppure, per un po’, non riesco ad aprire bocca: la rabbia si smonta come un dolce venuto su male. Lo guardo e basta, in un modo che non mi riesco a spiegare. Apparentemente, mi sembra di farlo solo perché, dopo anni, ho l’occasione di farlo per bene, imprimendomi tutti i particolari che l’odio mi ha impedito di mettere a fuoco sul tempo che è passato anche per lui.

Una cicatrice sul sopracciglio sinistro. Una fossetta quasi buffa sul mento. L’attaccatura dei capelli alta. I capelli corti tra il biondo e il platino, rasati.

E poi quegli occhi grigi così cangianti, come una pietra di fiume immersa nell’acqua.

Per qualche momento, fissi nei miei, si scuriscono, assumono dei lampi azzurri nel torbido, sembrano cercare qualcosa che non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare.

E so starmene solo qui a lasciarlo fare.

I secondi passano indifferenti, il mondo resta ovattato di neve come sotto una campana di vetro, e non so quanto tempo davvero stia passando: so solo che, curiosamente, mi sembra di cercare qualcosa in lui e mi sembra che lui faccia altrettanto. Come se, sotto questi cappotti e mantelli pesanti, sotto il trucco sciolto del mio viso e la piccola ruga attorno alle labbra del suo, sotto i fili grigi che scorrono nei nostri capelli, cercassimo altro.

Probabilmente, solo chi siamo stati prima, a scuola, ad Hogwarts, con tutta la vita davanti.

In modo realistico, lui per me ed io per lui siamo due collegamenti con il passato, visto quanto poco abbiamo condiviso delle nostre vite presenti. Siamo una scatola di rimpianti, confezionata con pessimo gusto dal caso di riunirci a tanti anni di distanza.

Quei pensieri pungono i miei occhi di nuove lacrime, che nascondo sistemandomi il cappuccio del mantello, qualche fiocco di neve che mi cade sul naso, spingendomi ad arricciarlo automaticamente. Un conato di nausea in sottofondo mi avvisa della fine della tregua anche con il mio malessere misterioso: porto la mano sulle labbra, dando le spalle a Malfoy.

“Ecco cosa si ottiene a fare i discreti…” borbotta lui al mio indirizzo, dopo qualche secondo quasi di spaesamento per entrambi. Lo vedo con la coda dell’occhio rilasciare la mano che, automaticamente, aveva serrato il cappotto all’altezza dello stomaco, come in preda ad una qualche forma di spasmo involontario. Malfoy, intercettando il mio sguardo, si affretta ad incrociare le braccia con sussiego, come se fosse una qualche vergogna segreta.

Solleva il collo del cappotto pesante di panno azzurro che indossa, mormorando truce: “Sei ormai abituata a chi annuncia pesantemente la sua presenza, Granger, che di conseguenza, ti spaventi a chi non hai passi da taglialegna in una foresta, ma incede con innaturale grazia”.

“La tua sarebbe innaturale grazia?” chiedo, inarcando un sopracciglio e guardandolo storto, mentre lui, apparentemente senza alcuna fretta, si appoggia con la schiena al muro alle mie spalle, accanto alla portafinestra chiusa, e solleva il viso verso il cielo. Un paio di fiocchi di neve cadono sulla pelle diafana del suo viso, quasi non facendomi indovinare il contrasto tra toni e temperature solo di poco differenti. Sembra nato per quel clima artico.

Scuote il viso come disturbato dalla cascata gelida, prima di continuare ironico: “Innaturale per te, ovvio: le cose naturali della tua vita fanno rima con Weasley. Mi pare scontato che siamo su due pianeti differenti, e le mie doti siano per te innaturali…”.

Mi rendo conto in quel momento che questa si può largamente definire come la conversazione più lunga che abbiamo mai avuto in tutta la nostra vita. Forse, nonostante gli accenni ironici che mi fanno venire voglia di cavargli gli occhi dalle orbite, è persino la più civile.

