Fresia.
“The way she tells me
I'm hers and she is mine
Open hand or closed fist would be fine
The blood is rare and sweet as cherry wine.
[…]
But I want it
It's a crime
That she's not around most of the time”.
[Hozier – Cherry
Wine]
Era
sempre stato bellissimo.
Non erano che bambini, troppo giovani per capire
le discussioni degli adulti ma troppo grandi per restare nascosti dietro le
gonne delle bambinaie. Era sempre così noioso, in quelle grandi magioni del
Galles, quando le feste erano precluse e l’ora di andare a dormire era ancora
troppo lontana. Lei era la più grande fra i suoi quattro fratelli, eppure non
le era ancora permesso restare in salotto ed osservare le dinamiche bizzarre di
quella società che si nascondeva dagli altri,
ma che amava palesarsi con eccessi continui e feste riservate a pochi. Le
piaceva sedersi sulla scalinata, la camicia da notte color panna troppo grande
per le sue piccole spalle poiché la nonna continuava a ripeterle che presto
sarebbe cresciuta, che l’avrebbe portata con sé ad Hogwarts come aveva fatto la
sua mamma. Non le dava fastidio, le sembrava di indossare un abito elegante
come quelli che aveva visto nelle foto di famiglia, quasi se fosse stata a sua
volta invitata a quegli incontri segreti che i suoi genitori intrattenevano
spesso con gli amici.
«Dovresti essere a letto» le aveva detto il
bambino, apparendo dal nulla come un fantasma, le mani nascoste dietro la
schiena ed i piedi nudi. Era così piccolo e magro da somigliare ad un asticello
più che ad una persona. I suoi genitori erano stati invitati alla festa per la
prima volta proprio quella sera, per questo ancora non lo conosceva bene.
Emmeline aveva detto che le faceva paura, che era strano, ma lei non le aveva
creduto. Anche Emmeline, dopotutto, era molto strana.
Si era accigliata, osservandolo con una certa
curiosità. «Sono abbastanza grande per restare sveglia, la mia Tata lo sa. Dice
che posso restare qui ad ascoltare la musica» gli disse, portandosi un ricciolo
dietro l’orecchio. Sua madre avrebbe urlato allo scandalo, se avesse saputo che
era finita a parlare con qualcuno senza neppure la vestaglia e con i capelli in
disordine. «Tu cosa ci fai qui?».
Il bambino si era stretto a sua volta nelle
spalle, aprendosi in un sorriso parzialmente sdentato che le aveva fatto
battere forte il cuore. «Volevo provare ad andare di sotto. Non è giusto che
loro si divertano mentre noi siamo costretti a dormire. Però sono stato
scoperto dall’elfo e sono stato spedito di sopra» le spiegò, facendosi avanti
di qualche passo ma senza affiancarla. «Posso restare qui? Voglio sentire la
musica anche io» le chiese, indicando lo spazio sul suo stesso gradino. La sua
voce si era abbassata, quasi si stesse vergognando, ma lei non ci fece caso.
Scosse il capo, indicando con un cenno il
corridoio buio. «Tu non hai il permesso della Tata, non puoi restare qui. Farai
meglio ad andare in camera, gli adulti si arrabbieranno trovandoti in giro» gli
fece notare, cercando di mostrarsi gentile ma decisa, come sua madre le aveva
insegnato.
Il bambino, improvvisamente a disagio, si dondolò
leggermente su se stesso, senza tuttavia smettere mai di guardarla negli occhi.
Le piaceva essere guardata, la faceva sentire meno insignificante, non più una fra tanti. «Per favore, fammi
restare qui con te. Ho paura a tornare indietro, non mi piace il buio».
Lei non aveva più paura, ma ricordava quando aveva
costretto sua madre a lasciare un fuocherello
perpetuo all’angolo della sua camera. Forse i genitori di lui non
conoscevano quell’incantesimo e non sapevano come tranquillizzarlo.
Non poteva certo abbandonarlo a se stesso.
«Siediti pure, allora, poi ti accompagnerò io,
tanto fra un po’ dovremo comunque andare a letto» gli disse, sorridendo e dando
dei colpetti allo spazio al suo fianco, incoraggiante. «Ai genitori non piace
se al mattino siamo tutti mogi per colpa del sonno. La Tata dice sempre che
bisogna avere misura nelle cose».
Lui le sorrise ancora, lasciandosi cadere per
terra con un tonfo leggero ed avvicinandosi finché i loro gomiti non si
toccarono. Dalle loro spalle, un sibilo cattivo spezzò la quiete ed il mormorio
allegro proveniente dal piano di sotto, facendoli voltare giusto un attimo
prima che una palla di pelo nero tentasse di avventarsi su di lui, spingendolo
quasi giù dalle scale.
Il gatto si famiglia si chiamava Faustus, era una
bestia sempre docile che non si era mai comportata male con i loro ospiti, in
particolar modo se bambini. Quella volta, tuttavia, lei fu costretta a
prenderlo per la coda e tirarselo in braccio, spaventata che potesse ferire
quel bambino che era già tanto triste e magrolino. Lo rimproverò, quasi
lanciandolo lontano, ma si ritrovò costretta a riacciuffarlo almeno un paio di
volte prima che sembrasse decidersi a non far del male al suo nuovo amico.
«Non capisco perché faccia così, di solito è tanto
buono» rifletté, ricambiando lo sguardo degli occhietti gialli che Faustus
teneva ancora puntati su di loro dal suo posto fra le ombre. «Ti sei
spaventato? Non ti ha fatto del male, spero».
Uno strano scintillio animò gli occhi azzurri del
bambino, che tuttavia scosse le spalle e sembrò riprendersi. «Sto bene, tranquilla.
Forse è geloso perché sei la sua padroncina. Molti animali lo fanno» le disse,
accennando un sorriso estremamente triste. «Anche io vorrei un animale
domestico, ma mio padre non vuole. Dice che io sono l’unica bestia che può
permettersi di tenere in casa» aggiunse, con un tono imbarazzato che sembrò
quasi spegnersi alla fine, quasi non avesse voluto far sentire le ultime
parole.
Qualcosa di gelido si mosse nello stomaco di lei,
che si portò una manina al petto mentre l’altra prendeva quella del nuovo
compagno. «È una cosa bruttissima da sentire! Perché ti ha detto una cosa del
genere? Tu non sei certo un animaletto e la tua famiglia non è povera» mormorò,
ricordando le discussioni che sua madre e suo padre avevano avuto sulla
famiglia di lui. Erano tanto ricchi, per questo erano stati invitati. Forse
avrebbe fatto bene a dire loro di non invitarli più, se davvero il padre era
stato tanto cattivo con quel povero bambino.
Lui sospirò, abbassando il capo senza tuttavia
smettere di guardarla. «La verità è che non mi vogliono. Nessuno mi vuole»
mormorò, con aria particolarmente patetica. «Dicono che sono un
mostriciattolo».
Il cuore di lei si accartocciò in una pallina,
sentendolo parlare in quel modo. Quale genitore avrebbe mai potuto dire cose
simili ad un bambino tanto piccolo e carino? Le sembrava assurdo. Suo padre la
chiamava “mio tesoro” e la mamma le
ricordava sempre quanto si sentiva fortunata ad avere lei ed i suoi fratelli
nella sua vita. Possibile che altri adulti potessero essere, invece, tanto
crudeli verso il loro stesso figlio?
«Secondo me non sei un mostriciattolo» provò a
confortarlo, dandogli dei gentili colpetti sulla mano, che poi lui strinse.
Dalle loro spalle, un altro sibilo furioso lo spinse a mollare la presa. «Se
vuoi possiamo essere amici, così non ti sentirai solo e potrai venire a giocare
con me e con i miei animaletti» propose, cercando di imitare il tono che la Tata
usava con lei quando era triste per qualcosa. Il modo in cui lui si illuminò la
fece sentire leggera, importante.
«Come ti chiami?».
«Io sono Evan. Evan Rosier, sono felice che tu sia
mia amica».
«Io sono Dorcas Meadowes. Anche io sono felice che
tu sia mio amico».
