kintsugi
Angolo autrice:
Eccoci qui. Vi presento
ansiosamente la mia
nuova creazione. Ci lavoro su da settimane e non riuscivo a ritenermi
soddisfatta, anche adesso sinceramente ci vedo un sacco di difetti ma
lascerò
giudicare a voi, altrimenti la mia indecisione la farà
marcire in eterno in
qualche cartella cupa del mio computer :D
Vorrei citare in apertura
una fanfiction che mi
è piaciuta tanto, davvero tanto, sull’infanzia di
Vegeta ed è “Salvation” di
FairyCleo, l’ho letta poco dopo aver iniziato a scrivere la
mia ed è rimasta
sempre nei miei pensieri, la consiglio a tutti voi.
Alcune importanti
precisazioni:
1. Il
titolo:
“Kintsugi” è una pratica
giapponese che consiste nel riparare vasellame
andato in frantumi con l’oro, utilizzandolo per rimettere
insieme i cocci
riempiendo le crepe. È una metafora che indica che dal
dolore e dalla
devastazione può nascere una bellezza ancora migliore, sia
estetica che
interiore. Il senso di questo titolo e il riferimento a questo concetto
lo
capirete leggendo la storia. In generale, si riferisce allo Zenkai, il
potere
peculiare dei Saiyan per cui ad ogni ferita, in particolare se mortale,
il
livello di combattimento si moltiplica rendendo il combattente molto
più
potente, ad esempio in seguito ad una sconfitta o ad una battaglia
particolarmente tormentata.
2. La
caratterizzazione
dei personaggi: è stato abbastanza difficile cosa
reputare IC e cosa OOC,
dal momento che non conosciamo nulla di canon sul rapporto fra Vegeta e
suo
padre a parte la scena dentro “Le origini del
mito”. La personalità di Re
Vegeta non è mai stata ben definita e nemmeno quella di
Vegeta da bambino:
quella che vedete qui è la mia personale interpretazione,
una fantasia che
risente della mia sensibilità un po’ dark che
spero possa piacere anche a voi.
3. Il
nome di Re Vegeta: dal momento che la storia riguarda
soltanto questi due
personaggi mi sembrava terribilmente ridondante scrivere ripetutamente
Re
Vegeta e Vegeta, ho scelto per il Re il nome sostitutivo
“Veldock”, già usato
in questo fandom da altre autrici.
Ora vi lascio alla
lettura. Tengo molto ad un
vostro parere, spero in tante recensioni e pareri.
Un
abbraccio forte.
ND
KINTSUGI
And the more that you resist me
Greater the damage will
be
[The Unguided
– Phoenix ]
Una mano enorme
si infranse su una piccola guancia.
Uno schiocco
secco, che rimbombò in un silenzio assordante.
Veldock gli aveva
tirato uno schiaffo talmente forte da frantumargli uno zigomo,
deflagrato in
una fitta dolorosa sotto la pelle diafana, divenuta immediatamente
livida.
Lo sguardo di
Vegeta, colmo di vergogna, umiliato fino al midollo, aveva abbandonato
quello
di suo padre per inabissarsi a terra e riempirsi di lacrime acide,
dense di
frustrazione.
Perché non ci
riusciva?
Perché non
riusciva a combattere con lui come faceva con i Saibaiman?
Non era in
alcun modo rilevante cosa facesse, come si muovesse, con quale
velocità
cercasse di spostarsi, lui riusciva
sempre a ferirlo.
« Ma sei
sicuro di essere mio figlio? »
Le pupille nere
di Vegeta si spalancarono, sperdute nel bianco. Si morse le labbra per
non
rispondere, tremando di rabbia. “Siamo
uguali”, avrebbe voluto ribattere, ma non
riuscì a pronunciare alcun suono,
segregato dalle radici gonfie che innervavano la sua gola.
Evidentemente non
era alla somiglianza fisica che si riferiva suo padre.
« Allora?
Dov’è tutta la tua forza? » incalzò ancora
l’uomo, le braccia piegate
lungo i fianchi in una posizione derisoria. La guancia pulsava in modo
insopportabile, gridava attraversata da aghi, fratelli degli aghi che
trafiggevano il resto del suo corpo dolorante, coperto di lividi scuri.
Vegeta cercava
di controllarsi ma non era facile arrestare il tremore delle sue membra
e
neppure rallentare il battito alterato del cuore, incantato in una
pressione
martellante. Non aveva mai avuto paura di nessuno come di quella figura
scura
che si stagliava nella penombra.
Lo sguardo
negli occhi di Veldock era ostile, intriso di disprezzo. Qualcosa
stonava nei
lineamenti duri di suo padre, nell’espressione contrariata
delle sue iridi.