Registro tutto questo con una parte remota della mia mente, comprendendo che, da quando è finita la scuola, io e Malfoy non ci siamo praticamente mai parlati, se escludiamo qualche saluto sparso nella hall del Ministero. Forse, in fondo, è la prima conversazione da adulti che abbiamo: e quando si è adulti, ci si può nascondere dietro l’ironia per dissimulare quanto in realtà ci si trovi bellamente antipatici, dando la colpa alla scarsa confidenza se ci si rapporta sempre così.

Non è più tempo per le fatture che trasformino in furetti, o allunghino a dismisura gli incisivi.

Quella constatazione innocente, che probabilmente in un altro contesto e momento mi avrebbe causato solo un moto di nostalgia da quasi quarantenne, ora si trasforma in un’ondata di feroce e corrosiva tristezza che si mangia tutta la mia energia e forza.

Ogni richiamo al tempo andato, oggi, mi sembra solo una sirena che canta errori su sbagli.

Fiaccata, rispondo quindi in tono assente, come a darli ragione: “Come vuoi, Malfoy. Ti appartiene anche un innaturale intuito, così che tu possa capire che voglio essere lasciata in pace?”.

Dall’altra parte, mi raggiunge qualche secondo di silenzio a ricordarmi che, effettivamente, Malfoy stava sgattaiolando via, dopo avermi vista arrivare. Non era sua intenzione trattenersi.

Ma riconoscere una sorta di provvidenziale tatto in Draco Malfoy, mi sembra la ciliegina sulla torta di questa giornata assurda, quindi lascio correre apparentemente in modo giusto, visto che lui non si arrende e prosegue: “Non mi piace vantarmi…”, al mio sollevare gli occhi al cielo, corregge il tiro: “…d’accordo, mi piace alquanto vantarmi… quindi sì, mi appartiene…”.

“Ci mancherebbe…” commento noncurante, cercando così di assorbire la sua ammissione di presunzione. Adesso, si rende anche conto dei suoi difetti… dove arriveremo di questo passo?

Malfoy finge di ignorare il mio commento, spazzolando immaginari pelacchi sulla spalla del suo cappotto, prima di sospirare scontatamente: “Ma stavolta userò il mio innaturale udito. Specie considerando che questo posto dimenticato da Dio, non ha nemmeno delle finestre insonorizzate. Del resto, l’alterco tra te e il tuo rozzo marito sarà stato sentito anche nel Borneo…”, un barlume di istintiva comprensione gli illumina lo sguardo sarcastico, mentre soggiunge ispirato: “Suppongo che anche il mio udito si sia rivelato inutile, avrebbe perfettamente udito tutto anche Beethoven”.

Il mio volto si fa così rosso ed incandescente, che temo istintivamente per il calore si possa sciogliere la neve che, a copiosi fiocchi, cade ancora dal cielo. Avevo completamente dimenticato l’incantesimo Insonorizzante consueto, testimoniando quanto poco ci sia cerebralmente in questo momento. Con una punta di ulteriore vergogna, rammento a me stessa che non avevo minimamente pensato che Malfoy potesse essere qui fuori, pronto ad ascoltare tutto; del resto, nessuno della mia famiglia me lo ha fatto presente quando sono entrata in casa, come se ormai fosse una sorta di pianta ornamentale alla cui vista e presenza si sono abituati.

Ripercorro mentalmente le tappe della mia discussione con Ron. Ad ogni insulto e frecciata che gli ho destinato, le mie guance si tingono sempre di più di rosso, facendomi ringraziare il cappuccio che ancora mi copre il viso e dietro il quale mi appiattisco ancora di più.

Alla fine ringhio gelida, scandendo bene le sillabe con tono di minaccia: “Se ti salta in mente di farmi anche terapia di coppia, puoi andare a fare compagnia ai coniugi Paciock”.

Malfoy non si scompone minimamente, sfrega le mani l’una contro l’altra, come se provasse un freddo che, in realtà, non penso provi sul serio. Poi sibila sardonico: “Dio me ne scampi e liberi, Granger, non mi sporco le mani con un disastro ferroviario”.

