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[Un
altro piccolo pezzo per un'iniziativa estemporanea di Criticoni, "Stereotipo":
questa volta si trattava di scrivere qualcosa su un cliché delle narrazioni, e
io ho scelto il #10, ovvero il grande classico di far ubriacare qualcuno per
indurlo a fare ciò che vuoi. XD Clow/Yuuko, poco comprensibile se non siete in pari con "xxxHOLiC" e "Tsubasa"
, e, sospetto -sigh- non troppo comprensibile in generale. Scusatemi, non sono
stata proprio il massimo. ç___ç Un ringraziamento
specialissimo va però alla mia beta, la gentilezza in persona, Renki-chan, che
mi ha davvero aiutata a limare e sistemare il pezzo! La frase che ho inserito
nell'introduzione della raccolta proviene da una delle mie 50 frasi a tema Yuuko
e Clow che scrissi un po' di tempo fa. Ispirazioni: gli ultimi capitoli di Holic e Tsubasa,
e la straordinaria "Where
many things started" di Wren.
Grazie
di essere qui con me.]
Veritas
A quei tempi, era
leggermente meno sofisticata, un po’ meno posata, tendeva ad arrabbiarsi più
spesso, a trattenere meno le risate, a mescolare di più i colori dei vestiti.
Nonché le bevande ai suoi festini a base di alcool.
A quei tempi, non
capitava di rado che loro due si ritrovassero a fissarsi, gli sguardi un po’
annacquati ma sempre accesi di sfida, al disopra di un tavolino ingombro di
resti di cocktail, tazze di saké, bottiglie vuote di liquori provenienti da ogni
parte del mondo –o per meglio dire, mondi. E anche questa volta era andata
così: notte inoltrata, strage di alcolici, lei sprofondata nella sua poltrona, e
lui di fronte, con il bicchiere in mano e il suo solito sorriso.
Bicchiere in mano, già.
Ancora mezzo pieno. Clow non reggeva bene come lei, ed entrambi lo sapevano.
Ecco, per l’appunto, per sua sfortuna se ne ricordava sempre anche lui, di quel
particolare.
Quella sera però
l’aveva già trascinato abbastanza in là: brindisi dopo brindisi i suoi discorsi
si erano fatti più imbrogliati e traballanti, e ora il suo sorriso era lì, come
sempre, certo, ma decisamente un po’ vacuo.
Molto bene. Era una di
quelle sere in cui l’alcool la rendeva nervosa, e la faceva pensare a cose che
di solito evitava accuratamente. Bene, se doveva essere così, allora nemmeno lui
l’avrebbe passata liscia.
Andò a sedersi sulle
sue ginocchia, gli prese un sorso dal bicchiere e gli porse il resto. “Su, su,
ché tra i maghi più grandi della storia non c’è mai stato un astemio.”
“E tu sei la
rappresentante perfetta della categoria, mia cara.”
“Ecco, appunto, vedi?
Non vorrai perdere contro di me, o rischiare di uscire da un novero tanto
prestigioso.”
“Veramente… stavo
proprio pensando che potrei provare ad essere l’eccezione che conferma la
regola. Non penso di… correre rischi, in nessuno dei due campi.”
“Ma senti qui che
presuntuoso che abbiamo…!”
“Assomiglio a
qualcuno…”
“Stai dicendo forse che
non potresti mai perdere contro di me, eh?”
“Non mi permetterei mai
di dire qualcosa di così poco… come si dice… cavalleresco a una così bella…”
“Ma lo pensi.”
Vuotò il bicchiere
e restò in silenzio, ma il suo sguardo dietro gli occhiali, seppure un po’
lucido di ebbrezza, parlava per lui, senza possibilità di errore…
Non lo pensi forse
anche tu?
Ecco, cose che di
solito evitava accuratamente.
Per non tradirsi, si
alzò a riempirgli ancora il bicchiere, dandogli le spalle –illudendosi che lui
non sapesse ciò che stava pensando. Nascondendosi dietro il sorriso malizioso
con cui gli porgeva il liquore.
Che lui, ovviamente,
non bevve del tutto.
Odiava il maledetto
occhialuto anche per quello. Perché non beveva mai quanto lei, perché non le
diceva quello che avrebbe desiderato sentire. Perché era più potente di lei.
E vedeva quello che lei
non era mai riuscita a vedere, la risposta alla domanda che le bruciava rabbiosa
in fondo alla mente.
La Conoscenza
assomigliava un po’ alla sua ubriachezza: qualcosa in cui non cadeva mai del
tutto, dove la visuale si tingeva appena di un tono di incertezza, più
incostante ad ogni passo che muoveva. E come nell’ubriachezza, come nei sogni,
le distanze si dissolvevano, allungandosi nell’impossibile: e c’era sempre
qualcosa che ancora non riusciva a raggiungere.
E nel futuro dei mondi
vedeva ad un certo punto sempre un vuoto, una mancanza, l’assenza di un potere
immenso che fino ad allora aveva illuminato, guidato la linea dei tempi. Ma di
quella magia, per quanto tentasse, non sapeva riconoscere il sentore.
Ma questa volta non era
disposta a cedere. E quando fu sicura di averlo fatto bere abbastanza, di
avergli fatto passare la soglia dei suoi abituali, infrangibili silenzi, piantò
le mani sui braccioli della sua poltrona e si piegò verso di lui, in un sussurro
e uno sguardo di fuoco.
“Dimmelo… lo so che lo
sai… devi dirmelo, maledizione… sarò io, toccherà a me, non è vero?”
Lo sguardo di lui era
solo una fessura azzurra e assente dietro le ciglia socchiuse. Ma le sue dita si
serrarono in una morsa attorno al suo polso, e l’ultimo respiro prima di
abbandonarsi al sonno fu un sussurro…
“Io… non ti lascerò…
andare via.”
Era da quel giorno, da
quel momento in cui si era allontanata lenta e sgomenta dalla sua poltrona, era
allora che lei era cambiata. Aveva cominciato a bere un po’ di meno, a
trattenere le risate, non gli aveva fatto più nessuna domanda.
Perché non sapeva se
quella frase l’avesse pronunciata l’amante perso nei sogni, oppure il mago
assiso sul trono del suo sconfinato potere.
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