Dalla sera precedente si comportava in modo strano: lo aveva visto
tornare a
bordo dell’astronave imperiale, quella delle missioni
importanti, il volto
livido e il ki trattenuto a fatica. Suo padre era sempre stato un uomo
calmo,
imperturbabile. Inaspettatamente lo aveva fatto convocare
all’alba per un
allenamento speciale, il viso velato da
un’oscurità ancora più nera. Vegeta non
aveva osato chiedere nessuna spiegazione su cosa potesse aver turbato
il padre,
limitandosi a un discreto silenzio. Non erano soliti rivolgersi la
parola,
privi di ogni confidenza.
Dopotutto
Vegeta aveva imparato presto a capire che per suo padre il loro
rapporto non era
nulla di più di un mero rapporto professionale, un dovere
dei tanti, l’ennesima
seccatura a cui era costretto a causa del suo ruolo di prestigio.
Vegeta era suo
figlio, era un Saiyan dalla potenza straordinaria, e questo bastava per
qualificarlo come erede.
Nulla di più.
Re Vegeta non
lo aveva mai neppure allenato personalmente, preferendo affidarlo alle
cure
delle decine di maestri d’armi del Palazzo Reale, che spesso
si erano rivelati
intimiditi dalla sua potenza e dalla sua risata ghignante. Negli ultimi
mesi
l’ingrato compito era ricaduto sul signor Nappa, che si
occupava quotidianamente
di lui e dei suoi esercizi con una costanza e una pazienza notevole.
Ma Vegeta
odiava anche lui, Vegeta li aveva sempre odiati tutti,
quei miseri sostituti.
Il vero maestro
che avrebbe voluto, l’unico, suo padre, non aveva mai diviso
del tempo con lui.
Una delle poche volte in cui era venuto a vederlo, osservandolo al di
là del
vetro con le braccia conserte, si era talmente distratto per
l’emozione che un
Saibaiman gli era saltato addosso, facendolo cadere rovinosamente a
terra. La
vergogna e la rabbia per aver fatto una brutta figura di fronte a suo
padre lo
avevano fatto avvampare, e aveva perso il controllo del suo ki, facendo
esplodere la stanza, scaraventando sul volto impassibile del genitore
una
raffica di calcinacci e vetri infranti.
“Diventerai il più forte
dei Saiyan!” lo adulava spesso il signor Nappa, lo
sguardo colmo di ammirazione nel constatare i suoi progressi.
Eppure.. perché suo
padre continuava a trattarlo
come se fosse soltanto spazzatura?
« Come
potrei migliorare, padre? »
Un lieve
sospiro fuoriuscì dalle labbra socchiuse del bambino,
ribelle di fronte alla
veemenza con cui tentava di cucire insieme quei lembi di pelle. Un
lieve gemito
di stizza, appena accennato, che si era amplificato come un cerchio
nell’acqua
del volto del genitore. Delusione, disprezzo, il bambino si
riempì di angoscia
nel vedere nuova disapprovazione colmare gli occhi di suo padre, gli
unici che
gli importasse guardare e gli unici per cui nutrisse rispetto.
Si morse le
labbra talmente forte da sentire il gusto ferroso del proprio sangue,
ma era
troppo tardi.
« Quante
volte ti ho ripetuto di non mostrare le tue emozioni? »
sbottò il Re, afferrandolo per il
colletto e scuotendolo. Un altro ceffone, l’ennesimo,
l’altro zigomo che si
sbriciolava sotto la cute pallida. Veldock non poteva sopportare di
vedere in
lui neppure il più piccolo briciolo di debolezza.
“Tra un mese mi
consegnerai il moccioso. Che ti piaccia o no.”
Una lingua
serpentina aveva leccato maliziosamente delle labbra vermiglie.
Nel ripensare a
quella scena Veldock sentiva la bile acida risalirgli lungo la gola,
sospinta
dal tremore delle sue viscere stritolate. In quel momento aveva
realizzato di
essere completamente impotente, sovrano di un pugno di mosche in un
pianeta di
ragni. Il dominio dei Saiyan sull’universo gli era sembrato
improvvisamente una
barzelletta: erano temuti, rispettati, i cattivi delle fiabe che gli
adulti
raccontavano ai bambini fin negli angoli più reconditi della
galassia.
Eppure, anche
loro, come tutti gli altri, non erano niente.
Nulla.
In fin dei
conti, Re Vegeta non era diverso dalla maggioranza dei sovrani dei
popoli che
aveva sterminato: un potere inesistente, ginocchia consumate a furia di
implorare pietà, la rabbia e la paura che pompavano
impetuosi nelle vene di
fronte alla morte.
Fissava il suo
primogenito, l’unica scintilla di speranza che avesse mai
avuto, e di nuovo le
viscere si contraevano e tremavano.
Un mese.
Trenta giorni.
E quel bambino forse
sarebbe stato trucidato.
“Perché sei così
preoccupato? Non farei mai del male ad un bambino innocente.”