Estasiato, Evan si piegò di lato fino a poter
poggiare la testa sulla sua spalla, ridacchiando fra sé e sé. Stava mormorando
qualcosa molto simile ad un “mia mia mia
mia” cantilenato, ma lei non
riuscì ad esserne certa. Faust, uscito dal suo rifugio, tentò ancora una volta
di attaccarlo, riuscendo a graffiarlo malamente sulla guancia.
Servì la Tata per staccare via l’animaletto dal
bambino, ma gli adulti non sentirono assolutamente nulla ed Evan non pianse
neppure una lacrima, nonostante il sangue avesse iniziato a macchiargli la
camicia da notte.
Il mattino dopo, nessuno riuscì più a trovare il
piccolo gatto. Solamente tre giorni dopo, Morgan, il fratello più piccolo di
Dorcas, lo ritrovò impiccato ad un albero e con il corpicino martoriato.
Mascalzoni
babbani, fu la risposta dei signori Meadowes.
Forse se
lo meritava, aveva aggiunto Evan, con un sorriso crudele,
passandosi la punta dell’indice sulla cicatrice che sarebbe rimasta per sempre
sulla sua guancia. Poi le aveva sorriso, prendendola per mano. Tanto lei era amica sua, ormai non aveva
bisogno di un gatto.
Bellissimo,
come un fiore.
Le aveva poggiato il capo sulle gambe, mentre
riposavano all’ombra di una grande quercia. I giardini di Hogwarts erano
immensi, soprattutto per dei bambini del primo anno come loro che, diversamente
da tutti gli altri, erano soliti non muoversi in gruppo. Non avevano mai avuto
paura di perdersi, avevano esplorato tantissimi posti nei tre anni in cui erano
stati amici, avevano trovato tantissimi rifugi segreti e avevano sempre
ritrovato la strada di casa.
«Se fossi stata una Serpeverde, non sarebbe
successo» le stava dicendo, il tono solo leggermente accusatorio, guardandola
negli occhi come era sempre solito fare. Evan diceva sempre che guardandola
negli occhi riusciva a capire molto meglio cosa voleva e ad accontentarla, da
bravo amico. Aveva ragione, naturalmente: le piaceva essere considerata così
tanto, soprattutto da lui. «Alla fine, è tutta colpa tua».
Una fitta di senso di colpa la fece intristire,
nonostante fosse consapevole di non essere direttamente implicata in ciò che
era successo. Era stato Evan a picchiare quel ragazzo, non lei. Tuttavia, era
anche vero che se lei fosse stata una Serpeverde – come lui, come tutta la sua famiglia – lui non avrebbe dovuto parlare
con altri e non avrebbe litigato con quel bullo. «Mi dispiace, ma è stato il
Cappello a scegliere».
Con un broncio adorabile, Evan incrociò le braccia
al petto. «Come hai potuto lasciarmi solo? Credevo fossi mia amica» le disse,
sinceramente triste, allungando la mano per darle un pizzicotto al braccio.
«Ecco, questo è per penitenza. Così impari a mettermi nei guai. E ancora non ti
ho perdonata!» mormorò, tirandosi a sedere per lanciarle uno sguardo cupo da
oltre le lunghe ciglia scure.
Senza poterlo evitare, Dorcas si portò una mano al
braccio ferito, sentendo ancora il dolore come se lui l’avesse appena colpita.
Le aveva fatto male, probabilmente il giorno dopo si sarebbe svegliata con un
brutto livido. Perché si era comportato in quel modo? Evan non era mai cattivo
con lei, ma solo con chi lo trattava male o lo considerava strano e solo perché
doveva difendersi, come tutti. Era stata cattiva con lui, abbandonandolo per
seguire le indicazioni del Cappello?
Avevano promesso di stare insieme, eppure lei era
andata via.
Gli occhi iniziarono a bruciare a causa delle
lacrime che lottavano per fuggire. Era divisa fra l’irritazione verso di lui,
che le aveva fatto male per una cosa che non aveva deciso, verso se stessa,
perché non era stata abbastanza brava da finire in Serpeverde, e verso quello
stupido Cappello, che aveva rovinato tutto. Se Evan non avesse più voluto
rivolgerle la parola cosa avrebbe fatto? Non conosceva nessuno, erano stati
talmente inseparabili da non voler legare con altri ragazzi delle loro Case.
Quasi spaventato da quella sua reazione, il
bambino si fece avanti, abbracciandola stretta per qualche istante e
staccandosi solo per poterla guardare negli occhi. Il suo sguardo era sincero,
triste ma pieno di affetto. Lei adorava quegli sguardi, perché erano solo suoi. Non erano qualcosa che poi sarebbe
toccata anche ai suoi fratelli o a chiunque altro: era lo sguardo speciale di
Evan. «Non piangere, Dorcas, va tutto bene. Non dovevo perdere la pazienza con
te, tu sei mia amica» la tranquillizzò, pulendole il viso. «Guarda, adesso ti
do un bacio così non fa più male. Ho letto in una storia che di solito i
Babbani fanno così, non sono divertenti?» provò a rallegrarla, piegandosi fino
a poter posare le labbra sullo stesso punto che poco prima aveva pizzicato. «La
mia Dorcas non deve mai piangere! Sei così carina quando sorridi» le disse
ancora, allungando la mano per darle un buffetto delicato sulla guancia. Il suo
sorriso era così dolce da farle stringere il cuore.
Non riuscì a non ricambiare, tirando su con il
naso. Non le importava più quello che le aveva fatto, dopotutto era davvero un
po’ colpa sua. «Mi dispiace averti lasciato solo, ma davvero io non avevo altra
scelta. Saremmo finiti nei guai se non avessi fatto quello che diceva il
Cappello» mormorò, tornando ad abbracciarlo per sentirsi, seppur solo in parte,
rassicurata. «Tuttavia non dovresti prendertela con gli altri ragazzi, io sono
comunque tua amica, non devi per forza stare con loro».
Con una risatina strana, Evan le accarezzò i
capelli. Stava canticchiando qualcosa di molto simile ad un “mia mia mia” ripetuto come una litania.
Molto strano, ma non per questo fastidioso. «Hai ragione, io posso stare con
te» concordò, allegro. «La mia amica Dorcas, l’unica che mi vuole bene davvero
e l’unica a cui io voglio bene».
Il cuore di lei sembrò sollevarsi. Evan non era
più arrabbiato con lei. Come avrebbe potuto? Era la sua migliore amica. L’unica
che non aveva stupidi pregiudizi. «Però dovresti davvero andare a trovare quel
ragazzo in infermeria, per vedere come sta. Anche se non potevi sapere che non
sapeva nuotare, non dovevi spingerlo nel Lago Nero1».
Il bambino si strinse nelle spalle, allungandosi
per strappare via un fiore da poco lontano, probabilmente dei ragazzi del
quarto anno lo avevano fatto apparire per esercitarsi in vista del compito di
Incantesimi. Era una fresia bianca. «Tieni, questa è per te. Un bel fiore per
la mia bellissima migliore amica, l’unica di cui io possa fidarmi» le disse,
allungandosi per metterle il piccolo regalo fra i capelli e sorriderle. Il modo
in cui la guardava negli occhi le faceva venire i brividi. «Non dirmi più cosa
fare, però. Non mi piace, è una cosa che fanno sempre i miei genitori e loro
non mi vogliono bene. Vuoi diventare come loro? Anche tu vuoi diventare
cattiva?» le chiese, provocatorio, imbronciando le belle labbra. «Allora,
Dorcas?».
I suoi genitori, che lo chiamavano mostro e non
gli lasciavano tenere neppure un animaletto.
Scosse il capo così velocemente da far quasi
cadere il fiorellino. «Io non voglio essere come loro. Io sono tua amica».
«Sì» si rallegrò Evan, allungandosi per darle un
bacio sulla guancia, per poi scivolare con le spalle per terra e la testa di
nuovo sulle gambe di lei, che gli accarezzò i capelli. «Tu sei la mia Dorcas».
Bellissimo,
come il peccato.
