HANAMI
Ciao
a tutti! ^///^ Grazie per essere
qui!
Vorrei fare una premessa, prima che mi
lanciate i pomodori. Questo NON è il mio genere, di solito
sono abituata a
scrivere storie angstiose e piene di sangue, ma ho voluto cimentarmi
ugualmente
in qualcosa di diverso vista la stagione primaverile e allegra, coi
fiorellini
etc etc!
Quindi abbiate tanta pietà :) E spero
di
non essere andata OOC, il romance è rischioso :)
Vi mando un grosso abbraccio e vi
aspetto, per chi lo desidera, nelle recensioni.
Ditemelo se è meglio che continuo con
l’angst
senza fare altri esperimenti *ride*
PS: “Hanami”
è la parola giapponese che
indica la tradizione di guardare i ciliegi in fiore.
When it all falls, when it all falls down
I'll
be your fire when the lights go out
When
there's no one, no one else around
We'll
be two souls in a ghost town
[Madonna
– Ghosttown]
Il vento
fluiva leggiadro, insinuandosi
fra una moltitudine di piatti di carta, di posate improvvisate e
bicchieri
traballanti, facendo oscillare tutto in un fruscio. Sembrava ridere,
complice del
sole che perforava invadente il tavolo, frantumandosi in un centinaio
di
schegge di luce, filtrate dai rami frondosi di un albero.
Si
trovavano tutti insieme in campagna,
in un luogo lontano da Città dell’Ovest, di
proprietà della famiglia di Bulma.
Circondata dai ciliegi, dagli abeti e dalla foresta tutta, si apriva
una radura
intima, bellissima, puntinata dalle margherite che vibravano al sole,
specchi
di quel sole verso cui si esibivano entusiaste.
Una piccola
casa di montagna si
stagliava modesta al limitare del bosco, intagliata in un legno antico,
lo
stesso legno degli alberi che proteggevano come in un abbraccio la
radura.
Il fumo si
levava alto per poi
disperdersi timido nel cielo terso, il profumo di carne e peperoni
arrostiti
riempiva l’aria. Goku rideva a crepapelle, osservando Goten e
Trunks fare a
gara per chi riusciva a mangiare più costolette
d’agnello, ben sicuro del
proprio primato. Chichi, in sottofondo, gridava preoccupata per la
salute del
figlio, strattonando Gohan che rideva più del padre. Piccolo
e Tenshinhan erano
immersi in una conversazione animata su una nuova tecnica di arti
marziali
vista ad un recente torneo, ascoltati distrattamente da Jaozi, ben
più
concentrato sulle verdure che arrostivano sulla brace. Il Genio,
visibilmente
ubriaco, cantava stonato battendo sulle spalle di Crilin, che non
riusciva a
mangiare perché continuamente interrotto dai suoi spintoni.
Videl e i genitori
di Bulma si occupavano della brace, aiutati da Puar che
all’occorrenza si
trasformava nel mantice che avevano dimenticato alla Capsule
Corporation.
Yamcha,
pensieroso, cercava di inserirsi
in una qualsiasi conversazione con una delle sue solite battute
spiritose, ma
il sorriso stentato che aveva stampato in volto tradiva uno strano
malumore. Un rumore
bianco aveva iniziato a ronzare di
nuovo nella sua mente, una scatola sul punto di straripare che cercava
di
tenere chiusa con tutte le sue forze.
Ma,
all’ennesima visione di Bulma,
voltata di spalle, intenta ad guardare a qualche metro di distanza dal
tavolo
intorno a cui erano tutti seduti, cedette.
Agganciata
ai primi alberi al limitare
della foresta, una grande amaca era trattenuta da due corde rinforzate
da un
perno metallico. Su di essa, si scorgeva una schiena fasciata di
grigio, una
spalla nuda che si alzava e abbassava ritmicamente, una chioma di
capelli
corvini e un piede che penzolava, sfiorato dai lunghi fili
d’erba incolti del
bosco.
Doveva
sempre farsi desiderare, lui.
«Vegeta?
Non vieni?» gridò Bulma, vagamente irritata, le
sopracciglia aggrottate.
Non era da
lui ignorare un’offerta così
abbondante di cibo, Vegeta non era per nulla socievole in quel genere
di
occasioni mondane, ma quando si trattava di cibo non era mai
schizzinoso,
specialmente di fronte alla carne. Attese qualche secondo, le orecchie
tese a
captare qualunque segnale proveniente da lui.
Silenzio.
Yamcha
sospirò, seccato, lo sguardo che
incontrava complice quello divertito di Crilin.
La
verità era che, come sempre, non
riusciva a non preoccuparsi per Bulma. Ripeteva spesso a se stesso che
la sua preoccupazione
non fosse la tipica maschera per la gelosia di un uomo tradito e
gettato via
come un giocattolo noioso: il suo era soltanto affetto, una premura
spontanea
verso quella che era stata la donna più importante della sua
vita e che
rimaneva ancora la sua migliore amica.