Le
labbra
viscide di Lord Freezer si erano spalancate in una risata, a cui
avevano
partecipato anche Zarbon e Dodoria. I singhiozzi volgari del Demone
erano stati
talmente forti da portarsi una mano al petto, gli occhi gelidi che
scintillavano dal divertimento, la mano che frantumava per la troppa
foga il
bicchiere di vino stretto fra le sue dita.
Veldock aveva
desiderato con tutto se stesso di avere la forza di farlo a pezzi. Il
sudore
gli era colato lungo la schiena, denso come la sua collera, abissale,
violenta
al punto da strappargli le corde vocali. Si era limitato ad annuire,
meccanico
come un robot, mentre il resto del suo corpo si ribellava, scosso dagli
spasmi.
Non poteva
rifiutarsi, se non voleva condannare all’estinzione il suo
pianeta e il suo
popolo.
« Io non
ho emozioni, padre. »
sillabò il viso di Vegeta, una maschera impassibile tradita
soltanto dal
tremore del suo mento.
Per un attimo
gli sembrò adulto, un perfetto soldato dallo sguardo gelido,
gli occhi limpidi
nello svettare indifferenti su un corpo pieno di ferite, grondante di
sangue, i
pugni pronti a dispensare la morte. Ma il potere straordinario di
Vegeta era...
comunque insufficiente.
Nelle grinfie del
Demone non sarebbe stato altro che l’ennesima formica.
« Tutto
questo non è un gioco! »
gridò Veldock, avanzando verso di lui con
aggressività.
L’ira trasudava
dal viso di suo padre, un’ira quasi nera, lugubre,
l’energia di un buco nero
che divora tutto. Afferrò suo figlio per il collo,
sollevandosi da terra e
raggiungendo con uno scatto fulmineo la vetrata che li divideva dallo
spazio
aperto. L’atmosfera rossa era cupa, crepuscolare, i satelliti
chiari si
stagliavano all’orizzonte. La vista era mozzafiato, sotto di
loro si estendeva
Vegeta-sei, il centro nevralgico di quel pianeta sabbioso e permeato
dalla
rabbia ossessiva dei Saiyan, sovrastato dalle altezze candide del
Palazzo
Reale.
« Le
vedi, Vegeta? » gli
gridò, acuto nelle sue orecchie stordite, schiacciandogli il
volto contro il
vetro come se la sua testa fosse di plastilina. Vegeta non notava nulla
di
particolare, soltanto case dalle finestre illuminate, il deserto che
soffiava
indifferente, le ombre scure estendersi ovunque, le astronavi atterrare
e
ripartire come uno sciame di insetti impazziti. Deglutì ed
espirò forte dalle
narici, la condensa del fiato che gli appannava il campo visivo.
« Non
hai ancora capito cosa significa essere un re? » la sua voce
era dura, quasi velenosa.
Il bambino era
ammaliato dalla sua immagine riflessa nel vetro, i lineamenti uguali ai
suoi,
le vene nel collo talmente ingrossate da sembrare sul punto di
esplodere.
« Un
re... è colui che ha tutto il potere. »
sussurrò piano Vegeta, trapassandolo con uno sguardo gonfio
di soddisfazione. I
suoi occhi erano fiamme ardenti, potenza allo stato puro, gonfi di
superbia.
Veldock si sorprese a pensare a quanto somigliasse a sua madre, a
quell’unica
donna orgogliosa e determinata che lo aveva sfidato tenendogli testa,
lasciandosi
attraversare per un istante dall’immagine dei suoi capelli
neri, fluenti, dei
suoi occhi chiari, vividi come l’acqua impetuosa.
La aveva persa.
E Veldock era
destinato a perdere anche quel poco che gli restava.
« Sei
proprio un moccioso senza cervello! »
sibilò, alterato, afferrandogli la testa nel palmo della
mano. Lo sbatté forte
contro il vetro, frantumandogli il setto nasale. La lastra si ruppe in
un
fragore sordo, sfracellandosi a terra insieme a fiotti del sangue
vermiglio del
principe. Vegeta si divincolò dalla stretta di suo padre,
ritornando a terra,
le gambe che tremavano, la mano che si teneva il naso da cui scendeva
copioso
un fiume rosso, scuro e denso nello sporcargli i vestiti.
Abbassò lo
sguardo, incapace di sostenere il suo, riempiendosi nuovamente di
vergogna.
Ancora una
volta aveva sbagliato.
Ma per lui...
era vero.
Non era
esistito piacere più grande nella vita di quel piccolo
principe del vedere il
padre partire e tornare, ogni volta con cicatrici nuove, con il nero
dello
sguardo divenuto più profondo, con il sorriso sempre
più fiero.