«Non dovresti andare in giro con lui, Dor» la voce
di Emmeline era gentile, così come il suo sguardo, ma la preoccupazione di
fondo era piuttosto evidente. Loro due si conoscevano fin da piccine e prima di
andare ad Hogwarts erano state inseparabili, così come con Evan – no, mai come con Evan, nessuno era come
lui –, tuttavia cinque anni prima una era stata inviata a Grifondoro mentre
Dorcas, con suo enorme raccapriccio, era finita in Tassorosso. Emmeline, però,
era stata troppo gentile per rinfacciarle quella separazione: lei mentiva, così
come mentivano i suoi genitori quando le dicevano di preoccuparsi perché, in
fondo, non era poi una tragedia.
Bugiardi,
tutti bugiardi.
«Perché mai non dovrei? È il mio migliore amico»
le fece notare, piegando il capo di lato con evidente confusione. Sapeva bene
che lei ed Evan non erano mai andati molto d’accordo, non da quella volta in
cui lui le aveva tirato le trecce – lei l’aveva insultato, doveva pur
difendersi, no? –, ma non riusciva a capire il motivo di quell’affermazione
così improvvisa. «Emmie, non sarai forse gelosa?» azzardò, illuminata da quella
possibilità, dedicando all’altra un sorriso estremamente divertito. «Anche tu
sei la mia migliore amica, lo sai, non dovete fare una gara».
A disagio, la bionda abbassò lo sguardo sulle
proprie mani. Sembrava stranamente spaventata, anche se Dorcas non riuscì a
capire il perché. Magari si vergognava di essere stata tanto cattiva verso il
povero Evan. «Non è per questo, Dor» mormorò, sospirando e rialzando gli occhi
su di lei, armati di una decisione che non aveva mai visto prima. «Lui va in
giro con Mulciber, Dorcas. Mulciber.
E con quel Piton tutto strambo. Non può essere una brava persona» sbottò,
incrociando le braccia al petto e fissandola – non negli occhi, non come faceva
lui – con un cipiglio battagliero.
«Hai sentito cos’hanno fatto a Berenice Vane? È una cosa crudele, Dorcas».
Se era riuscita a mantenere un’espressione seria
fino a quel momento era stato per paura che ci fosse una vera ragione dietro quella preoccupazione. Sentita la
giustificazione di Emmeline, però, non riuscì a trattenere una risata che
sconcertò l’amica. «Oh, Emmie, non essere sciocca! La storia di Vane è solo una
diceria, in realtà lei e Mulciber sono fidanzati, li hanno sentiti scherzare
insieme e tutti hanno pensato che lui e gli altri le stessero facendo del male.
Ho parlato con Vane, mi ha assicurato che fosse tutto normale» spiegò, scuotendo
il capo ed alzando gli occhi al cielo. Evan l’aveva avvertita, erano davvero in
pochi a capire certi scherzi!
Emmeline allungò la mano per posargliela sulla
spalla, guardandola con un’ansia che lei proprio non riusciva a spiegarsi.
«Dorcas, cosa stai dicendo? L’hanno riempita di ferite e l’hanno torturata. Se ti ha detto che è tutto
normale è solo perché ha paura, non lo capisci?» le chiese, scuotendola
leggermente.
«Paura di chi? Del suo fidanzato e dei suoi
amici?» domandò, accigliata ed incredula. Era assurdo che Emmeline credesse a
certe sciocchezze, se davvero fosse successo qualcosa di così grave
probabilmente i professori sarebbero intervenuti, invece nessuno era stato
punito2. «Parli di loro come se fossero dei mostri, Em. Sono solo
dei ragazzi, di cosa dovrebbe aver paura?».
Con uno scatto, Emmeline le posò anche l’altra
mano sulla spalla, scuotendola con maggiore forza. «Di cosa? Quello che tu chiami suo
fidanzato l’ha torturata con chi sa quale stregoneria nera ed il tuo amico l’ha fatta finire in
infermeria! Vuoi sapere perché so che è stato lui?» le chiese, aspettando che
annuisse prima di continuare. «Perché le hanno trovato petali di fresia dentro le ferite! Chi è l’unico
che va sempre in giro con quel fiore attaccato al mantello? Rosier! Perché non capisci?
Probabilmente ti sta solo usando per avere una bambolina con cui divertirsi
quando non ci saranno altre vittime a disposizione!».
Contrariamente a quanto chiunque si sarebbe
aspettato, Dorcas non si scandalizzò e non si spaventò, arrossendo invece con
aria piuttosto emozionata. Evan aveva sempre una fresia, con sé, perché le
ricordavano lei. Un bel fiore per la sua
bellissima Dorcas, così aveva detto. Gli sembrava di averla sempre vicino,
così non si sentiva mai solo. La sua
Dorcas, che non dubitava mai di lui. Che andava oltre gli stupidi
pregiudizi che sembravano perseguitarlo. «Mi deludi, Emmeline».
«Dor?».
«Credere a queste idiozie solo perché io
preferisco passare il mio tempo con lui piuttosto che con te… è un colpo basso,
soprattutto per una Grifondoro» commentò, sdegnata, liberandosi dalla presa
della sua sconvolta ex amica e
facendo un passo indietro. «Non rivolgermi la parola finché non sarai
rinsavita, non ho intenzione di subire le tue cattiverie» sputò, guardandola
con disgusto e recuperando la sacca con i libri.
«Dorcas, fermati! Lui è pericoloso, lui…».
Non ascoltò il resto della sua frase, perché non
le importava. Con tutta la velocità di cui era in possesso si lanciò lungo le
scale, certa che l’avrebbe trovato nel suo solito rifugio fra gli alberi. Era
un posto che avevano trovato insieme ed a cui erano molto legati, nonostante
Evan le avesse chiesto di non andarci se non con lui. Avrebbe dovuto evitare
quella fuga improvvisa, forse, ma non avrebbe potuto aspettare che arrivasse
l’ora di cena.
Ti sta
solo usando.
Non credeva alle accuse di Emmeline, naturalmente.
Lei ed Evan erano inseparabili, non c’erano dubbi sulla veridicità del loro
affetto. Tuttavia il germe del sospetto si era impiantato nel suo cuore ed era
certa che solo lui avesse le capacità per estirparlo. Non voleva mostrarsi diffidente,
perché dal sospetto si sarebbe potuto sviluppare risentimento e, da lì, l’odio.
Non era odio ciò che voleva provare verso di lui.
La prospettiva di arrivare ad odiarlo la
spaventava più di qualunque altra cosa al mondo.
L’aria fresca del giardino le solleticò il viso
accaldato, mentre correva in direzione del piccolo rifugio. Doveva aver
attirato parecchi sguardi – fra cui, se aveva riconosciuto davvero la voce che
l’aveva chiamata, quella di Remus Lupin – ma non le importava, perché,
dopotutto, nessuno si sarebbe affaticato a seguirla.
«Evan?» chiamò, senza fiato, giunta a pochi metri
di distanza dalla piccola radura. «Evan, sei qui?».
Dei fruscii e qualche sibilo nervoso precedettero
di qualche istante la comparsa del ragazzo, ormai non più basso e smilzo
com’era stato a otto anni ma decisamente più massiccio ed alto, che la guardò
con allarme oltre che con rabbia. Forse aveva sbagliato a precipitarsi lì, magari
lui era impegnato. E se non fosse stato solo? Avrebbe davvero portato qualcuno
nel loro rifugio segreto?
Forse fu a causa della paura di essere
rimproverata che le sembrò che il suo sorriso fosse tutto tranne che sincero.
«La mia bella Dorcas! Cosa ci fai qui? Sai che non devi venire, se non siamo
insieme» le disse, in un sibilo che non sembrò molto amichevole ma che tuttavia
riuscì a mantenere la stucchevolezza che lo caratterizzava sempre, quando
parlava con lei. Quando la guardò negli occhi, si irrigidì. «Dorcas, stai piangendo?» domandò, facendosi
avanti per posarle le mani sulle spalle, proprio come aveva fatto Emmeline, e
scuoterla con forza. Nella sua voce la rabbia era sparita ed era stata
sostituita da preoccupazione. «Dimmi cos’è successo! Chi ti ha fatto piangere?