Stamattina ho paragonato mentalmente il mio matrimonio ad un disastro aereo.

Ora, Draco Malfoy, una specie di conoscente, lo definisce un disastro ferroviario.

Quando finirà questa giornata eterna?

Completo quelle riflessioni con una scarica di brividi gelati sulla schiena, che poco hanno a che vedere con la temperatura sicuramente sotto lo zero. Non è un buon segno che il mio matrimonio offra come metafore solo il caso di incidenti da non lasciare superstiti.

Non è nemmeno un buon segno che, a somigliarmi così tanto in una riflessione, sia proprio Draco Malfoy.

Lasciando cadere fiacca le braccia lungo il corpo, commento stanca: “Che diamine ci fai qui?”.

Malfoy mi destina un’occhiata di puro disgusto, roteando gli occhi in modo scontato: “Granger, ti è venuto l’Alzheimer precoce in questi anni?”, poi con la voce che destinerebbe ad una minorata mentale, scandisce netto: “Edward Lupin, mio nipote. Pagnotta nel forno. Matrimonio riparatore.  Signora Black in Malfoy che vuole difendere onore della famiglia: rammenti?”, scrollo le spalle, se pensa di instillarmi un qualche moto di compassione alla sua situazione, sta proprio fresco.

Si sente, però, in dovere di aggiungere con il peggiore tono da vittima che gli sia mai riuscito: “Sono costretto a stare qui, abbondantemente contro la mia volontà… mia madre necessita aggiornamenti sulla situazione, e non mi sento in vena di contraddirla. Sarebbe qualcosa di vagamente gratificante, se non facesse passare ogni mia ritrosia come una negazione di un suo ultimo desiderio mortale…”.

Il tono delle sue parole si tinge di una vena amara che, pure a non volerla ascoltare, è netta e chiara come il rumore di un tuono nel bel mezzo del silenzio. Sono certa, in un modo alquanto bizzarro, che vuole che finga di non essermene resa conto. Ma, nascosta nel cappuccio del mio mantello, non posso fare a meno di chiedermi come stia fisicamente Narcissa Malfoy. 

Malfoy sorvola sul punto abilmente, incoraggiato dal mio omertoso silenzio, proseguendo caustico: “Ma stare qui non implica che io debba necessariamente essere presente dentro la stanza. Su questo punto, mia madre è stata piuttosto vaga…”, sospira con sollievo concludendo lieve: “La lingua inglese è così piena di adorabili scappatoie”.

Per un attimo, la punta di un clamoroso e sconcertante divertimento mi tocca alle sue parole ironiche. In mezzo alla mia apatia, la sensazione di volerlo punzecchiare ed irridere somiglia ad un piacevole punto incandescente, rosseggiante nel centro del ventre. Riscalda tutto il torpore che mi ha paralizzato durante il giorno, quando mi sono impedita di pensare ad una cosa qualunque.

Ora, pensare con leggerezza ed al contempo con concentrazione sardonica ad una risposta da dargli, mi rende per un attimo folle, soddisfatta ed appagata a riguardo.

In modo scandaloso persino per me stessa, è la prima sensazione positiva della giornata.

E buffamente, è legata a Draco Malfoy. 

Bofonchio quindi con tono casuale, come se stessi discutendo del tempo atmosferico, in mancanza di alternative: “Quando cominceranno ad organizzare seriamente il matrimonio, sarai costretto a rientrare. Potrebbero optare per delle decorazioni color carota matura, non sia mai che l’orgoglio degli ultimi Black sia corrotto da una tale mancanza di buon gusto”.

Completo la mia ultima frase con una pausa ad effetto, che vuole suonare ironicamente accorata. Dentro il cappuccio sogghigno tra me e me, fiera persino della mia scelta cromatica lessicale: ho la vaga certezza che Malfoy detesti le carote, chissà perché.

Nel silenzio che avvolge la valle, con la neve che scende insonorizzando ogni cosa compresi i discorsi della Tana, mi sento vittoriosa ed implacabile, come il ragno che cattura la mosca. E, quando Malfoy resta zitto per una manciata lunga di secondi, ho la certezza che questo sia vero.