Adorava sentire
i racconti, immaginava suo padre depredare e uccidere, notando i suoi
stivali
che da bianchi erano divenuti rossi, verdi, blu, qualunque fosse il
sangue dei
suoi avversari. Immaginava come quei tacchi avessero schiacciato di
netto le
loro vene inferiori, estirpando del tutto vite prive di valore. Il
piccolo
Vegeta pendeva dalle sue labbra, potendo soltanto immaginare cosa
significasse
decidere la morte di una persona, di un popolo, di un intero pianeta,
sentirsi
come una divinità della distruzione, in grado di decidere
chi viveva e chi no.
Distruggere tutto, devastare un universo che era tutto per chi ci
abitava,
vedere i palazzi crollare sotto semplici pressioni di dita, vedere le
reazioni
di chi banalmente vedeva i propri cari morire. Vegeta si immaginava
come il
cattivo di una fiaba perversa, bramava il potere di sentirsi
onnipotenti, il
cambiare la sorte in un intero pianeta da un tramonto
all’alba, il nuovo sole
che illuminava soltanto più cose morte, svuotate, divenute
sue, derubate di
ogni essenza.
« Quelle
luci accese, quelle case, sono case di guerrieri valorosi, di Saiyan,
di
persone che io devo guidare! La loro vita dipende dalle mie decisioni!
»
Vegeta pensò al
trono di suo padre, altissimo, diviso dal resto del mondo da una
scalinata
imponente. Non aveva mai riflettuto sul fatto che
quell’altezza potesse essere
anche simbolica, come una metafora del suo essere in grado di vedere
tutto e
provvedere a tutti.
«
Scusatemi... padre. »
biascicò, lo sguardo basso.
« Quando
sarai pronto, tutto questo sarà tuo! Sarà una tua
responsabilità difendere
l’onore della tua razza, proteggere il tuo popolo. »
dichiarò, perentorio, scuotendolo per
le braccia.
La rabbia
invadeva il Re. Era ancora così piccolo, così
inesperto, un moccioso, avrebbe
dovuto aspettare almeno altri dieci anni per incoronarlo,
chissà quanti per
vederlo diventare il leggendario Super Saiyan.
Troppo, troppo
tempo.
Non c’era più
tempo.
Vegeta doveva
crescere più in fretta.
« Tu sei
il principe dei Saiyan! Non devi avere paura di nessuno! »
gli urlò, stringendogli il mento fra le
dita. Vegeta ascoltò la pressione violenta del suo tocco
infierire sui lividi
scuri del volto, non si ribellava a quel dolore come ipnotizzato,
vampiro di
quelle parole, confuso dalla figura autoritaria di suo padre. Aveva
nuovamente paura,
così tanta paura da essere paralizzato.
Vegeta non si
fidava di lui, avrebbe voluto semplicemente disprezzarlo, guardarlo con
la
stessa aria di sufficienza che rivolgeva a tutti gli altri Saiyan,
nullità ai
suoi occhi peggiori degli insetti, ma non ci riusciva. Qualcosa dentro
quell’uomo gli incuteva un timore reverenziale.
Eppure era più
forte di lui, lo era sempre stato, sentiva sepolta dentro di
sé la forza di
uccidere suo padre in qualsiasi momento.
Ma non ce la
faceva, lui era più
forte, lui aveva
il potere di annichilirlo con un solo sguardo.
« Io non
ho paura di nessuno. »
dichiarò a voce alta, tradito ancora una volta dal tremore
della sua voce, pericolosamente
distorta in un singhiozzo. Digrignò i denti scagliandosi
rabbiosamente contro
suo padre. Era un vero enigma, non lo capiva. Non aveva mai capito
nulla di
quell’uomo, così come non capiva
quell’allenamento insolito in cui veniva
massacrato di botte senza nessuna apparente ragione. Aveva sempre
pensato che
se fosse morto suo padre non se ne sarebbe neppure accorto. Le loro
stanze
erano confinanti, eppure non ricordava una singola volta in cui
quell’uomo gli
aveva rivolto la parola al di fuori delle occasioni ufficiali.
Non una singola
volta in cui avevano mangiato insieme.
Sferrò calci e
pugni all’impazzata, troppo vaghi per raggiungere il
bersaglio: era stravolto, stordito
dalla stanchezza e dalla collera, non ce la faceva più,
sentiva le gambe
tremare e il corpo divenire lontano.
Re Vegeta li
evitò tutti con maestria, senza contrattaccare, osservando
la concentrazione scomparire
dagli occhi lucidi di suo figlio. Dopotutto erano trascorse quattro ore
dall’inizio dell’allenamento, il suo corpo immaturo
era arrivato al suo limite
naturale, ma non poteva permettergli di arrendersi così in
fretta.
«
Reagisci, dannazione! »
inveì, il volto contratto in un’espressione di
delusione.