Ti sei fatta del male? È stato Black, non è vero?» ringhiò, stringendo con
tanta forza da farle male. Le sembrò quasi che avesse intenzione di strapparle
via le braccia, tanto ferrea fu la sua presa.
«Evan… mi fai male» provò a dirgli, in un pigolio,
sospirando sollevata quando lui allentò la morsa in cui l’aveva incastrata,
senza smettere di scuoterla. Naturalmente non si sarebbe fermato finché lei non
gli avesse risposto. «Non mi hanno fatto del male, ma…» in un attimo di dubbio
– atroce dubbio, sapeva che avrebbe
vinto prima o poi – preferì non dirgli nulla riguardo l’identità della sua
interlocutrice precedente. «Delle persone hanno detto cose molto brutte sul tuo
conto e su ciò che è successo alla Vane e io… io…». Singhiozzò, portandosi le mani al viso per nascondergli i
suoi occhi. Non voleva che lui notasse la sua incertezza e pensasse che il suo
affetto per lui fosse meno che sincero.
Dolcemente – forse
troppo dolcemente – Evan le spostò le mani dal viso, carezzandole la
guancia. «Cosa ti hanno detto? Sai dirmi chi è stato?» le chiese, dolce,
accennando uno di quei sorrisi che l’avevano sempre fatta sentire preziosa. «La mia Dorcas non deve mai
piangere, voglio sapere chi ti ha fatto del male così potrò far capire loro che
non è una cosa che apprezzo».
Fu tentata di rivelargli tutto, davvero, ma il
tarlo del dubbio era solo cresciuto da quando lui aveva iniziato a scuoterla.
Non era una cosa sensata, lei sapeva
che Evan non fosse cattivo, ma non riuscì a dire nulla su Emmeline. Era
comunque una sua amica, non voleva che lui la prendesse ancora di più in
antipatia. «Non so chi fossero, non li ho visti. So che non dovrei credergli,
ma…» lasciò cadere le spalle, sconfitta, sentendosi sempre più sciocca per aver
prestato attenzione a quelle stupidaggini.
Il dolore alla guancia arrivò con qualche istante
di ritardo rispetto al rumore dello schiaffo e, per un momento, Dorcas si
ritrovò a chiedersi cosa fosse successo e perché il suo viso si fosse ritrovato
improvvisamente rivoltato dalla parte opposta. Le lacrime, che ancora non si
erano asciugate sulle sue guance, tornarono ad affollarle gli occhi senza che
quasi se ne rendesse conto. Poi, senza esitazione, le braccia di Evan la
circondarono in una stretta dolcissima, un conforto immediato per un dolore che
lui stesso le aveva inferto.
«Adesso siamo pari. Tu non ti sei fidata di me ed
ora sei stata punita, così non dovrai più sentirti in colpa» le disse, con un
sorriso immenso, piegandosi leggermente per posare le labbra sullo stesso punto
che aveva colpito. «Ti conosco, mia bella Dorcas, so che probabilmente ti
saresti scervellata per il rimorso, così ti ho aiutato. Sono stato gentile,
vero? Adesso hai la coscienza pulita».
Questo è
sbagliato, una voce di lei sembrò insorgere, stimolata
dall’intorpidimento della guancia ferita. È
sbagliato, strillò ancora, suonando pericolosamente simile alla voce di
Emmeline poco prima, quando aveva tentato di spingerla a dubitare. Ma a cosa
l’aveva portata, seguire le maldicenze dell’altra ragazza? L’aveva portata a
stare male. Evan, invece, l’aveva aiutata, voleva che il suo malessere si
concludesse. Evan la stava guardando negli occhi, lo sguardo colmo di quella
sincerità che nessun altro sembrava volerle dare.
«Grazie» si ritrovò a mormorare, un sorriso che
stancamente si affacciava alle sue labbra. «Scusa se ho dubitato, sono stata
una sciocca» aggiunse, vergognandosi di se stessa e fissandosi le mani,
indecisa su come comportarsi. Era stata perdonata? Erano ancora uniti come
prima?
Con delicatezza, Evan le portò l’indice sotto al
mento, costringendola ad alzare il viso, e poi, semplicemente, si avvicinò fino
a poter poggiare le labbra sulle sue. Un tocco lieve, gentile oltre ogni
immaginazione, che si ripeté come se a sfiorarla ripetutamente fossero state le
ali di una farfalla. Erano dolci, le labbra di Evan. Dolci come il vino di
ciliegie.
«Tu sei la mia Dorcas» le disse, in un sussurro
innamorato. Lei si sentì cedere le ginocchia, tanto aveva atteso quel momento. «Mia, mia, mia» cantilenò ancora,
stringendola a sé con maggiore forza, le mani improvvisamente non più sul suo
viso ma sui suoi fianchi, sotto la camicia.
Avrebbe voluto allontanarlo, chiedergli di
rallentare. Ma Evan non sapeva esprimere il suo amore se non con il suo corpo e
lei non avrebbe mai potuto negargli qualcosa. Soprattutto, non avrebbe mai
potuto negargli se stessa.
Importava davvero che dimostrasse le sue emozioni
a parole oppure con il suo corpo? Un bacio, uno schiaffo… erano dolci allo
stesso modo, per lei.
Il giorno dopo, Emmeline notò i segni sul suo
collo e sui suoi polsi, ma non le disse nulla.
Non erano affari suoi.
Bellissimo,
come il diavolo.
«Sei forse impazzito?»
la sua voce salì di diverse ottave, mentre lo osservava giocherellare con una
fresia che aveva appena fatto apparire in un vaso abbandonato, probabilmente
superstite delle lezioni dei ragazzini del quarto anno. Lo aveva trascinato
nell’aula vuota nel momento stesso in cui era riuscita a separarlo dai suoi
amichetti del cuore. Erano passate ore da quando aveva saputo, ma solo negli ultimi venti minuti aveva trovato il coraggio
di prenderlo da parte e fargli quel discorso che aveva elaborato nei minimi
dettagli durante la lezione di Storia della Magia.
Come se nulla fosse, Evan le sorrise, incantevole,
avvicinandosi per accarezzarle il viso e baciarla, dopo averle messo il fiore
fra i capelli. Quando lei si scostò, lui si irrigidì, afferrandole il viso con
forza per costringerla a star ferma. Non gli piaceva che lei rifiutasse le sue
dimostrazioni d’affetto. «Cosa ti succede, Dorcas? Sei arrabbiata con me, anche
se so di non averti fatto nulla» le disse, con voce melodiosa, rilasciando la
sua mascella per sfiorarle la guancia con la punta delle dita. «È stato ancora
il giovane Black? Ho detto a quel ragazzino di non importunarti più con le sue
richieste, ma forse dovrò ripetermi, anche se odio farlo» mormorò, pensieroso,
con un’espressione talmente strana da farla rabbrividire.
L’emozione che la colpì la sorprese per un
istante, perché finalmente riuscì ad identificarla come paura. Terrore, addirittura, poiché finalmente riusciva a capire, a vedere cosa ci fosse dietro tutto il meraviglioso amore che lui le
dedicava. «Non mettere in mezzo Regulus, lui non c’entra nulla» gli intimò,
provando ad arretrare ma ritrovandosi bloccata dalle braccia di lui intorno
alla vita. «Evan, dobbiamo parlare, fermati»
gli disse, cercando di sfuggire ai baci con cui lui aveva iniziato a
tappezzarle il collo. Il fastidio dato dallo sfregare dei denti di lui contro
una zona particolarmente sensibile – c’era un livido in quel punto, nascosto
dalla camicia, di cui lei si era vergognata incredibilmente e che aveva tentato
in ogni modo di non far notare alle compagne – la aiutò a mantenersi abbastanza
rigida da fargli perdere qualunque desiderio.
Evan la voleva reattiva. Fare l’amore con un
manichino con gli interessava.