Yamcha non
poteva dimenticare gli occhi
spietati di Majin Vegeta, cerchiati di nero, brutali come era stata la
sua
risata di scherno al suo primo arrivo sulla Terra. Dopo tutti quegli
anni,
Yamcha aveva ricominciato ad avere gli incubi, non avrebbe mai potuto
dimenticare il terrore che aveva provato, in piedi, tremante di fronte
a lui e
Nappa. Aveva pensato di trovarsi di fronte al demonio, dissimulato alla
perfezione per sembrare un uomo come tutti gli altri.
I Saiyan
sembravano umani, respiravano
come umani, parlavano come umani, ma non avevano un’anima. Ad
eccezione di Goku,
cresciuto sulla Terra, per Yamcha i Saiyan non erano altro che mostri,
privi
del minimo sentimento, incapaci di qualsiasi cosa che non fosse
disprezzo e
volontà di distruggere.
Quando
Vegeta aveva venduto l’anima al
Mago Babidi, una parte di Yamcha aveva esultato: la sua teoria era
stata
confermata, Vegeta era sempre lo stesso e aveva riposato inquieto in
attesa di
un’occasione propizia per acquisire il potere necessario per
farli tutti a
pezzi. Nulla aveva potuto far traballare la sua ormai inossidabile
teoria: a
nulla era servito apprendere del suo sacrificio, divenuto per lui
l’ennesima
dimostrazione di forza, anche se pagata a caro prezzo.
«Vegeta!»
lo chiamò ancora, stizzita. Bulma si
alzò frettolosamente, guardando per un attimo Trunks: forse
sarebbe stato
meglio mandare lui a chiamare suo padre, alcune volte sapeva essere
più
persuasivo di lei. Ma lo vide ridere a crepapelle, spintonato da Goten
che lo
indicava, le gote umide di lacrime, e decise di non andare a
disturbarlo.
Eppure,
ripensando a quella mattina,
Vegeta le era sembrato stranamente... di buon umore, non palesemente
maldisposto
rispetto alla baraonda festosa che di solito aveva la
proprietà di fargli
saltare i nervi al solo pensiero. Evidentemente si era sbagliata: suo
marito
aveva resistito in mezzo a loro per il tempo necessario ad ingurgitare
la
prima, generosa portata, per poi girarle la schiena e andare a guardare
le
nuvole filtrate dagli alberi del bosco.
Si diresse
spedita verso di lui,
osservata dagli occhi inquieti di Yamcha.
«Vegeta,
non dico che devi metterti a
intrattenere gli ospiti, però almeno degnarti di rispondere
quando ti si
chiama...» la
sentì borbottare, la voce che si disperdeva con la distanza
che aumentava fra
loro.
Il cuore
nel petto di Yamcha fece un
salto, che cercò di reprimere muovendo lo sguardo sul Genio
e sull’ennesima
caduta che lo aveva portato a sbucciarsi le ginocchia. Ma non rise,
distaccandosi dal divertimento generale. Vegeta non gli era mai
piaciuto, ma
dopo quel brusco salto nel passato avvenuto dopo quasi sei anni, in
tempi
decisamente non più sospetti, la sua fiducia verso quel
Saiyan era, se
possibile, diminuita ulteriormente.
Come poteva
lei fidarsi?
Come poteva
permettergli di vivere
ancora in quella casa?
Li aveva
visti, al Palazzo del Supremo,
al ritorno del Saiyan dall’Inferno. Bulma e Trunks erano
felici di vederlo, lo
avevano abbracciato forte, Bulma piangeva dalla felicità e
Trunks gli era
praticamente saltato in grembo, stringendogli forte una mano.
Ma
cosa c’era di così buono, in lui?
Quando
aveva esposto a Crilin la sua
inquietudine il suo volto si era composto in un sorriso enigmatico,
smarrendosi
nel ricordo di quando aveva visto con i suoi occhi Vegeta stringere suo
figlio
fra le braccia e metterlo in salvo prima di farsi esplodere nel
tentativo di
eliminare Bu. Da quel momento aveva conquistato la fiducia di Crilin,
che lo
aveva guardato liberare tutta la sua potenza centimetro dopo
centimetro, fino a
sfracellarsi a terra in un vortice di cenere.
A sentire
lui, Vegeta aveva rinunciato
alla vita, per Bulma, per Trunks, per tutti.
Ma Yamcha,
a questa versione dei fatti,
faticava a credere.
Quando
Bulma arrivò dall’amaca, le
scarpe che per la fretta si erano riempite di terra, si accorse che
Vegeta era
semplicemente addormentato. Riposava, abbandonato, il petto che si
alzava e si
abbassava con lentezza, fasciato in una canottiera morbida in cui si
insinuava
la brezza fresca, il volto disteso in un’espressione serena,
le labbra
leggermente dischiuse.
