N.B.
Troverete a fine testo
le informazioni sulla sfida e il prompt utilizzato.
L’ambientazione
e i personaggi mi appartengono, pur essendomi ispirata alla fiaba
originale. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo
di lucro.
~
“Io
penso questo: che le fiabe siano ingannevoli, fittizie, puerili. Prese
tutte insieme, nella loro ripetuta utopia di vicende umane, sono uno
stravolgimento generale della vita, nate in tempi remoti, serbate nella
precaria meditazione delle popolazioni incolte fino a noi. Sono il
catalogo delle illusioni, delle menzogne che possono assimilare e
annebbiare un uomo e una donna.”
-
l’autrice a Italo Calvino
Cenere
di Villavalle
A
chi crede ancora nelle favole e non ha mai smesso di sognare,
a chi ha
già fatto i conti con la realtà e ha i piedi ben
piantati a terra,
a chi vive la propria
vita con insoddisfazione o aggrappandosi a frivole speranze,
a chi ha tagliato i
ponti con il passato e pensa ai problemi del presente…
A voi, adulti e
adolescenti, narro questa storia. Una storia non molto longeva, ma che
ha superato i confini dei tempi moderni e ha abbattuto le barriere di
quelli antichi, divenendo un esempio di sagacia e buonsenso –
si sente una risatina
sommessa – da tramandare a numerose generazioni
non più inebriate dalla diffusione di racconti antichi,
riadattati e fallaci.
C’era una
volta, nel lontano 2015, nel paesino rurale di Villavalle –
non molto distante dal capoluogo di regione –, un benestante
possidente di terre, ereditate dalla sua famiglia di agricoltori e
imprenditori, di nome Fulgenzio. Era un uomo infelice e frustrato, ma
anche fiscale, conservatore e un
tantino tanto ingenuo; perennemente combattuto fra il
desiderio di evadere da quella penuria di cittadini –
poiché consapevole di poter aspirare ad ambienti migliori
–, e l’opprimente timore di sporcarsi la coscienza
se avesse lasciato le terre ad un altro abitante e avesse messo fine al
tramandamento di quel mestiere. Una tradizione propria di una famiglia
ancora legata ad antiche e superate credenze.
Egli aveva una moglie,
una donna di salute mentale precaria. L’ansia e la
depressione, derivate dall’insoddisfazione di non aver potuto
vivere una vita al pari della gente di città e
dall’obbligo di sottostare alle scelte di un marito
intransigente, avevano peggiorato la sua condizione –
rendendola ingestibile, perché presupponeva malattie in
verità inesistenti. Morì quell’anno per
overdose di medicine, lasciando al marito la custodia della loro unica
sciagurata figlia di nome Cenere.
Cenere per la
tonalità bionda dei suoi capelli.
Cenere
perché rappresentava la loro beatitudine ed economia che
stavano andando in frantumi.
Cenere come il colore
impuro delle carenze
che la loro contaminazione le aveva trasmesso.
Cenere era la bambina
che nessuno avrebbe mai voluto avere.
Fin da piccola aveva
manifestato una propensione al carattere scrupoloso del padre,
ostentando l’orgoglio di fare parte della vita di campagna;
d’altro lato, ereditò l’insicurezza e la
sensibilità della madre, che la portarono a sviluppare
diffidenza nei confronti degli altri.
Il carattere instabile
del padre e la mancanza di un sostegno economico –
poiché Fulgenzio aveva sperperato molti soldi in alcolici e
tabacco, e non usufruiva più della sua terra ormai incolta
– fecero invaghire quest’ultimo di una donna dello
stesso paese, vedova anch’ella e madre di due ragazze. La
signora Tremante – così faceva di cognome e, cosa
curiosa, aveva i primi sintomi del Parkinson – non
interessò al padre di Cenere per la bellezza o
l’educazione, ma per la sua ricchezza che avrebbe garantito
più stabilità alla famiglia. Ella stessa puntava
ad appropriarsi dei beni dell’uomo, e non mancò di
fare violenza psicologica a quella persona già tribolata;
costrinse anche le due figlie, Genuflessa e Anestesia, a rendere la
vita impossibile a Cenere e far ricadere ogni colpa su di lei.