«Cosa succede, mia Dorcas? Che mi tocca fare per
sapere cosa ronza per la tua bella testolina?» le chiese, con un sorriso che
stentava a nascondere la sua irritazione. Le picchiettò un paio di volte sulla
tempia, come a voler sentire se dentro ci fosse qualcosa. Era un modo di fare
fastidioso che aveva preso da Mulciber, cosa che la indispose ancora di più.
«Cosa avete fatto a Mary McDonald? 3
Non provare a negare, vi ho sentiti
riderne!» sbottò, facendo un passo indietro di prepotenza e mettendosi le
mani sui fianchi. Non si illuse, naturalmente: sapeva di essersi potuta
allontanare solo perché lui l’aveva
permesso. «Cosa ti aveva fatto? Lei è una brava ragazza».
Evan si accigliò, per poi ridere. «È tutto
un’esagerazione, Dorcas, rilassati. Non le abbiamo fatto niente di che, solo
uno scherzetto innocente. Ma sai come sono quelle come lei, non riescono mai a
divertirsi un po’» le disse, scuotendo il capo e liquidandola con un gesto
della mano.
Per una qualche ragione, quella sua tranquillità
le mandò il sangue alla testa. «Quelle come lei?
E cosa sono, di grazia? Perché io non capisco a cosa tu ti stia riferendo»
sibilò, incrociando le braccia al petto. La rabbia le faceva pulsare il cuore
in modo strano, chiudendole lo stomaco come se fosse stata sul punto di
vomitare. Non capiva come il suo Evan
potesse mostrarsi tanto crudele verso qualcuno. Doveva esser colpa di quella
compagnia assurda che si era trovato.
«Le sanguesporco»
rispose lui, parecchio più irritato di prima. «È solo una sanguesporco, Dorcas, non capisco il motivo di questa tua reazione.
Ci stavamo solo divertendo, come
abbiamo sempre fatto. Fino ad ora non hai mai avuto problemi, mentre adesso
stai diventando antipatica» la rimproverò, con il broncio, fissandola negli
occhi con astio. «Lo sai che non mi piaci quando sei antipatica, smettila subito».
L’istinto le urlò di obbedire, di piegarsi ancora,
perché lui non poteva essere
arrabbiato con lei, non poteva smettere di volerla. Perché se lei non era di Evan, allora non sapeva cosa essere.
Ma le urla di Mary erano ancora nitide nelle sue orecchie, così come la risata
di Mulciber e di Piton e di Evan.
«Solo perché è una sanguesporco non merita di essere trattata in quel modo» gli disse,
cercando di ingoiare l’orrore verso se stessa per quel suo ribattere in modo
tanto scontroso. Non era normale, non era da lei, ma non poteva più farne a
meno. «È una strega! Proprio come me! Non merita certo di essere torturata. Quando vi annoierete di lei
cosa farete, verrete a torturare me?».
Gli occhi di Evan sembrarono congelarsi e, quando
si fece avanti per prenderle il viso fra le mani, lo fece con uno scatto veloce
e violento, facendole male. «Nessuno può alzare un dito su di te, Dorcas» forse
voleva rassicurarla, ma non ci riuscì neppure un po’, facendola sentire come un
animale in trappola. «Tu sei mia,
solo io posso toccarti. Tu mi appartieni, non sei come quelle altre. Tu non sei sacrificabile». Si chinò per baciarla,
passionale, quasi animalesco, strattonandola contro il muro.
Dorcas rabbrividì, per la prima volta mossa solo
dal terrore più puro ed assoluto. Si sentì fragile, debole. Nella sua mente, le
parole di lui si ripetevano come un mantra, non più con la stessa dolcezza con
cui le avrebbe intese anni prima ma con quella stessa mania possessiva che gli
altri dovevano aver sempre sentito e riconosciuto in lui. Lo allontanò,
spingendolo via con abbastanza forza da coglierlo di sorpresa. Prima di
staccarsi, le morse con forza il labbro inferiore, facendolo sanguinare.
Il dolore, per un istante, le fece tremare le
ginocchia.
«Io non ti appartengo, Evan» mormorò, spaventata,
arretrando velocemente fino a ritrovarsi con le spalle alla porta. «Come puoi
dire una cosa simile? Come… sacrificabili?
Per te le altre vite non valgono davvero nulla?» gli chiese, mentre le lacrime
le appannavano la vista, colando copiose lungo le guance pallide. Tutti i
lividi sul suo corpo iniziarono a dolerle insieme, quasi si fosse appena
risvegliata da un torpore che le aveva impedito di percepirli, di comprenderli.
La furia che gli oscurò lo sguardo fu improvvisa e
talmente dirompente da risultare dolorosa. «A cosa servono tutti gli altri? Io
ho te, mi basti per essere felice. Nessun altro è necessario» sbottò, facendosi
avanti di un paio di passi ma fermandosi quando si ritrovò la bacchetta di lei
puntata contro il petto. La osservò, ferito, quasi lei lo avesse appena
tradito. «Non capisci? Quando prenderemo il potere, tu sarai al mio fianco e
saremo felici. Nessuno ci riderà
dietro, nessuno tenterà più di separarci» le disse, la speranza appena
percepibile dietro la furia più cieca.
«Il potere?
Prenderemo?» ribatté invece lei, portandosi una mano a coprire la bocca,
quasi avesse temuto di dire qualcosa di orribile. «Vuoi diventare uno di loro, non è vero? Vuoi diventare un
Mangiamorte? Vuoi… vuoi combattere per Tu-Sai-Chi?».
Il mondo intorno a lei aveva iniziato a girare
troppo velocemente, era come se qualcuno le avesse sottratto il suo centro di
gravità personale, lasciandola a fluttuare senza alcun controllo, senza alcun
potere. Tutti gli avvertimenti, tutte le suppliche che Emmeline le aveva
rivolto… tutto aveva un senso.
Era tutto vero.
Ti sta
solo usando!
No, quella era una bugia. Lo sapeva che era una
bugia. Evan la amava, solo così avrebbe potuto spiegare tutto l’orrore nel suo
sguardo, tutta quella disperazione nel sentire quanto lei fosse lontana dal suo
pensiero.
«Il Signore Oscuro non ha pregiudizi, lui non ci
separerà mai, non farà come tutti gli
altri» le disse, allargando le braccia come se le avesse voluto mostrarle il
mondo. «Nessuno ci riderà dietro. Saremo liberi, saremo felici e saremo insieme, nessuno si metterà in mezzo,
cosa c’è di male in questo? Perché non è quello che vuoi?» le chiese,
esasperato e distrutto, il tradimento come un peso calato sulle sue spalle.
Sembrava tornato ad essere lo stesso bambino spaventato di cui lei si era
perdutamente innamorata. Un bambino che aveva perso la strada e non sapeva più
come tornare indietro.
Poteva salvarlo. Poteva aiutarlo. «Ti prego, Evan»
lo supplicò, trattenendo a stendo un singhiozzo. «Non devi stare fra quei
pazzi, non devi venderti a quel mostro. Emmie… Emmeline mi ha detto che il
Preside potrà aiutarti, se lo vorrai…».
«Emmeline, dovevo sospettarlo» sibilò lui, balzando
avanti per prenderla per le spalle e scuoterla con violenza. «Ti ha avvelenato
la mente! Ti ha portata dalla loro parte» le disse, la voce ferita di chi
avesse perso tutto. «Avevi promesso
che non mi avresti mai lasciato solo, perché mi stai facendo questo? Potremmo
essere felici!».
«Questa è una strada che io non posso seguire4»
fu tutto ciò che lei gli disse, liberandosi della sua presa e risollevando la
bacchetta per impedirgli di avvicinarsi. Aprì la porta, senza neppure guardare
dove stesse mettendo i piedi. «Mi stai spezzando il cuore, Evan4».
Quando fuggì via, sentì distintamente il rumore di
qualcosa che veniva distrutto, seguito da urla terrificanti.
«Sei mia!
Sarai sempre mia!».
La fresia che lui le aveva messo fra i capelli,
prima che tutto il mondo le precipitasse addosso, perse tutti i suoi petali
mentre lei si lasciava andare fra le braccia dell’unica amica che le era
rimasta.