« Non va
bene come sto facendo, padre? »
Si rimise in
posizione di guardia, incedendo lentamente verso il genitore, che lo
guardava
impassibile. Lo assalì con tutta la forza che gli era
rimasta, intenzionato a
dimostrargli la sua potenza, una volta per tutte. Ma suo padre lo
schivò
nuovamente, senza nessuno sforzo, ridendogli apertamente in faccia con
un
ghigno ironico.
Forse si era
accorto che la sua esistenza era una minaccia per la sua posizione di
comando. Dopotutto lui
era il Re, forse non poteva permettere a un altro Saiyan di essere
più forte di
lui, anche se si trattava di suo figlio. Suo padre divenne di nuovo
l’ombra
nera di cui era terrorizzato quando era piccolo.
L’ansia gli
paralizzava le gambe, era troppo nervoso per combattere, sentiva come i
riflessi rallentati dalla stanchezza, la tachicardia assillante che
faceva sgorgare
moti di nausea.
Era arrivato al
limite, sentiva muscoli doloranti e tesi, compressi in una serie
infinite di
morse che gli rendevano ogni movimento uno stillicidio di aghi
dolorosi.
Avrebbe voluto
soltanto lasciarsi andare a terra, scivolando nel nulla, ma si
scagliò contro
di lui per la terza volta, facendo fluire un potente ki-blast dal palmo
della
mano.
La luce invase
la stanza, un bagliore allucinò le loro iridi, accecandoli.
Veldock gli
restituì il colpo con un movimento secco della mano,
incurante di quanto le sue
occhiaie apparissero profonde in quel lampo devastante, stanchi i
lineamenti
del suo volto.
Aveva perso.
Per un breve,
folle attimo pensò di uccidere Vegeta, sentiva le pareti
della mente
traballare, divorate dalla lava corrosiva delle sue speranze tradite.
Forse...
era meglio assassinarlo con le sue mani che saperlo morto per mano di
Freezer,
oppure umiliato, frustrato a sangue o strozzato dalla coda di quel
mostro.
Quel pensiero
gli fece paura, un’angoscia talmente profonda da
rimescolargli le viscere.
Si avvicinò a
suo figlio, sdraiato a terra, colpito dalla sua stessa onda energetica,
alzandolo per il bavero della canottiera. Se lo immaginò,
talmente vivido da suscitargli
i conati di vomito, l’immagine del suo piccolo cadavere, dei
suoi occhi
apatici, svuotati, bianchi, la coda strappata, la spina dorsale
spezzata, sullo
sfondo la risata del demone, seguita dall’eco dei suoi
tirapiedi.
«
Padre... Cosa succede? »
domandò serio Vegeta, fissandolo profondamente, le labbra
strette in
un’espressione timida. Finalmente... aveva avuto il coraggio
di nominare il
grande assente in quella scena assurda e violenta che era stata il loro
allenamento improvvisato.
«
Succede che sei debole, Vegeta. Una terza classe qualsiasi saprebbe
fare di
meglio. »
Un ringhio
tagliente nelle orecchie, gli occhi neri di suo padre che lo
trapassavano da
parte a parte, l’ennesima ferita che andava ad aggiungersi
alle altre.
« Io...
non sono debole. » sbottò,
contraendo la mandibola «
Io... sono più forte di voi. »
Alzò il mento,
con tutta la fierezza dei suoi novanta centimetri di di altezza, e
strinse i
pugni. L’ira correva smisurata lungo le sue vene,
riempiendolo di una forza
nuova, elettrica e vigorosa come un fulmine. Quello che suo padre
desiderava
era uno scontro fra adulti, uno scontro mortale, dunque lo avrebbe
accontentato.
Le gambe gli
tremavano nuovamente, ma non più per la stanchezza, la
potenza del suo sangue
si espandeva deflagrando in tutte le sue cellule, pura e semplice
energia che
si concentrava nell’aura crepitante intorno a lui. Sorrise,
borioso, inquietandosi
per l’espressione strana che si era dipinta sul volto di suo
padre. Sembrava
angoscia, aveva forse paura di morire?
Veldock era
perfettamente consapevole che suo figlio lo aveva già
superato da tempo, ma non
sarebbe stato comunque sufficiente per sconfiggere Lord Freezer.
« Non
saper controllare la propria forza è come non possederla
affatto. » affermò,
stizzito, materializzandosi accanto a lui e atterrandolo con un calcio
nella
schiena. Vegeta cadde, stringendo i denti al punto di sentirli
scricchiolare, l’odio
che si faceva largo sul suo volto.
Chiuse un attimo gli occhi, permettendo al ki di invadere
tutto il corpo, gemendo lievemente nel sentire il fuoco della potenza
coprirlo
dalla testa ai piedi, era imponente, rovente come le fiamme, un vento
corrosivo
che lo separava dal mondo.
Un, due, tre, quattro, contava mentalmente per restare
calmo.