Disastri in cucina,
usi impropri degli apparecchi elettronici del padre, stanze messe a
soqquadro, vestiti sporchi e stropicciati, quaderni dei compiti
scarabocchiati e libri strappati… Fulgenzio biasimava ogni
volta Cenere per colpa della sua disarmante ingenuità, per
la ripugnanza che aveva sempre provato per lei, perché
riteneva che le altre dovessero essere trattate come gentili ospiti.
Cenere detestava il
padre, e in cuor suo era invidiosa di tutta l’importanza che
egli dava alle sorellastre; sicché, quando morì
d’infarto, ella non versò alcuna lacrima ed
entrò in uno stato di perenne apatia, imparando a ricacciare
dentro ogni tipo di sentimento in maniera formidabile, ed andare sulla
difensiva ogniqualvolta si sentisse minacciata.
Soddisfatte di essersi
liberate dell’uomo, la donna e le figlie ereditarono tutto il
patrimonio rimasto; l’ultima cosa da fare era sbarazzarsi di
Cenere per poter vivere in pace nella loro casa rurale.
Furono vane tutte le
loro proposte; la possibilità di trasferirsi in
città e di frequentare una scuola privata era una di queste.
La giovane aveva già attuato la sua vendetta, negando la
propria felicità e libertà, così come
quella degli altri, trasformandola in cenere. Si
rinchiuse in una solitaria prigionia, senza voler chiedere aiuto a
nessuno; impose a se stessa di fare tutti i lavori di casa per sfogo,
suscitando di proposito commiserazione in coloro che andavano a fare
visita alla matrigna, e mettendo quest’ultima in cattiva
luce. Manifestò la voglia di abbandonare gli studi e
cercarsi lavori part-time – scelta che la Tremante non
disquisì per il futuro stipendio della fanciulla
–; rifiutò di prendersi la patente e di
familiarizzare con nuovi modelli di cellulari perché
ciò comportava un avvicinamento alla vita sociale che tanto
odiava.
Convivevano ambedue
le fazioni
per convenienza.
Venne il 2017. Gli
squilibri mentali di Cenere, ereditati dai genitori, si fecero sentire
di più. Cominciò a ritenere di avere visioni
mistiche di fate
che le avrebbero garantito protezione se le avesse accettate come
angeli custodi; ella cadeva in stati di estasi e, quando tornava in
sé, era piena di giubilo poiché credeva di essere
la principessa sul
pisello, come le protagoniste di quelle favole
superficiali che sua madre soleva inculcare nella sua malformata mente
di bimba, ai tempi appena dodicenne.
Iniziò a
considerare come unici veri amici gli uccellini che ogni mattina
cinguettavano alla sua finestra e lasciavano le loro necessità corporali
sul cornicione – ai quali lei si univa, cantando a
squarciagola –, e le pantegane che catturava piazzando
trappole nel trascurato terreno del padre e che tentava di
addomesticare in segreto. Sfruttava quei topi per combinare dispetti al
nuovo gatto della matrigna, che lei detestava perché
riempiva di peli tutta la moquette.
L’antipatia
fra lei e le sorellastre aumentò dopo che Cenere ebbe
spifferato alla matrigna che un pettirosso le aveva riferito di un
bacio tra le due figlie nella loro stanza. La vedova Tremante
tremò di fronte a tale affermazione, ma finì per
non credere alle sue parole, e appena Genuflessa e Anestesia lo
seppero, le tirarono i capelli e le alzarono le mani.
A lei piaceva essere
trattata così; le dava un senso di benessere. Aveva
sviluppato, nel corso degli anni, un attaccamento morboso a quella vita
monotona. Non se ne lamentava, né voleva cambiarla.
Tempo dopo, le
sorellastre riuscirono a diplomarsi – dopo diversi tentativi
e lasciti monetari da parte della madre – e andarono a
frequentare la prestigiosa università di Augustopoli, il
capoluogo della regione; non prima della raccomandazione della signora
di non dimenticare i subdoli insegnamenti, di fare esperienza e
fidanzarsi.
Qualche mese
più tardi, le due inviarono un SMS alla vedova, nel quale vi
era scritto che le giovani, durante una serata in discoteca nella quale
avevano fatto esperienza,
avevano conosciuto il figlio del sindaco della città. Egli,
completamente ubriaco, aveva confessato loro che la sua ragazza
l’aveva lasciato per il nipote della regina
d’Inghilterra.