Bellissimo,
come la Morte.
Era suo,
proprio come lei era sua.
Sapeva di non essere semplicemente brava. Fra i suoi amici dell’Ordine, lei
era l’unica a non aver mai riportato ferite di guerra, l’unica che sembrava non
essere vista dai Mangiamorte. Sirius si era congratulato, dicendole che doveva
essere meravigliosa per incutere un tale timore nei seguaci di Voldemort, ma
Dorcas sapeva, non poteva fingere di
non capire. Non era di lei che
avevano paura, ma di chi si era eletto a suo eroe personale, dirigendo dei fili
invisibili che avevano tessuto una tela di intoccabilità fra lei ed il mondo.
Durante la sua prima missione l’aveva incrociato,
riconoscendolo nonostante la maschera. Aveva sentito il suo sguardo sulla nuca
mentre scappava ed aveva sentito il suo urlo belluino quando qualcun altro –
che poi aveva scoperto essere un Selwyn – l’aveva quasi colpita con un anatema.
Tre giorni dopo, un gufo le aveva consegnato la bacchetta dell’uomo, con tanto
di fiocco regalo e di fiore come firma. Nessuno avrebbe mai potuto evocare una
fresia tanto bella in quel periodo dell’anno.
Naturalmente non aveva parlato con nessuno di quel
suo piccolo segreto. Chi avrebbe capito? Emmeline avrebbe urlato, il Preside
probabilmente avrebbe provato ad usarla per mettere in trappola Evan.
Nonostante tutto, nonostante i titoli di giornale ed i cadaveri che lei stessa aveva
riconsegnato alle famiglie, quella possibilità le sembrava assurda, poiché,
anche se separati, l’idea che lui fosse vivo
era ciò che la spingeva ad alzarsi dal letto la mattina. Non le importava che
fossero su facce opposte della stessa medaglia, la sua esistenza era tutto ciò
che le interessava.
Poteva ancora amarlo, seppur da lontano.
Evan non si era mai rassegnato alla loro
separazione. Oltre a proteggerla, era solito mandarle piccoli regali, mai
accompagnati da note scritte poiché, infondo, sapeva benissimo che non fossero
necessarie. Che le mandasse dei fiori o i
trofei dei suoi omicidi era irrilevante, era il modo in cui lui sapeva
dimostrarle il suo amore e tanto le bastava.
«Dopo ciò che è successo ai Prewett, preferirei che
nessuno di voi si spostasse da solo, formate delle coppie» ammonì Malocchio
Moody, zoppicando per la stanza. La sua gamba era stata presa da un Mangiamorte misterioso quasi tre mesi prima. Dorcas
aveva la sua scarpa nascosta sotto al letto, spaventata che lui potesse trovarla
e ricollegarla a ciò che Evan gli aveva fatto. Avrebbe potuto costringerla a
confessare ciò che sapeva o, peggio, avrebbe potuto arrestarla.
Se l’avessero rinchiusa, Evan sarebbe andato a
prenderla con la forza.
«Siamo dispari» notò James Potter, indicando tutti
gli altri. «Dorcas, puoi venire con noi, se lo desideri! Merlino sa se abbiamo
bisogno di una bacchetta come la tua, in una situazione come questa» propose,
allegro nonostante stessero andando praticamente nella tana dei cattivi, indicando se stesso e Sirius. Quest’ultimo,
impegnato a sistemarsi i capelli guardandosi nello specchietto che portava
sempre con sé, si limitò ad annuire leggermente. Dorcas non aveva stretto un
grande rapporto con lui, le ricordava troppo Regulus e la brutta strada che
aveva intrapreso e, naturalmente, le ricordava Evan. Diversamente da lei,
Sirius era pronto a tutto contro il suo stesso fratello, mentre lei non
riusciva a sopportare l’idea che
qualcuno facesse del male all’amore della sua vita.
Moody grugnì qualcosa, scuotendo il capo. «Tre?
Non si ottiene nulla uscendo in tre» disse, burbero. «Meadowes, scegli uno di
quei due, l’altro andrà da solo» sbottò, indicando Potter e Black come se
fossero stati due manichini in un negozio d’abiti. «Oppure puoi andare tu da
sola, dopotutto sei la migliore».
«E non hai una moglie incinta a casa che morirebbe
se ti succedesse qualcosa» si intromise Sirius, ridacchiando e dando una pacca
sulla spalla al migliore amico. «Quanto a me, Alastor caro, posso sempre andare
da solo» aggiunse, facendo l’occhiolino al vecchio Capo Auror, che gli lanciò
uno sguardo a dir poco spaventoso.
«Tu non andrai da nessuna parte da solo. Meadowes,
ti sta bene? Non dovrebbe esserci nessuno lì dentro, quindi non dovresti
correre alcun rischio» ringhiò, voltandosi verso di lei con un qualcosa, negli
occhi, che sembrava quasi una supplica.
Dorcas ricordava il disastro che Sirius aveva combinato l’ultima volta in cui
era stato mandato in missione da solo: uno come lui non dovrebbe mai essere
lasciato a se stesso, la follia scorreva nella sua famiglia, gli sarebbe
bastata una scintilla per diventare come sua cugina Bellatrix.
«Posso andare da sola» confermò lei, stringendosi
nelle spalle. Dopotutto, si trattava di una semplice visita al vecchio maniero
di Agatha Lestrange, abbandonato da quando il nipote più giovane – Rabastan –
si era unito alla causa di Voldemort. Moody sospettava che in quel postaccio fossero
state lasciate delle armi segrete del Signore Oscuro, armi così potenti da
dover essere tenute separate da tutte le altre e che addirittura solamente Lui
avesse la possibilità di avvicinarvisi senza rischiare nulla. Era un’occasione
più che ghiotta per l’Ordine, soprattutto mentre la maggior parte dei
Mangiamorte venivano attirati dall’altra parte del Paese, in una imboscata
preparata mesi prima.
Moody annuì, soddisfatto, facendo cenno a tutti
gli altri di disporsi sulle varie entrate. Dorcas sarebbe entrata per prima
dalla porta principale, a detta sua la meno protetta e quindi la più sicura, ma
avrebbe avuto tutti gli altri alle spalle, pronti ad intervenire in caso di
necessità. «Sapete come contattare i vostri compagni, nel caso in cui doveste
trovare qualcosa di interessante. Non fate gli eroi, non ne abbiamo bisogno»
ammonì, fermandosi per poter evocare un incantesimo d’avanscoperta. Quello che
sembrava essere un buffo animaletto peloso uscì dalle profondità della terra,
avviandosi tutt’intorno al vecchio maniero insieme a tanti altri piccolini, che
si diressero alle diverse entrate.
Quando niente saltò in aria, seppero con certezza
che fosse giunto il momento di farsi avanti.
Silenziosi, i vari gruppetti iniziarono a
sistemarsi alle spalle di Dorcas che, con un sospiro, si fece avanti per prima.
Sapeva che gli altri sarebbero stati pronti a proteggerla, nel caso qualcosa
l’avesse attaccata non appena aperta la porta, ma l’ansia fu comunque difficile
da controllare. Dopotutto, non si fidava di nessuno di loro. Non era grazie
all’Ordine se era ancora viva.
Raggiungimi,
quando sarai pronta. Io ti aspetterò.
Erano state le uniche parole che Evan le aveva
detto negli ultimi tre anni. Le uniche che aveva ritenuto abbastanza importanti
da essere condivise a voce, sfidando qualunque rischio ed il buon senso. E lei
ci aveva pensato, a quelle parole. Le aveva ripetute nella sua mente come un
mantra, riflettendo su quanto le sarebbe piaciuto poter stare con lui, poter
essere di nuovo insieme come da
bambini. Ma come? Si era unita all’Ordine per combattere colui che considerava
il peggiore dei mostri, l’amore per Evan non poteva essere superiore al suo
senso del dovere. Non credeva in quella causa che lui aveva scelto di sostenere
e la vita di centinaia di streghe e maghi valeva più del suo amore.