Quando, però, riprende a parlare, la sua voce ha uno strano tono basso e fintamente carezzevole, suona come velluto. Ha in sé un germe viscido e spavaldo, come se pronunciasse discorsi scontati e supponenti. Schiocca la lingua, mi guarda di sbieco e soggiunge grave: “La lingua inglese ha anche il pregevole dono di poter consentire che si legga tra le righe, Granger”.

Sebbene non abbia minimamente capito a che cosa sia alludendo, mi sento punta sul vivo come se mi avesse scoperto ad uccidere qualcuno. Un’ondata di calore mi travolge da testa a piedi, mentre benedico il mio cappuccio, che perlomeno protegge il mio viso rosso. Chiedo con voce ferma, ma che nasconde un tremito interiore: “Che diamine significa, Malfoy?”.

Lui non esita nemmeno per un secondo a rispondermi, ha un tono così marcato ed insolente che sembra esserselo preparato per secoli: “Cominceranno ad organizzare. Potrebbero optare. Un rimarchevole uso del pronome loro.” .  Ascolto le sue parole remotamente, come se provenissero da un altro pianeta. Mi rendo conto di quello che ha fatto il mio inconscio, prima che Malfoy aggiunga scontato: “Deduco con il mio innaturale intuito di cui sopra che tu non sia propriamente saltata sul carro nuziale dei due diciassettenni, uniti dal destino”.

In verità, Malfoy vede soltanto la superficie della mia scelta lessicale indiscutibilmente esatta. Scorge solo la mia probabile contrarietà al matrimonio di Teddy e Victorie.

Dentro, invece, io vedo altro, forse tutto. Ed è ancora una spina al cuore che reprimo con un sospiro forte, sperando che il mio interlocutore lo scambi per inedia o fastidio.

Vedo quanto mi sono tagliata fuori dalla mia famiglia, scegliendo pronomi neutri che accomunassero loro in una decisione, in un orientamento, in un’organizzazione, mentre io mi ergo solitaria ed altera, nella mia fortezza di convinzioni, apparentemente intoccabile ad ogni singulto di loro volizione. Non ho difficoltà a proiettare quell’immagine sul reale, non ho alcuno sforzo di fantasia a pensare che andrà davvero così. Mi sento esclusa senza motivo da quella che dovrebbe essere l’idea della famiglia, specie della famiglia Weasley: uno per tutti, tutti per uno, come vada e vada.

Invece, mi trovo a pensare da monade, quando sono una moglie, una madre, una nuora, una cognata ed una zia, senza sapere se posso permettermelo giunta a questo punto.

Senza presagire quanto questo, ora, mi costerà.

La mia mente è fuori dalla famiglia, ragiona da sola. E se ne uscisse anche il mio cuore?

Provo un autentico moto di disgusto per me stessa, e per non implodere lo riverso contro la persona con cui sto parlando, Draco Malfoy, colpevole di mille cose, tranne che di questa.

Chiedo perciò più acida di quanto sarebbe normale: “Ti interessa la mia opinione, adesso?”.

Malfoy, che nel mio blackout mentale è rimasto in silenzio, il capo reclinato all’indietro a guardare la neve, scuote il capo con una smorfia di fastidio che non riesco a decifrare. Passa entrambe le mani nei corti capelli biondi, come in un residuo di memoria della chioma adolescente, poi sbuffa sarcastico: “Sciaguratamente, la tua e quella di Potter potrebbero essere persino quelle più sensate. Vedi un po’ come siamo messi male”.

