“Dammene un altro,
Jack.” Mormorò Tony, battendo il
bicchiere vuoto sul bancone per attirare l’attenzione del
barista.
L’uomo lo scrutò
per qualche istante, versando comunque la
vodka per l’ennesima volta. “Giornataccia,
eh?”
Tony ignorò il tentativo
di iniziare una conversazione e
trangugiò avidamente il contenuto del bicchiere, apprezzando
il modo in cui
bruciava giù nella gola fino allo stomaco, arrivando in
qualche modo anche alla
testa. Provò un breve attimo di pace quando
l’alcol cancellò tutti i pensieri,
i dubbi e le preoccupazioni che da due giorni lo tormentavano.
Per la centesima volta
guardò il suo orologio e calcolò che
a Tel Aviv erano circa le otto del mattino. Per la centesima volta si
chiese
cosa stava facendo Ziva, a cosa stava pensando e se rimpiangeva la
scelta di
rimanere in Israele.
“Dio,
quanto mi
manca.” Non aveva problemi ad essere sincero nei
suoi pensieri,
specialmente con l’aiuto di qualche superalcolico. Se Ziva
fosse lì lo avrebbe
rimproverato per tutti i bicchieri di troppo e commentato le condizioni
disgustose del suo fegato, ma sarebbe rimasta con lui anche tutta la
notte
insistendo poi per riaccompagnarlo a casa... come se quello
non fosse più pericoloso che guidare ubriachi.
A quel pensiero Tony
scoppiò a ridere e le altre persone
sedute al bancone del bar lo guardarono come se fosse pazzo. Non gli
importava.
Poteva anche esserlo: antidolorifici e alcolici non
erano una buona combinazione e la notte precedente non aveva
chiuso occhio.
Continuava a rivivere gli eventi
degli ultimi giorni,
chiedendosi dove aveva sbagliato per far precipitare così la
situazione. Sapeva
di aver violato il protocollo andando a casa di Ziva senza avvisare
nessuno, ma
quello era stato l’ultimo dei suoi pensieri: voleva solo
parlare con lei e
darle l’opportunità di spiegarsi,
perché non poteva minimamente accettare l’idea
che stesse nascondendo intenzionalmente delle informazioni. Ma quando
fu Rivkin
ad aprire la porta finalmente capì tutto.
“Rivkin
è morto. Tony
lo ha ucciso.”
A colpirlo non era stata tanto la
frase, bensì il tono
accusatorio con cui l’aveva
pronunciata. Lo feriva sapere che lei lo credeva capace di uccidere a
sangue
freddo e senza nessun motivo, come un volgare assassino. Era
sinceramente
dispiaciuto per il dolore che, senza volerlo, le aveva provocato. Ma
non
provava nessun senso di colpa per averlo ucciso: non aveva fatto altro
che
difendersi dal suo attacco, ed era
stanco di doversi continuamente giustificare.
Con se stesso poteva anche ammettere
che, più che il suo
istinto di investigatore, a spingerlo al confronto era stata la gelosia, ma non cambiava il fatto che
Rivkin era uno dei cattivi: aveva ucciso un Agente Federale, alcuni
terroristi
sul suolo americano e, cosa ancora più imperdonabile, aveva
preso in giro Ziva.
Ripensò al viaggio in
Israele, all’interrogatorio con Eli
David, alla sua ultima conversazione con Ziva e a come aveva aspettato
che
salisse sull’aereo, invano.
“Hai
compromesso la
tua intera carriera, e per cosa?”
“Per
te.”
Non era mai stato così
sincero: il suo lavoro, la sua
vita... era disposto a sacrificare tutto pur di proteggerla. Per la
prima volta
le aveva aperto il proprio cuore, eppure non era bastato. Che ironia.
Forse avrebbe potuto, anzi, dovuto fare o dire qualcosa di
più per convincerla a tornare a
Washington. Qualsiasi cosa, incluso saltare giù
dall’aereo un secondo prima
della chiusura del portellone, come in una stupida commedia romantica.
Invece
non aveva fatto nulla.
Una voce interruppe il filo dei suoi
pensieri. “Vuoi
compagnia?”
Girò la testa quel tanto
che bastava per vedere una ragazza
sedersi sullo sgabello accanto, concentrandosi poi nuovamente sul suo
drink.
L’ultima cosa che voleva era socializzare con una sconosciuta
in un bar.
“Ti sei ferito in un
incidente?”
Tony si guardò il braccio
sinistro ingessato, cimelio della
sanguinaria lotta contro uno spietato assassino del Mossad. Era chiaro
che la
ragazza aveva l’istinto da crocerossina e fino a poco tempo
fa lui avrebbe
sfruttato la ferita per rimorchiarla facilmente. Ma era una cosa che
non voleva
più fare, non da quando aveva iniziato a comparare tutte le
altre donne con
l’unica da cui era attratto: nessuna reggeva il confronto
perché erano o bionde,
oppure troppo alte, alcune erano timide, molte erano frivole e tutte
parlavano
un inglese perfetto. Quella ragazza era carina ma non era Ziva, quindi non era abbastanza.
“Perché mi
ignori? Sei gay, vero?”
Tony sospirò stancamente,
non voleva far altro che restare
da solo ad auto commiserarsi e annegare i suoi pensieri
nell’alcol. “... Sì.”
Guardò soddisfatto la
ragazza alzarsi con aria indignata e
uscire dal bar, per nulla preoccupato di essersi appena rovinato la
reputazione. Il suo lavoro, la carriera, l’approvazione delle
persone e ora la
sua fama di dongiovanni... Lo sorprendeva come le cose che un tempo
considerava
importanti, su cui aveva costruito
tutta la propria vita, ora semplicemente non lo erano più.
Finito un altro bicchiere, questa
volta di whisky, frugò
nella tasca dei pantaloni per prendere il cellulare e fissò
pensieroso il
numero di Ziva, sfiorando con il pollice il tasto di chiamata. Quella
mattina,
più per rassicurare se stesso, aveva detto a Gibbs che lei
chiamerà quando si
sentirà pronta, ma entrambi sapevano che non sarebbe
successo.
“Avresti
potuto
chiamare.”
Quelle parole lo tormentavano da mesi
e spesso si
sorprendeva a chiedersi cosa sarebbe successo se l’avesse
fatto. Forse le cose
sarebbero andate in maniera diversa, forse Rivkin non sarebbe mai
entrato
nell’equazione e forse lei sarebbe ancora a Washington.
Voleva solo che tutto tornasse alla
normalità, con lui e
Ziva in ufficio che scherzavano e si stuzzicavano a vicenda, facendo
finta
entrambi di non accorgersi del legame speciale che c’era tra
di loro.
Per come era andata la loro ultima
conversazione a Tel Aviv,
Tony dubitava che Ziva gli volesse ancora parlare, ma doveva fare
almeno un
tentativo. Cosa poteva dirle?
Mi dispiace.
Vorrei che
fossi qui.
Mi manchi.
Ti amo.
Anche se non aveva ancora deciso,
appena raccolse abbastanza
coraggio fece partire la chiamata e aspettò nervosamente.
Invece degli squilli,
un messaggio registrato lo avvisò che il numero chiamato era
spento o non
raggiungibile.
Aggrottò le sopracciglia,
preoccupato: anche senza la regola
numero tre di Gibbs, sapeva che Ziva portava sempre con sé
il cellulare e, se
proprio voleva bruciare i ponti con loro, avrebbe cambiato numero. A
meno che
il padre l’avesse già mandata in qualche missione.
Sperò che non fosse troppo
tardi.
|