Però
faceva male, così male che spesso la notte si era ritrovata
piegata in due nel suo letto, come se qualcuno le avesse voluto strappare via
il cuore dal petto.
La porta cigolò leggermente, quando la aprì, ma
oltre a quel lieve rumore non ci fu nulla. Si voltò, per fare un cenno
affermativo agli altri ed attese che sparissero tutti, prima di fare il suo
ingresso, la bacchetta stretta in pugno e ben alta, per la prima volta
consapevole che avrebbe dovuto difendersi
da sola da qualunque pericolo fosse in attesa.
L’interno non era nulla di ciò che lei si era
aspettata, poteva garantirlo. Era stato tutto tirato a lucido, i mobili non
erano luridi e distrutti ma semplici e nuovi, il camino all’angolo acceso.
Tutto era stato pulito alla perfezione, come se i padroni non fossero morti
anni prima ma fossero ancora vivi e vegeti, presi dalle loro azioni quotidiane.
«Sei qui».
Nel tempo che impiegò per voltarsi in direzione
del rumore, le labbra di Evan furono sulle sue in un bacio appassionato,
innamorato come mai era stato prima d’allora e lei si sentì morire. Non era cambiato nulla fra loro,
la stessa dolcezza che si erano scambiati da ragazzi era ancora lì, nascosta
nella profondità dei loro cuori, in attesa soltanto di un momento come quello
per poter fuggire, espandendosi nel loro petto come un veleno dolcissimo ed
aspro al tempo stesso.
«Non credevo che avrebbe funzionato davvero» le
disse ancora lui, spostandosi dalle sue labbra per poter strusciare il naso
contro l’incavo del suo collo scoperto. «Silas5 mi aveva assicurato
che sarebbe stato un giochetto da ragazzi, ma non mi sono fidato» continuò,
così felice da sembrare tornato
bambino, allontanandosi per poterla guardare negli occhi ma senza staccare le
mani dai suoi fianchi. La bacchetta di lei era caduta, abbandonata nel momento
stesso in cui aveva sentito la sua voce.
Era
debole, con lui. Lo era sempre stata.
Con un lamento strozzato provò a liberarsi della
sua presa, ottenendo solo che lui la stringesse di più. «Cosa… cosa vuoi dire?
Silas? Mulciber è qui? Perché tu sei
qui?» chiese, consapevole di non essere riuscita a riordinare le sue priorità
in modo corretto. Avrebbe dovuto essere terrorizzata,
eppure sembrava solamente curiosa, se non addirittura felice.
Gli occhi di Evan brillarono di entusiasmo. «Vi
abbiamo attirati noi qui» le disse, allegro, allargando un braccio per indicare
ciò che li circondava. «Sapevo che avrei dovuto accettare tutto il gruppo, pur
di avere te. Non preoccuparti, gli amici si stanno occupando di tutti gli
altri, ho detto di avere dei… conti in
sospeso» le spiegò, accarezzandole la guancia. «Tranquilla amore mio, non
abbiamo fretta. Possiamo stare qui quanto desideriamo, così potrai prepararti
bene per conoscere l’Oscuro Signore e prestare giuramento. Sarà felicissimo di
averti con noi, ne sono sicuro».
Dorcas, per vari istanti, non riuscì a far altro
che fissare l’uomo in modo inespressivo, la sua mente faticava a tenere il
passo, il cuore batteva così velocemente da sembrare quasi che non stesse
battendo affatto. Alla fine, pose
l’unica domanda che fosse riuscita ad elaborare. «Come facevi a sapere che
sarei venuta qui? Che avrebbero mandato me
da sola?».
Il sorriso di Evan crebbe. «Come ti ho detto,
tutto merito di Silas. Moody è molto più debole di quanto non voglia far credere,
quando si tratta di controllo mentale. Convincerlo che fosse una buona idea
mandarti qui da sola è stato facile, per Mulciber, praticamente un gioco da
ragazzi. Comunque io ero pronto a tutto, non ci avrei messo molto a liberarmi
di qualche idiota» provò a rassicurarla, stringendola di più a sé. «Sapevo che
saresti tornata da me, prima o poi. Ti sono piaciuti i miei regali?».
Regali.
Il peso di tutto ciò che aveva accettato, nel
corso di quegli anni, si riversò improvvisamente su di lei. Bacchette, vestiti,
souvenir di ogni sorta si erano accumulati sotto al suo letto, come i regali di
un gattino discolo alla sua padrona. Lei li aveva accettati, senza pensare, senza capire cosa potessero
davvero implicare.
«Evan, no»
provò a dirgli, allontanandosi di un solo passo. Sapeva di essere impallidita,
sapeva di avere l’espressione di un animale ferito, sapeva che lui non si
sarebbe arreso per nulla al mondo. «Non posso seguirti. Io non sono venuta qui
per te».
Lui sembrò non capire, continuando a fissarla come
se avesse detto un’assurdità. «Certo che sei venuta qui per me. Non sei così
stupida da credere che questa missione avesse un senso» le disse, piegando il
capo di lato, come a volerla osservare meglio. «Mi chiedo come abbiano fatto
gli altri a non notare che Moody si stesse comportando diversamente dal solito…
se non morirà stanotte, sono certo che perderà del tutto la testa» si rallegrò ancora,
stringendosi nelle spalle ed allungando la mano verso di lei, in un chiaro
invito. «Coraggio, mia bella Dorcas, non fare quella faccia. Non devi aver
paura, nessuno ti farà mai del male e nessuno ti obbligherà a far qualcosa che
non desideri fare. Quando ti deciderai, sono sicuro che sapremo usare i tuoi
talenti al meglio e allora non ti sentirai più fuori posto».
Ti sta
solo usando, le aveva detto un giorno Emmeline, ma lei non le
aveva creduto. Continuava a non crederle, con una parte del suo cuore, ma il
dubbio ormai era stato piantato ed il dolore al petto non sarebbe passato
neppure se lui avesse improvvisamente deciso di porre fine a quella follia e
seguirla sulla giusta strada. Si era spinta troppo in là, non c’era più
salvezza. «Evan… no» provò a dirgli
ancora, sentendo un peso crescerle nel petto fin quasi a soffocarla. «Non posso
unirmi a te, io non posso» sussurrò,
portandosi una mano sulle labbra per impedire ad un singhiozzo di sfuggire al
suo controllo precario. Sapeva che scappare sarebbe stato inutile, oltre che un
gesto stupido. Pur di averla, lui aveva stregato il più grande Auror degli
ultimi trent’anni ed aveva condotto a morte certa metà dell’Ordine della Fenice.
Nulla lo avrebbe più fermato.
La presa ferrea sul suo collo arrivò nell’istante
stesso in cui gli diede le spalle, fermandola in quel tentativo vano di salvare
la vita che, in realtà, aveva perso anni prima, quando sulle scale di casa sua
aveva incontrato quel meraviglioso e strano bambino. Lui la strattonò,
avvicinandola al suo corpo così che le sue spalle aderissero al suo petto. Era
un abbraccio unico nel suo genere, il miglior modo per rappresentare l’amore
che c’era sempre stato fra loro due. Con un gesto brusco, la costrinse a
camminare verso una stanza adiacente, dove era evidente lui avesse programmato
di consumare quella passione che negli ultimi anni doveva aver soffocato a causa
della lontananza: un meraviglioso letto di fresie rosse e bianche svettava nel
piccolo spazio, circondato da candele.
Le si strinse il cuore a quella vista. C’era stato
un momento in cui nessuno sarebbe stato più felice di lei, a quella vista.
«Lo avevo preparato per noi» le disse, con un sibilo cattivo, lasciando che le sue labbra
le sfiorassero il lobo dell’orecchio prima di morderlo con rabbia, strappandole
un rantolo di dolore. «Doveva essere il nostro rifugio, saremmo stati felici qui. Ma tu te ne vuoi andare» continuò, furioso, spingendola in avanti per
farla cadere ai piedi del basso materasso ricoperto di fiori. Finalmente Dorcas
riuscì a guardarlo negli occhi e, con sorpresa, notò quanto fossero annacquati.