Gli rispondo con un finto sorriso forzato, digrignando i denti, cosa che mi fa sentire ancora più idiota se mai fosse possibile, come se stessi recitando in una sorta di pessima commedia degli errori. Cerco perciò di respirare con calma, assumendo un contegno maturo e serio, prima di aggiungere all’indirizzo del mio sgradito e sgradevole interlocutore: “Hai un innaturale intuito e si suppone che io sia tra quelle ragionevoli”, marco i due aggettivi con sarcasmo, guardando storto Malfoy. Lui mi ignora con una scrollata noncurante di spalle, che interpreto come assenso a continuare compita: “Secondo te, si può concretamente appoggiare il matrimonio tra due ragazzini in circostanze simili? Potrebbe ragionevolmente farlo una persona sensata? Quante ne abbiamo viste nella nostra vita per sapere che le cose non vanno mai come si crede a diciassette anni? E che potrebbero essere destinati ad un matrimonio infelice, solo perché adesso, in preda al primo amore, sono convinti che potrebbe durare per sempre?”, faccio una pausa dalla mia filippica prima di concludere persuasiva, confidando di troncare sul nascere qualsiasi opposizione: “Quanti primi amori abbiamo visto durare per sempre, Malfoy? Quanti?”.

Mi ritrovo a guardarlo negli occhi, come forse non ho mai fatto nella mia vita, in un anelito spavaldo che mi indora come una sacerdotessa pagana. Sono sempre stata abituata a guardarlo dall’alto in basso con presunzione, o di sottecchi con sospetto, o di sbieco con fastidio.

Non so da dove mi venga, adesso, quest’alterigia confidenziale di guardarlo dritto negli occhi, come se me lo potessi permettere e ci fossi persino abituata.

Malfoy sgrana gli occhi in un moto di sorpresa, imbarazzo, stupore: tutt’assieme, nello stesso momento, ed io al contatto con i suoi occhi distinguo ogni pagliuzza di diamante in quel mare di perla. Ogni emozione passa in quel cielo plumbeo, come una cascata di meteore velocissime e lucenti, e non riesco a capire come io le sappia distinguere una per una, scorgendone le differenze. Ad interrompere il corso dei miei pensieri, giunge un moto di nausea che metto a tacere, la mano chiusa sulla bocca, ignorandola.

Diventa paradossalmente più fastidiosa la percezione scomoda di qualcosa che mi ticchetta asincrono in testa, come quando si dimentica qualcosa e si perde la testa per cercare di ricordarsene. Nulla, però, la riporta alla coscienza.

Nel mio susseguirsi di pensieri muti, Malfoy ha stretto una mano attorno alla stoffa del cappotto, poi l’ha rilasciata con un respiro che si è condensato veloce in vapore freddo. Ha scosso il capo come disturbato da un insetto, ha rifuggito i miei occhi come se scottassero ed ha cercato febbrile nelle tasche qualcosa.

Ne estrae una sigaretta dalla forma solo vagamente più allungata, l’accende con un nervoso gesto della bacchetta, aspirandone una forte e cospicua boccata. Dalle labbra chiare, sottili e strette, diventate tra il livido ed il perlaceo a causa del freddo, soffia fuori una nube tremula di fumo biancastro: mi raggiunge in viso con un odore che trovo stranamente piacevole.

Erba bagnata nel mese di settembre.

La respiro senza apparente interesse per la possibilità che mi provochi una morte poco indolore, come il cancro al polmone: al contrario, senza senso, sembra spalancarmi i bronchi, come sembra accadere anche a Malfoy che, in modo illogico, dichiara la sua preferenza per le sigarette al tè nero e vaniglia, che sono in grado di calmarlo “tutte le volte che ho a che fare con le idiozie quotidiane”.

Incrocio le braccia punta sul vivo, dimentica del fatto che, a quanto pare, io e Malfoy non condividiamo nemmeno le stesse percezioni olfattive; eppure, mentre lui finisce la sua sigaretta, le mani tremanti che si fanno sempre più calme, non mi sposto da lì.

Resto ad aspettare che risponda.

Cosa che puntualmente fa, non appena noto gli occhi più limpidi e meno foschi, le mani più salde e l’espressione più indifferente.

“Ecco, Granger, torniamo alla lingua inglese…” ribatte scontato, prima di calpestare la cicca della sigaretta con la punta della scarpa “Usi in modo abbondantemente poco casuale la prima persona plurale…”, al mio sguardo di domanda, aggiunge stentoreo ripetendo le mie parole meccanicamente annoiato: “Ne avremmo viste troppe per non pensarla in modo negativo”.