Un, due, tre, quattro, un sospiro profondo, sentiva i
muscoli gonfiarsi e irrigidirsi.
Era talmente arrabbiato con suo padre che avrebbe voluto
fargli male, ferirlo come era stato ferito da lui. Mise le mani in
posizione,
il ki che si accumulava in una sfera luminosa, enorme, sempre
più grande. La
puntò contro suo padre, il cui volto rimaneva
imperturbabile, impassibile, come
se non si trovasse lì. Le braccia di Vegeta tremavano, i
muscoli si contraevano
in spasmi dolorosi, il suo corpo era troppo immaturo e inesperto per
padroneggiare tutta quell’energia.
Ancora, ancora energia, ne serviva ancora, la vita fluiva
lenta dal suo corpo, svuotandolo anche della forza che aveva acquistato
attraverso la collera. Un vago senso di nausea lo faceva deglutire
ripetutamente, non vedeva più suo padre, il campo visivo
completamente occupato
dalla sfera che si ampliava crepitante fra i suoi palmi delle mani.
E
se lo avesse ucciso?
« Avanti, Vegeta. Se hai il coraggio... affrontami.
» gli
gridò, algido, lo sguardo abbagliato dalla sua luce. Quel ki
blast era il più
potente che avesse mai visto da un saiyan non trasformato in Oozaru.
E
se lo avesse ucciso?
Le mani del bambino tremarono più forte.
Quello era un colpo mortale, quasi tutta la forza era
scivolata via dalle sue vene.
Se suo padre fosse morto, lui sarebbe divenuto Re a soli
cinque anni.
Nulla di bizzarro nella storia dei Saiyan, dopotutto per
loro contava solo la potenza fisica.
Avrebbe potuto prendere facilmente il suo posto, realizzando
il suo sogno: finalmente sarebbe andato a depredare, uccidere,
devastare. Si
immaginò, il mantello di porpora che volteggiava alle
spalle, una schiera di
uomini alti alle sue dipendenze, i passi lenti, minacciosi, gli stivali
che da
bianchi divenivano sporchi del sangue inferiore di qualche verme, la
mano
spalancata nel diffondere una vita tossica, distorta, in cui tutto si
piegava
al suo volere.
Un lieve sorriso di piacere si dipinse sulle sue labbra.
Un lieve sorriso che morì quasi immediatamente, sbranato dai
suoi lineamenti. Bastò un secondo per annullare quel ghigno,
un secondo solo in
cui Vegeta intravide lo sguardo scuro di suo padre attraverso il
bagliore. Era
serio, gli occhi pieni di ombre.
Dopotutto, quell’uomo duro era sempre suo padre.
E lui... lo rispettava.
Forse per questo non riusciva a massacrarlo come faceva con
i Saibaman.
Non aveva mai conosciuto sua madre. Gli avevano raccontato
che dopo averlo partorito si era alzata sulle sue gambe ed era partita
per
andare in guerra, una guerra dalla quale non era mai tornata.
Rose era stata uccisa. Era debole e stanca, ancora sfinita
per il parto, ma il suo orgoglio le aveva impedito di ammetterlo,
seguendo le
spalle fiere del marito come in tutte le spedizioni.
Le urla di Vegeta avevano fatto tremare i vetri del Palazzo
Reale. A nulla erano servite le consolazioni e le cure attente delle
serve, Vegeta
non aveva voluto nessuno. Si era calmato soltanto al ritorno di suo
padre, sul
cui volto severo si erano scavate delle rughe che nulla avevano a che
fare con
la vecchiaia. Non aveva manifestato nessuna emozione, limitandosi ad
appoggiare
il palmo della mano sul petto del neonato, madido dal pianto, in
silenzio. Lo
stesso silenzio si era rispecchiato nel viso di Vegeta, paonazzo da
singhiozzi
che erano durati ore.
Quell’uomo gelido e distante era tutto ciò che
aveva.
E non voleva deluderlo.
Le sue mani tremavano ancora di più. Il suo intero corpo
traballò, sfibrato dalla stanchezza. Fissava ancora suo
padre, ipnotizzato in
quella contemplazione, ma la figura scura si volatilizzò
inaspettatamente. La
sua bocca si aprì in un gemito di sorpresa quando Veldock
ricomparve al suo
fianco, una figura nera che si stagliava contro la luce candida.
« Cosa c’è? Hai paura di farmi male?
» lo schernì in un
sibilo, avvicinandosi pericolosamente, così in fretta da
respirare sul suo
volto. Vegeta si paralizzò, abbassando lo sguardo, colpito
da un manrovescio
talmente forte da fargli perdere il controllo della sfera, che
finì per
schiantarsi contro il muro.
Quel figlio era... perduto.