Evan stava piangendo per lei. «Io non
voglio farlo, amore mio. Ma tu puoi
impedirmelo» disse, cadendo in ginocchio davanti a lei, con la disperazione di
un amante rifiutato. Le sue mani, quando le toccarono il viso, lo fecero con
gentilezza infinita, come se stessero toccando la gemma più preziosa del mondo.
«Fermami. Dimmi che hai cambiato
idea, che resterai con me e che saremo felici. È tutto quello che abbiamo
sempre voluto, non è vero? Che il mondo vada all’Inferno, finché saremo insieme
nulla conterà davvero» mormorò, speranzoso, gli occhi come due stelle luminose.
Ti prego, sembrava pensare. Ti prego, salvaci entrambi.
Ma Dorcas aveva già fatto la sua scelta.
Si avvicinò fino a baciarlo un’ultima volta,
riversando in quel contatto tutto il rimpianto e la dolcezza che a voce non
sapeva più come comunicargli, consapevole del rischio di poterlo illudere ma
altrettanto certa che lui avrebbe capito ed avrebbe agito di conseguenza. Non
c’era altra via di fuga, non per loro, non in quel mondo in cui sembravano
esser destinati a fare tutte le peggiori scelte possibili.
Le sue labbra erano come il vino, inebriante e
dolce, tuttavia aspro e pericoloso al tempo stesso. Lasciò che lui sfogasse
tutta la sua disperazione, che approfondisse il contatto con rabbia, con fame,
tirandole i capelli e mordendola come un animale ferito. Mia, mia, mia! Evan avrebbe potuto urlarlo, se avesse avuto la
forza di separarsi da lei. Se avesse avuto la forza di guardarla negli occhi
come aveva sempre fatto.
«Sarai sempre la mia bellissima Dorcas» le disse,
quando si separarono, mentre puntava la bacchetta contro il suo petto. «La mia
meravigliosa Dorcas, l’unica capace di capirmi. Mia e di nessun altro» mormorò,
muovendo la sua arma ma senza dover pronunciare alcun incantesimo, avendolo
usato così tante volte e su così tante vittime da farlo sembrare
semplice, quasi una sciocchezza.
Abbiamo
trovato altre vittime, tutte soffocate con delle fresie!
Fu doloroso, ma cosa poteva mai importarle? La
ferirono di più i gemiti di Evan, un pianto senza lacrime costante come il
lamento di una Banshee, l’addio di un amante all’unico amore della sua via. Mia, mia, mia! Continuava a ripeterlo,
in una cantilena. Mia, mia, la mia Dorcas, si lamentava, e lei non poté far altro
che ringraziarlo, mentre la vita le veniva strappata via da delle fresie che
crescevano nel suo petto, appropriandosi del suo ossigeno.
Le ultime parole che avrebbe sentito sarebbero
appartenute a lui. Le braccia che l’avrebbero compagnata nell’aldilà sarebbero
appartenute a lui.
Lui, che era suo.
Quando
Alastor Moody fece irruzione nella piccola stanza, Evan Rosier era ormai più
che impazzito. Lo guardò, ridendo di se stesso o forse del fallimento di quel
piano strampalato che aveva messo in atto al solo scopo di riabbracciarla per
l’ultima volta.
«Ho
ucciso l’amore della mia vita su un letto di fresie ed ora mi lascerò uccidere
da te».
Il rapporto consegnato al Professor Silente e poi
alla famiglia Meadowes spiegava come Lord Voldemort in persona avesse colto i
membri dell’Ordine di sorpresa, uccidendo la giovane donna che era sempre
sembrata intoccabile6. Non c’era riferimento alla tragica storia
d’amore che Malocchio7
aveva visto consumarsi su un letto di fiori, non c’era riferimento ai regali
trovati sotto al letto di Dorcas.
Evan Rosier, ricercato per svariati omicidi e
sevizie, venne consegnato morto alla sua famiglia quella sera stessa, con il
pugno chiuso su una fresia bianca macchiata di sangue non suo.
»Marnie’s Corner
Bentrovati e
bentornati, cari amici di EFP!
Prima di tutto, ho una pagina facebook!
Seguitemi per futuri aggiornamenti!
La tematica che ho scelto di trattare in questa One-shot
(partecipante al Contest “When love is not enough” || an Hozier&tropes
indetto da LVdevotee sul forum di Efp) è particolarmente attuale, così come
particolarmente pericolosa.
La realtà in cui Dorcas vive è distorta, intossicata dalla
presenza di Evan che, come spero si sia capito, è tutto tranne che sano di
mente. Lei è debole, perché con lui
finalmente è l’unica, non ci sono altri amici o fratelli con cui dividere l’attenzione
e quella sensazione l’ha avvelenata fino a creare un muro fra ciò che gli altri
vedono e ciò che lei vede.
L’amore fra lei ed Evan è un amore sincero, a modo suo, ma non
per questo meno malato o meno pericoloso e mi auguro di esser riuscita a
rendere bene entrambi gli aspetti!
La canzone, Cherry Wine, è stata
fondamentale nella scelta del tema, considerando che essa stessa faccia
riferimento a questo tipo di relazione abusiva.
Come spero sia ovvio,
questa one-shot non vuole in alcun modo esaltare relazioni di questo tipo. Non
è una storia alla Romeo e Giulietta, in cui gli innamorati vanno compatiti.
Evan era malato e pazzo, Dorcas aveva
problemi gravi. Ricordate, questo non è vero amore.
Punti importanti:
» 1 – Dopo la morte del gatto, la seconda grande cattiveria di
Evan è stata quella di picchiare a sangue un ragazzo più grande e poi tentare
di affogarlo nel Lago Nero. Non l’ha semplicemente “fatto cadere” in acqua ma
ha usato la magia per impedirgli di riemergere. Non ci sono state prove, quindi
Evan non ha ricevuto altro che una punizione.
» 2 – Il caso di Berenice Vane è fondamentale per la long-fic (L’Erede
del Male) a cui è collegata la One-Shot. Berenice è stata la vittima prediletta
di Mulciber e dei suoi amichetti, costretta ad essere la sua fidanzatina e,
naturalmente, minacciata affinché non parlasse. Le prove delle torture non
c’erano perché quei ragazzi erano fin troppo furbi per farsi scoprire. Berenice
Vane ha sposato Mulciber ed ha partorito sua figlia, Elladora. È morta pochi
anni dopo in circostanze che vengono rigorosamente nascoste dal Ministero.
» 3 – Stesso episodio che poi Lily userà contro Piton. Evan,
Dorcas e Mulciber sono al settimo anno, mentre Severus è ovviamente più
giovane. Nessuno sa con esattezza cosa abbiano fatto a Mary, ma non sono stati
puniti perché troppo bravi a nascondere le loro tracce.
» 4 – Citazione più o meno libera da Star Wars – Episodio III, fatta
da Padme ad Anakin su Mustafar.
» 5 – Silas è il nome di battesimo di Mulciber, che è un
bravissimo Legilimante con una disgustosa passione per la tortura mentale, cosa
che gli farà guadagnare la sua buona parte di fama. In parte è da qui che
inizierà a guadagnarsi il nomignolo di Sandman.
» 6 – Voldemort non ha davvero preso parte a quell’imboscata.
Mentre gli altri membri dell’Ordine affrontavano dei semplici Mangiamorte,
Moody si è liberato ed è andato a cercare Dorcas. Scoprendo quel terribile
segreto, ha preferito raccontare che ad ucciderla fosse stato Voldemort, salvandole
la reputazione.
» 7 – Malocchio perché, come Moody stesso dirà, Rosier gli
porterà via anche l’occhio prima di essere ucciso. Quindi se fino a quel
momento era solo “Alastor Moody”, poi è diventato ufficialmente Malocchio. Come
Evan aveva pronosticato, l’esser caduto vittima del controllo mentale di
Mulciber l’ha reso completamente folle e paranoico.
Per altre
comunicazioni/anticipazioni/esaurimenti nervosi, vi aspetto su facebook!
Grazie ancora a chiunque leggerà,
-Marnie