Non comprendendo ancora che diamine voglia dire, biascico scocciata: “E…?!”.

Io ne ho viste troppe per non pensarla così, non tu…” rimarca scontato, guardandomi in tralice con superiorità “Ed è un curioso controsenso, sai. Non ti enumererò la lista delle mie precedenti compagne, prima di giungere a quella attuale, ma penso che tu possa supporre che sia un numero potenzialmente elevato”.

Alla sua espressione tronfia, commento sarcastica: “Certo, le oche hanno tassi di riproduzione elevati”.

Lui, per nulla scalfito dalla mia osservazione, continua spavaldo: “Ammetterai, però, che io a diciassette anni ero ben lontano dalla monogamia ideale ed eterna con la mia fidanzatina di allora. Sarebbe normale, pertanto, che istruissi Edward sulla bellezza della vita da scapolo incallito e lo esortassi a non farsi mettere una ganascia al piede da una ragazzina Weasley e da un moccioso caccoloso…”, storce il naso alla prospettiva, guardandomi con un disgusto tale che sembra che io abbia fatto la proposta di un tale destino a lui.

Rispondo incrociando le braccia con sussiego e lui, in uno specchio capovolto di qualche momento prima, mi restituisce uno sguardo liquido, fiero, intenso, incatenando i miei occhi. Un tonfo sordo mi ferisce le orecchie, le mie braccia cadono lungo i fianchi infiacchite e ho l’impressione di galleggiare in un mare dalle onde grandi, rotonde, piene, solo apparentemente minacciose.

Ed è naturale chiedermi, instupidita, se davvero in tanti anni io e Draco Malfoy non ci siamo mai davvero guardati prima. Avrei ricordato tutto questo. Avrei ricordato che ti guarda e ti fa sentire…

Il mio subconscio trova subito la risposta, come se fosse stata sempre là.

MI fa sentire… persa.  

Persa, come la strada di casa in una foresta… persa, come la rotta in una tempesta in mezzo al mare… persa, come la direzione del nord, cercando la stella polare… ecco come… mi sento… persa… ed è una cosa odiosa. Non mi sono sentita mai in questo modo. E non so nemmeno il perché, come tantomeno non lo so perché non la smetta di guardarmi con quella strana espressione. Mi ritrovo solamente a fluttuare nel oceano plumbeo dei suoi occhi, l’anima delle dimensioni di una noce e il cuore che si allarga e mi frastorna con il suo battito.

“Invece, ho osato assumere un contegno neutro e calmo persino nella convinzione che mio nipote potrebbe essere migliore di me…” la sua voce spezza la malia letale dei suoi occhi, come uno specchio che va in frantumi. Ne sento il rimbombo nella mia testa, come un tuono nel cielo silenzioso di una notte d’estate. Il tremore che aveva preso le mie membra cessa anch’esso, lasciandomi vuota dentro, vuota di questo strano terrore, ma vuota anche di tutto il resto.

Faccio di tutto per cercare di concentrarmi su che cosa stia dicendo, ma la nausea mi annebbia il cervello come se si nutrisse del ricordo di quegli occhi, dentro il mio cervello.

Malfoy, ignaro di tutto questo, prosegue serafico, la voce calma come se stesse parlando di ovvietà su ovvietà: “E poi, invece, ci sei tu. La golden girl delle scelte perfette. La strega più brillante della sua generazione. Una che, come nei compiti in classe, ha imbroccato la risposta corretta al primo tentativo, persino nelle relazioni. Una che ha visto pure il suo amichetto Potter riuscire nella medesima cosa. Dovresti tipo distribuire opuscoli su quanto si possa sposare la prima stupida cotta dell’adolescenza, ed essere gioiosamente soddisfatti, avere due figli tutto sommato decenti e vivere una fiaba moderna. Dovresti aprire un consultorio, e fabbricare spillette…”.