Non sarebbe mai diventato re, se lo sentiva, non avrebbe mai
potuto insegnare a Vegeta a diventare il suo degno erede al comando
dell’esercito dei Saiyan. Non lo avrebbe visto diventare un
uomo, l’uomo
potente e temuto che aveva sempre immaginato. Era ormai pura utopia.
Se lo sentiva, un rimescolio delle viscere gli diceva che
quello sarebbe stato il suo ultimo mese da bambino, perché
poi sarebbe stato
assassinato oppure tramutato in un ignobile servo, spedito in qualche
ramo
oscuro della galassia.
Veldock era intenzionato a non consegnarlo inerme nelle mani
di Lord Freezer, avrebbe fatto del suo meglio per aumentare la sua
forza, per
aumentare le sue probabilità di sopravvivere.
Voleva incontrarlo ancora.
Lo afferrò per il
collo, stringendolo con entrambe le mani, gli occhi del bambino che si
spalancavano per la sorpresa e per il terrore. Sbatté la
testa di Vegeta sul
pavimento, in un colpo talmente forte che le piastrelle sotto la sua
nuca si
ruppero, frantumandosi. La tensione nel corpo di suo figlio si sciolse
come se
la corrente elettrica fosse stata improvvisamente staccata.
Ma Veldock
aveva fiducia in lui, un’incrollabile fiducia che non
morisse.
Lo scaraventò a
terra, mollando la presa dal suo collo. Lo osservò svenuto,
la tuta strappata
sulle gambe e sul petto, che si alzava piano, quasi impercettibilmente.
Vegeta era un
Saiyan e come tutti i Saiyan aveva il dono di tramutare il dolore in
forza.
Lo avrebbe
aiutato a divenire abbastanza potente da sopravvivere a qualunque
tortura che Lord Freezer avesse intenzione di
provocargli.
A costo di
farsi odiare.
A costo di
farsi uccidere.
Non appena vide
il bambino alzarsi si materializzò vicino a lui e gli
sferrò un calcio nello
stomaco con tutta la potenza di cui era capace.
Vegeta rimase
immobile, allucinato, sentì le gambe tremare, qualsiasi
tentativo di
trattenersi in piedi era inutile, tutto era liquido, il pavimento
sempre più
vicino. Cadde rovinosamente a terra, lo stomaco che deflagrava in un
dolore che
lo fece gridare. Non vedeva più niente, la stanza divenuta
un caleidoscopio
d’oscurità, il volto severo di suo padre che si
ripeteva, distorto, in un
caleidoscopio di occhi, il suo sguardo deluso, ancora una volta era
stato
debole, incapace di fronteggiarlo. La nausea lo scuoteva
dall’interno, nemmeno
più il volto di suo padre era nitido, solo la sua ombra,
gigantesca, enorme, si
stagliava dentro la sua testa.
Qualcosa si
contrasse dentro le sue viscere, una centrifuga gli spaccava le
viscere, un
moto rovente gli risaliva lungo la gola.
«
Padre... »
rantolò, le piccole labbra da cui colavano rivoli di
porpora, lo sguardo colmo
di terrore.
La mano del
padre lo girò con fermezza su un fianco, per una volta il
loro tocco era
gentile, ma Vegeta non riuscì a percepirlo, completamente
paralizzato dal
dolore. Sentiva il cuore battere furiosamente nel petto, le costole
incrinate
che rubavano spietate la vita dai suoi polmoni bucati, il fiato
cortissimo. Tutto
il suo petto si contrasse in uno spasmo doloroso, non riusciva nemmeno
più ad
urlare, il suo spirito era come rinchiuso in un puntino dentro di lui,
annegato
nelle profondità. Il panico lo riempiva da cima a fondo,
continuava a respirare
affanosamente ma non arrivava aria, non c’era più
aria, neppure una molecola,
l’oscurità aveva ingoiato tutto.
Non poteva fare altrimenti.
Il destino di
Vegeta era ormai segnato, un fato dal colore del sangue, svuotato della
gloria
e dello sfarzo in cui era cresciuto, sporcato dalla morte che gli aveva
sorriso
quando era solo un bambino attraverso il ghigno di un Demone bianco.
Vegeta cercò lo
sguardo di suo padre, annaspando alla ricerca delle sue mani, premute
sul suo
corpo, ma non
percepiva più nulla. Solo
il dolore, invischiante come una tela di ragno, strillava potente
dentro di
lui, acuto come uno stridio.
Spalancò la
bocca in un conato di vomito scarlatto, il corpo che si contraeva
ritmicamente
per espellerlo. Una pozza di sangue talmente densa da risultare nera si
espanse
copiosa sul pavimento.
Veldock lo
guardò, lo sguardo severo come un vagabondo sulle guance
livide di suo figlio,
entrambi gli zigomi frantumati, il setto nasale ridotto in poltiglia,
le labbra
tagliate da cui colava sangue, sospinto da colpi di tosse sibilanti e
affannosi, echi del cuore che pompava disperatamente, sfibrato dalla
mancanza
di sangue.