Alla vedova brillarono
gli occhi; le si era prospettata la possibilità di
un’ascesa sociale di una delle figlie, se avesse conquistato
quel ricco giovane dalla bionda chioma ossigenata.
Un giorno, Cenere,
mettendo mano per curiosità al cellulare della matrigna,
scoprì l’esistenza del ragazzo. Appena ne seppe il
nome e il cognome, Alfio Scamorza, lo rintracciò su Facebook
tramite il profilo della Tremante. Il suo cuore le palpitò
forte appena lesse nella descrizione “vegano convinto; io sono quello
che sono, non quello che gli altri pensano che io sia”
ed altre citazioni di ampio spessore culturale.
Cenere
cominciò ad immaginarsi una relazione a distanza con Alfio
– preferibile a quella ravvicinata perché il
contatto fisico la metteva a disagio – e
un’eventuale presentazione della sua pantegana preferita,
Giangiuliangelo. Cominciò una lunga conversazione col
giovane, nella quale Alfio riuscì ad ammaliarla
così tanto da farle tornare la voglia di scoprire la
città.
Eliminati tutti i loro
messaggi ed uscita da quell’account, la ragazza decise di
organizzare un viaggio lì, facendosi aiutare dalla matrigna
– dicendole che era di
piacere. Fatti i biglietti del treno e comprata una
gabbietta per Giangiuliangelo, le mancava solo un vestito provocante
– come voleva Alfio –; dopo essersi messa in
ginocchio a pregare una sua fata di nome Sbadatina, si
ricordò miracolosamente di rovistare fra gli abiti di
Primark delle sorelle, trovandone uno azzurro e corto – le
arrivava a metà coscia – e scegliendo poi un paio
di scarpe rifulgenti Louis Vuitton con tacchi a spillo.
Il giorno della
partenza si agghindò in suddetto modo. Prese due treni
sbagliati, si smarrì tre volte, perse l’equilibrio
quattro volte, pianse cinque volte, ma alla fine riuscì a
raggiungere la sua fiamma virtuale alla stazione prestabilita.
Alfio le fece girare la città, che Cenere
contemplò con ragguardevole stupore e una buona dose di
attacchi d’asma; la portò in un ristorante di
lusso, pieno di gente. Fu in quell’occasione che la ragazza
esternò la sua ansia e sociopatia; si mise ad elogiare la
vita di campagna mentre si strafogava di spaghetti allo scoglio e
mangiava il pesce con le mani. D’altra parte, Alfio non si
mostrava tanto interessato, e passava i minuti a controllare Instagram.
«Stai
proferendo verbo a Genuflessa e Anestesia o stai solo ammirando i loro
décolleté?», domandò Cenere
con aria perplessa, «Ah, devono odiarmi
assai…»
«Le due
amanti? Oh no, gentil donzella!»
Alfio le
raccontò che le due avevano sfruttato il loro viaggio per
coronare il loro sogno d’amore; Cenere ebbe la conferma della
loro omosessualità incestuosa, e si promise di spifferare
tutto alla matrigna al suo ritorno.
Alfio,
però, non aveva buone intenzioni; il suo scopo era
divertirsi con lei quella sera in discoteca. Tuttavia, appena Cenere
mise piede in quel locale così malsano, congestionato e
rumoroso, ella sbiancò e perse il senno; si mise a
schiamazzare per tutta la sala, lasciando gli altri di sbieco, e poi
evase con le mani fra i capelli – non prima di aver rotto
qualche bicchiere e spinto qualche invitato.
La fanciulla cadde di
faccia molte volte, ma il vero guaio che combinò fu passare
sopra la grata di un tombino, facendo incastrare nel loco il tacco di
una sua scarpa. Vedendo che il magnanimo Alfio la stava inseguendo a
suon di parole scurrili, Cenere abbandonò la scarpetta e
tornò con l’ausilio di un taxi
all’ostello nel quale aveva prenotato una camera matrimoniale
per lei e la pantegana.
Dopo alcuni giorni,
Cenere, mentre si trovava ad un Internet Point e stava bazzicando il
sito di eBay per cercare delle sneakers a buon prezzo,
scoprì con sconcerto che Alfio aveva messo in vendita la
scarpa che lei aveva lasciato, scrivendo nella descrizione che
apparteneva ad una ragazza bionda che calzava trentasette, e
aggiungendo poi come contattarlo.