Se prima mi sentivo persa, ora invece sono clamorosamente nuda.

Sudo freddo, dentro il cappuccio di velluto, la neve che continua a cadere senza tregua. Torno a guardarlo, e non so perché adesso non ho alcuna sfida in mente, alcun puntiglio da far valere, alcuno stress da sfogare. Ho solo preghiere, suppliche, implorazioni, da mescolare nel salato degli occhi.

Malfoy, ti prego, per favore.

“Invece, sei clamorosamente ostile. È un punto molto interessante, Granger. Credi Edward un bamboccio di diciassette anni che non sa prendere decisioni, mentre la Granger diciassettenne scelse già il suo compagno di vita con una lungimiranza da prodigio della razza umana”.

Per favore, basta.

O è un controsenso bello e buono, oppure realisticamente ti credi sempre superiore ad ogni cosa. Persino a tuo nipote”. 

Quando termina di parlare, Draco Malfoy incrocia le braccia con aria saputa, infantile quasi, come se fosse il ragazzino dai capelli ingellati ed attaccati al cranio che mi sfidava nei corridoi di scuola.

Una parte di me, una molto remota e nascosta, mi suggerisce timida che Malfoy non ha idea di quanto male mi abbia fatto adesso. Probabilmente, nella sua mente, non ha davvero detto nulla di che. Ha davvero solo segnato un punto rosso in una lavagnetta.

Il resto, invece, ulula, grida e si contorce, poiché, quando un segreto viene svelato, non può più tornare indietro. Nessuna voce potrà essere richiamata indietro dal ticchettare delle lancette.

Quando comprendo che, ormai, quella che sono è stata letta persino da Draco Malfoy, un nemico, un conoscente, uno stronzo, una conversazione casuale, comprendo quanto ormai sia oltre tutto.

Quanto tutto sia già lì, pronto a farmi a pezzi.

Ovviamente devo difendermi, ovviamente penso a farlo, ma già il modo che scelgo è sottilmente diverso. Non più le pallottole a salve di scherzi mordaci, ma gli strali avvelenati che colpiscano il punto cieco, la feritoia, la via d’uscita.

Le narici si appiattiscono come quelle di un serpente, sibilo ghiacciata dentro il cappuccio, pensando solo a salvarmi, sapendo che lo farò a pezzi: “Dovresti ringraziare i miei benefici del dubbio. Scagionare un adolescente dalle sue azioni avventate, è qualcosa di misericordioso a mio parere. Consente di conversare normalmente, e non schiantare all’istante, un ex diciassettenne quasi omicida del proprio Preside sulla Torre di Hogwarts. Consente persino di pensare contro ogni logica che non volesse sul serio farlo, e non fu interrotto sul più bello”.

Quando le parole mi lasciano come armi deposte, sbatto le palpebre e le lacrime cadono giù, corrose dal senso di colpa. Penso che si stiano ghiacciando sulle guance, ma forse è solo che il male che provo, mi raggiunge dappertutto.

Il tentato omicidio di Silente. E’ un segreto da non tirare fuori mai.

Cerco Malfoy, lo cerco per guardarlo ancora: per cercare in un miracoloso modo di spiegarmi, di fargli capire nelle lacrime quanto lui è solo un danno collaterale.

Quando mi dispiaccia, quanto il mio male non è che un terzo del male che so di aver dato a lui.

Ridammelo, Malfoy, dammelo indietro.

Riscopro la bontà e la giustizia di quella che sono sempre stata, di quella che non ferisce mai così a fondo per salvarsi solo troppo tardi.

Senza alcuna parola, Malfoy si è smaterializzato, portandosi dietro le mille risposte rancorose che avrei preferito a questo silenzio superiore.

Nella neve fresca, la cenere della sua sigaretta ha scavato una crepa dall’odore inconfondibile.

Erba bagnata nel mese di settembre.

 

 

Hermione Granger tornò tardi a casa quella sera.

Non si saprebbe potuta dire quanto tempo fosse passato, o che cosa avesse fatto.

