Lo Spleen di New York

di Kitsunelulu
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Capitolo quarto: A Parigi non c'erano frutteti dove giocare


Gennaio 1919. George Hatkins era appena tornato in America dalla Francia, dove aveva soggiornato per cinque anni. Lì aveva vissuto la guerra da vicino e l’esperienza aveva scalfito in lui un cambiamento irrimediabile. A diciotto anni, per volere del padre, George raggiunse suo fratello maggiore che lavorava a Parigi. Lì avrebbe studiato una disciplina seria sotto la sua tutela, lasciando perdere le futili ambizioni letterarie che aveva manifestato. Tuttavia, la città di Parigi sembrò incutere in lui l’effetto contrario: era uno scrigno di bellezza, continue meraviglie, fermento letterario e artistico. Si sentiva ispirato da quell’aria e non badava agli studi. Passava tutto il tempo nei cafè e divenne subito amato da tutti in quell’ambiente. Almeno fin quando la guerra non rese impossibile qualsiasi sentimento positivo. Vissuta in prima linea, era un’esperienza del tutto diversa da quella delle comode poltrone americane degli uffici in cui lavorava Charlie. A proposito di Charlie, George era convinto fosse morto, o fosse un totale cinico, tanto da averlo dimenticato. Aveva continuato a mandare lettere per tutto il tempo da Parigi, senza ricevere alcuna risposta. Quando anche suo padre morì (aveva perso la madre appena nato senza neppure conoscerla) e fu costretto a tornare in America, il suo primo pensiero fu “Troverò dov’è sepolto quel maledetto traditore e sputerò sulla sua tomba. Se è vivo, lo ucciderò”. Ma quando, tornato alla villa in campagna, si accorse di tutte le missive accumulate e l’ebbe lette tutte d’un fiato, le lacrime gli scorsero incessanti lungo le guance, e si pentì di aver pensato quelle cattiverie. Di suo padre non gli era mai importato nulla. Tra l’altro, ora che anche lui era morto ed il fratello era impegnato ad affrontare la minaccia comunista in Europa, avrebbe avuto tutta la libertà che desiderava. Si sarebbe dedicato agli studi letterari e con i soldi ricevuti in eredità avrebbe vissuto degnamente la stessa vita mondana a cui Parigi l’aveva abituato. New York era molto più viva, nonostante fosse reduce dalla guerra. Forse l’America era l’unica potenza che poteva dirsi davvero vincitrice. L’economia negli anni 20 rifiorì e le strade si illuminarono completamente. Le automobili iniziarono a diffondersi anche tra i borghesi. Il progresso sembrava, come sempre, inarrestabile. Quanto a Charlie, George era convinto che fosse ancora vivo. L’ultima lettera ritrovata alla villa risaliva al 1916, anno in cui entrambi avevano compiuto vent’anni. Chissà, forse da allora aveva perso le speranze e forse era troppo indaffarato nel lavoro per badare al fantasma del suo vecchio amico. Conoscendolo, probabilmente in quegli anni era diventato un uomo d’affari serio e diligente. Un avvocato oppure un giornalista, come aveva tante volte ammesso di desiderare. Si chiedeva che fine avessero fatto le lettere da lui spedite da Parigi. Malediceva costantemente ogni servizio di posta intercontinentale che avesse mai utilizzato. Nel marzo del 19, risolte tutte le pratiche burocratiche relative alla morte del padre, George decise di mandare una lettera al vecchio indirizzo dell’amico, che conservava gelosamente in quella prima lettera che si erano scambiati. La risposta che ricevette bastò a mandarlo su di giri per una notte intera.




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