Cenere, dispiaciuta
per quanto era accaduto, e decisa a farsi ritrovare dal giovane e
dirgli il suo nome – no, non l’aveva ancora fatto
–, cliccò il tasto “Compra”
prima che qualcun’altra potesse approfittarne.
Troppo tardi: qualche
secondo prima, una sconosciuta aveva acquistato l’oggetto. La
povera Cenere pensò di contattare il ragazzo su Messenger,
ma non si ricordava la password della sua matrigna, e non aveva nemmeno
il suo numero di telefono. Allora la sventurata si
demoralizzò per la sconfitta ed il presunto tradimento,
buttando tutti i suoi progetti al vento.
Una settimana
più tardi, i quotidiani di Augustopoli diedero la notizia
del fidanzamento del ragazzo con una fanciulla che aveva calzato
perfettamente la scarpa poiché aveva il medesimo numero;
bionda, slanciata e soprattutto ricca.
Cenere rimpianse di
essersi fidata di un estraneo e di aver rinunciato alla vita di
campagna. Nel contempo, comprese che l’unico che le era
sempre stato fedele era il suo topo preferito, e si rese conto di non
voler desiderare altro fuorché le sue attenzioni.
E fu così
che la donzella dai capelli color cenere, dopo aver detto addio fra
sé e sé alla matrigna, alle sorellastre amanti,
ad Alfio e a tutti gli animali che aveva conosciuto a Villavalle,
partì – grazie ai soldi ereditati dal padre
– con Giangiuliangelo alla volta di luoghi remoti, in cerca
di una nuova vita e di un nuovo ragazzo da poter sfruttare come
babysitter per la sua pantegana quando lei non avrebbe potuto badargli.
Conclusasi
così la sua travagliata vita sentimentale, poté
tornare a detestare la società e fare vittimismo.
Nessuno dovette
sopportare più la sua opprimente presenza, e vissero tutti
felici e contenti.
Orsù dunque
vi chiederete: è, codesto racconto, soltanto una mera
rivisitazione bizzarra della fiaba? Perché mai
voll’io narrarlo?
Il senso di questa
sì triviale storia va ben oltre il suo rivestimento burlesco
e il riadattamento delle vicende.
È la chiave
moderna, la risposta a tutto; essa riflette con enfasi ed esagerazione
mordace lo specchio della nostra società e la consapevolezza
di valori, utopie e stereotipi che oggigiorno vengono a mancare. Sta a
voi considerarlo un bene o un male.
Non esistono
principesse pure di cuore, portatrici di umiltà ed esempi da
seguire, poiché il mondo dei ricchi e di chi ha potere
è corrotto; né tantomeno esistono principi fedeli
che eleggono una compagna per puro sentimento.
Non esistono storie
d’amore fatte contemporaneamente di colpi di fulmine, fortuna
e devozione, né tantomeno la possibilità di
aspirare ad un’ascesa sociale con tale semplicità,
se non si è scaltri e fuorviati dalla retta via e si
è, invece, deboli di carattere e non predisposti al
cambiamento.
Non esistono persone
così poco dignitose ed esageratamente pietose –
come la vera Cenerentola, la quale si lasciava assoggettare ai voleri
delle sorelle e della matrigna senza batter ciglio, senza provare a
fuggire o chiedere aiuto, passando invece le giornate a sognare ad
occhi aperti.
Non esistono nemmeno
persone totalmente cattive, temibili, da biasimare per ogni cosa che
fanno, impossibili da affrontare o invincibili.
Esiste, invece, chi
è perennemente insoddisfatto della vita, che non si
accontenta mai o rimane confinato nel suo dolore e nelle datate
tradizioni.
Esistono persone
che, a causa della loro salute mentale instabile, fanno soffrire anche
peggio chi sta loro accanto, e trasmettono la depressione – o
la cattiva condotta – ad eventuali figli.
Esiste chi si
approfitta della gente per puri interessi sessuali e materiali, e non
concepisce l’amore nel suo significato più puro.
Esistono genitori che
non si curano degli interessi e diritti di un figlio, e rendono
quest’ultimo uno strumento per le loro ignobili azioni.
Esistono figli che da
grandi si creano uno scudo emotivo, si vendicano del torto subito o
fuggono lontano dal morbo.
Sviluppano manie, ossessioni, astio, squilibri. Rifiutano di essere
socialmente attivi, trovando, per esempio, conforto negli animali
domestici.