Solo che era rientrata a casa, quando la neve con un incanto di improvviso vento di scirocco, si era trasformata in pioggia. Ticchettante, fremente.

Si mosse confusa nelle stanze buie, non accendendo le luci. Sfiorava gli stipiti delle porte come una cieca, come se persino le percezioni visive sarebbero state di troppo nel suo cervello.

In quello, non c’era nulla.

Nulla, se non il silenzio profumato di erba bagnata di Draco Malfoy, quando era sparito.

Lui, così arrogante e borioso, sembrava nato per prendere possesso completamente della sua testa. Era una sensazione fastidiosa, ma stranamente conosciuta.

Forse, andava così quando erano a scuola. Forse, se ne era solo scordata.

Ronald era già a letto, coperto fino alla testa. Nel buio, lei vide comunque le orecchie rosse.

Si spogliò in silenzio nel bagno, come un automa. Dopo una discussione, dopo una lite, Ron era facile da placare. Facile, come tutti gli uomini.

Si infilò nuda a letto, si strusciò contro la schiena che lui le dava nervoso, aspettò un paio di secondi e poi si aprì al ruggito violento di rabbia che suo marito le avrebbe scaricato addosso.

La prendeva sempre con cupidigia, non dandole nulla in cambio, specie quando era arrabbiato: l’amava di vendetta solerte, spingeva fino in fondo.

Più si insinuava dentro, più era convinto che si riappropriasse anche del suo pensiero ribelle.

Mentre suo marito le sussurrava nelle orecchie gemiti di amore egoista, Hermione Granger guardava fuori dalla finestra, aspettando che il sesso riannodasse i fili della sua vecchia vita, da cui si sentiva slegata come una marionetta lacerata.

La pioggia, i tuoni, i lampi.

Chiuse gli occhi, nelle palpebre chiuse fiorivano rose di luce. Fioriva il ricordo di un tempo in cui, non sapeva quando, si era sentita amata.

Suo marito scivolò via da lei, disse qualche parola di circostanza, le baciò la fronte con dolcezza, riprese a dormire.

Solo allora, Hermione Granger si alzò dal letto, corse in bagno, la nausea che non la faceva nemmeno respirare. La porta chiusa, i gemiti diversi nascosti pudici, vomitò come non le era mai successo, come la nausea non le aveva mai permesso.

Immobile, poi, a letto, fingendo di dimenticare. Fingendo di minimizzare.

Sognò le rose. Centinaia di rose. Senza colore. Grigie.

I fiori messaggeri dei segreti.

 

 

NOTA A SUO MODO NECESSARIA: come tantissime altre volte, probabilmente non per l’ultima, questo capitolo giunge con un ritardo spaventoso. Come sempre, mi sento sempre portata a giustificarmi e a parlare di quanto, comunque, la mia vita stia cambiando in fretta e quanto spesso sia difficile per me scrivere. O di quanto io ora scriva anche altro, e quanto questo spesso mi trascini altrove da questa storia. Ma a suo modo ci sono cose che non cambiano mai. Per fortuna. Tra queste, il fatto che io torni sempre qui, a casa. Indipendentemente da chi mi legga. Con un debito verso questa storia che è la coscienza di sapere che qui, è casa mia. È quasi conclusa, ma prima di allora, a costo di tremendi ritardi, voi saprete come andrà a finire. Lo ribadisco sempre, non abbandonerò mai questa storia. Un’altra cosa che non cambia mai, è che io abbia un gruppo di meravigliose ragazze che oramai sono mie amiche e che non hanno mai smesso di sostenermi. Ed è per loro, sempre, che tutto resta in piedi, persino io. Ringrazio anche chi mi ha recensito, purtroppo per me è sempre più semplice rispondere via gruppo Facebook, ammetto una sorta di imbarazzo a rispondere con cose che non siano “grazie” o “scusa”. Ammetto che mi vergogno profondamente del tempo che passa, senza aggiornamenti. Quindi scusatemi davvero. Grazie ancora a tutti. Cassie.

 





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