Soltanto i suoi
occhi corvini, vividi, rilucevano come astri in quella devastazione,
brulicanti
di vita.
«
Perché... perché volete uccidermi... »
rantolò, incredulo, quasi smarrito.
In quel momento
gli parve soltanto un bambino spaventato, un ragazzino, non un
principe, non
suo figlio, non un guerriero valoroso. Eppure...aveva resistito.
Un’ombra di
orgoglio e ammirazione attraversò i lineamenti austeri
dell’uomo, un barlume di
piacere si rifranse dentro di lui.
« Io
voglio tutto... fuorchè ucciderti. »
Lo prese fra le
braccia, rudemente, appoggiandoselo sulla spalla. Le piccole braccia di
Vegeta
si avvolsero intorno alla sua nuca, come se non avessero fatto altro
per tutta
la vita. Il bambino chiuse gli occhi, stremato, abbandonandosi a quel
corpo
duro, coriaceo, appoggiando la fronte nell’incavo del collo
di suo padre.
Ora... paradossalmente... provava
meno dolore. Sentiva il
braccio di suo padre sostenenergli la schiena, rigida lungo la sua
spina
dorsale, e terminare fra i suoi capelli, tenendoselo premuto contro con
fermezza. Quel contatto caldo, il suo odore, il sentirsi trasportare,
erano la
cosa più vicina ad una carezza che avesse mai provato. Si
lasciò andare,
cullato dal suono ritmico dei suoi passi, sempre più veloci.
Il principe
stava morendo, era il momento giusto per portarlo nella camera di
rianimazione
e assistere alla sua rinascita, ma doveva fare in fretta.
« Tu
devi essere il migliore, Vegeta. »
gli sussurrò, risoluto, esitando per un istante nel
corridoio deserto.
E poi, all’improvviso,
quel calore scomparve.
Senza nemmeno
accorgersene Vegeta tentò di aggrapparsi al padre con le
ultime forze che gli
rimanevano. Ma invano, era stato rifiutato ancora una volta e
scaraventato
nelle mani di servi che gli tagliarono bruscamente i vestiti
immergendolo nella
vasca di rianimazione.
« Quando si
sveglia fatelo mangiare e portatelo di nuovo nella mia palestra
personale. »
Il bambino
spalancò gli occhi di scatto, annebbiato dal blu, confuso
dalle bolle e dalla
densità del liquido gelatinoso che lo avvolgeva, riuscendo
solo a scorgere
soltanto la sagoma alta di suo padre allontanarsi, il mantello di
porpora che
ondeggiava dietro di lui.
Sapeva che sarebbe rinato, come una
fenice dalle ceneri ancora
ardenti della sua morte, più forte, più
coraggioso di prima. Sentiva le sue
cellule iniziare a rigenerarsi, una nuova potenza rinvigorire le sue
vene,
germogliando piano.
Sarebbe diventato
il migliore, il migliore di tutta galassia, un Re anche migliore di suo
padre.
Senza dubbio.
Non lo avrebbe
deluso. Quell’uomo violento e rabbioso era l’unica
persona che Vegeta
considerasse reale, l’unico per cui provasse rispetto,
l’unico Saiyan il cui
non riuscisse a sostenere lo sguardo senza provare un minimo imbarazzo.
Sarebbe
diventato il più forte.
Più forte di
chiunque, ne era certo, eppure si sentiva immensamente triste. Si
sentì, per la
prima volta, sopraffatto dal dolore, da un dolore non solo fisico,
aveva paura,
un terrore profondissimo di cui non conosceva la ragione, celata nelle
ombre
degli occhi tetri di suo padre.
Circondato
dalla solitudine si permise di piangere, le lacrime che si disperdevano
nel blu
della vasca, scosso da singulti talmente intensi da far sanguinare
ancora più
copiosamente le sue ferite, il corpo sferzato dalla corrente delle
biotecnologie
che instancabili sfrecciavano sulla sua pelle.
Ma le ferite
che si erano aperte nel suo animo non potevano essere curate dalla
scienza. Una
cupa angoscia si era insinuata talmente in profondità dentro
di lui da scavare
un nido nelle sue viscere, una seconda fenice, perversa, sbatteva le
ali
intessute di aghi e di tenebre dentro di lui, facendo esplodere le sue
vene,
gridando crudele un canto dissonante, stridente, una melodia distorta
che irritava
come carta vetrata tutti i suoi punti deboli.
Forse stava
succedendo qualcosa di brutto che Veldock non aveva voluto dirgli.
Oppure più
semplicemente... era colpa sua.
Si era meritato
di essere umiliato e massacrato di botte.
Non era ancora all’altezza.
Non valeva
nulla.
Non ai suoi occhi.
***
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