Esistono differenti
canoni di bellezza; si preferisce, in genere, il ragazzo alla moda e
infedele, piuttosto che l’educato cavaliere errante
di sani principi.
Esistono relazioni
superficiali, nate con semplici richieste d’amicizia e poca
frequentazione.
Una persona
può essere facilmente rimpiazzata da un’altra, il
più delle volte perché non conforme alla massa.
Sono stati abbandonati
certi stereotipi per acquisirne altri, poiché la
società e le nuove generazioni non sono altro che un ciclo
in cui non vige la regola “historia magistra
vitae”, ma si commettono infinitamente gli stessi errori
sotto luci differenti.
Differenti
perché ci si deve adeguare al modo di pensare di quel tempo.
Perché
ognuno è figlio del proprio tempo, dico bene?
Questo è
quanto, cari ascoltatori.
Ora basta parlare:
sono le undici di sera e non
si può andare a letto. È troppo
presto, vero? La Home di Facebook dev’essere ancora
aggiornata, i messaggi di Whatsapp ancora visualizzati, gli ultimi
video di YouTube ancora visti e messi tra i preferiti.
E scusatemi se vi ho
tediato con questa favola
della buonanotte. So che avete altro da fare.
Che sciocca:
un’usanza del genere si è già persa da
tempo. Che esempio starei cercando di dare, altrimenti, dopo gli
insegnamenti sopracitati?
Sono proprio una
smemorata; anzi, una Smemorina.
~
Angolo
dell’autrice
Salve a tutti gli utenti
di questo fandom!
Come ho scritto nel
prologo, questa storia partecipa alla sfida “A box full of prompt edizione II”
del gruppo Facebook “EFP
famiglia: recensioni, consigli e discussioni”.
Il prompt a cui mi sono
ispirata è il seguente: “Reinterpretazione di una fiaba a
propria scelta in chiave moderna, cambiando alcuni elementi ma restando
fedeli all’idea di base.” Colgo anche
l’occasione per ringraziare la persona che l’ha
proposto e che mi ha permesso di elaborare quest’idea.
La mia è una
rivisitazione “particolare”, poiché ho
voluto accorpare elementi dell’universo moderno ad un pizzico
di comicità satirica. Tuttavia, non mi sono voluta
focalizzare tanto sulla descrizione di certe
“abitudini” ed interessi odierni, quanto sulla
morale e su certi problemi psicologici – qui estremizzati
–, attenendomi al concetto fiabesco; motivo per il quale,
alla fine, traspare anche un barlume di apprezzamento nei confronti di
questi racconti, che sì sono illusori, ma anche fautori di
purezza d’animo ed insegnamenti.
Quindi la
storia sintetizza, a grandi linee, il mio punto di vista per
quanto riguarda certi insegnamenti – a mio parere –
utopici e fuorvianti delle fiabe, e l’enorme degrado di
sentimenti e valori nel quale la società di oggi si sta via
via immergendo.
Ho scelto la fiaba di
Cenerentola per due motivi:
- è una delle
più conosciute (se non la più conosciuta in
assoluto); quindi, i confronti e la trasposizione in chiave moderna
possono essere capiti da tutti i lettori.
- è quella
che mi piace di meno; la caratterizzazione dei personaggi (specialmente
di Cenerentola), come questi ultimi agiscono e come proseguono le
vicende mi lasciano delusa, infastidita, con l’amaro in bocca
e una smorfia sul viso ogni volta che rileggo la fiaba/guardo il film.
Per quanto riguarda la
mia interpretazione sui “recessi oscuri” della
psicologia dei personaggi, ho aggiunto o esplicitato –
alternandomi tra serio e faceto – alcune cose che
nell’opera originale sono state lasciate
all’immaginazione del lettore o fatte passare per
comportamenti normali.
La frase inserita prima
del racconto è una personale storpiatura di una citazione di
Italo Calvino (cliccate qui per visualizzare il testo
originale), il quale – al contrario – elogiava
tutte le fiabe.
Spero – anche
qualora non doveste concordare con alcuni aspetti della
“morale” finale – che abbiate gradito
questo scritto, e che il mio punto di vista e questa versione dei fatti
vi abbiano, comunque, incuriosito.
Commentate, che mi fa
sempre piacere parlare con i lettori!
Grazie per essere
arrivati fin qui. ^^
Alla prossima,
Scarlet
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