Bulma
sorrise, un lampo di tenerezza che
sfolgorava nei suoi occhi.
Il Principe
dei Saiyan.
L’uomo
di Freezer.
Il rivale
di Kakaroth.
Identità
ormai logore che imputridivano
all’Inferno. Le aveva conosciute tutte, in una sequenza
infinita di
doppelganger in lotta l’una contro l’altra,
personalità multiple di uno stesso
uomo, tutte sofferenti di un’insonnia divorante, che lo
avevano spinto ad
allenarsi anche di notte, fino a svenire, a vomitare per la fatica, che
digrignavano i denti nel sonno, che avevano gli incubi, che gridavano
nella
lingua Saiyan parole a lei sconosciute che avevano il solo suono del
dolore e
della morte, tradite dai suoi occhi violacei al risveglio.
Ridotte
finalmente ad ombre nelle sue
vene, quelle figure lo avevano abbandonato.
L’uomo
che giaceva addormentato di
fronte a lei era Vegeta, il suo
uomo,
suo marito.
Lo
accarezzò, passando le dita sui suoi
zigomi pronunciati, nobili, su cui riposavano le sue lunghe ciglia,
sorprendendosi di quanto fossero eleganti i suoi lineamenti non
contratti nel
solito cipiglio teso.
Si
abbassò e lo baciò lentamente sulle
labbra, godendosi il contatto con le sue labbra fresche succhiandole
piano, rubando
il suo respiro calmo. Vegeta mugugnò, ancora a occhi chiusi,
una mano che si
inabissava rapida nei suoi capelli fini, l’altra che cercava
il suo corpo per
stringerla a sé.
Improvvisamente
le sue iridi si
spalancarono, umide, spaventate dalla luce.
«
Ma che fai? » le domandò, rude, la voce roca e
impastata dal sonno. Si staccò bruscamente e la
fissò, sentendosi avvampare per
l’imbarazzo, perplesso per l’essersi addormentato
nel frastuono di quel pranzo
improvvisato. Subito il suo sguardo andò a controllare la
tavolata che
tranquilla proseguiva a mangiare fra le risate e gli scherzi.
«
Nulla, ti ho chiamato più volte ma non
venivi, pensavo che fossi seccato o che non ti andasse di mangiare con
noi... »
Il Saiyan
non rispose, lo sguardo smarrito
fra ciliegi in fiore, le cui foglie cantavano accarezzate dal vento. A
chiunque
altro sarebbe sembrato arrabbiato, seccato, ma lei comprese.
Vegeta era
in pace.
Non si
trovava più sulla nave spaziale
di Freezer. Non sentiva più la necessità di
distruggere nulla e nessuno. Si sentiva
lontano anni luce dalle migliaia di pianeti in cui aveva portato la
morte.
Il terrore,
l’angoscia di morte
imminente che aveva compresso la sua gabbia toracica per
trent’anni, da quando
era stato costretto a lasciare il Palazzo Reale insieme a Zarbon e
Dodoria, si
era affievolita. Neppure l’ambizione che lo aveva portato
quasi ad uccidersi,
prima dell’arrivo dei cyborg, neppure l’invidia
verso Kakaroth, riuscivano più
a corromperlo al punto da fargli perdere il controllo.
Vegeta non
sentiva nulla, vuoto e ricolmo
al tempo stesso, stordito dal fluire della Vita che in mezzo alla
foresta
assorbiva come uno delle migliaia di fiori.
«
Sto bene. » le disse, atono, specchiandosi nei suoi
occhi chiari, ritrovandosi ad ardere di un desiderio che lo
riempì nuovamente
di imbarazzo. Avrebbe voluto possederla lì, su
quell’amaca, aprirle le cosce
nel silenzio di quel bosco in cui avevano fatto l’amore altre
decine di volte.
Ma,
contemporaneamente, voleva anche
baciarla, stringerla, proteggere quel corpo esile, così
indifeso rispetto al
suo. Quando si era sacrificato, convinto che non avrebbe mai
più rivisto lei e
Trunks, Vegeta aveva provato una disperazione cocente, peggiore di
quando era
esploso il suo pianeta, anche peggiore di quando Freezer lo aveva
trucidato.
Ma, per la prima volta, aveva provato un senso di giustizia, di
chiusura, come
se qualcosa si fosse compiuto in modo solenne.
«Non
lasciarmi sola.»
Lo sguardo
scuro di Vegeta la trapassò,
attraversandola come un lampo. I lineamenti dolci di Bulma erano
improvvisamente seri, i suoi occhi chiari adombrati da uno spettro.
Il Saiyan
capì immediatamente che non si
riferiva a quella assurda giornata nel bosco.
Dopo quasi
sette anni, ancora non
riusciva ancora a capacitarsene.
Ma
cosa c’era di così buono, in lui?
Senza
dubbio si riteneva un combattente
eccezionale, indomito e spregiudicato, come Saiyan era quanto di
più si potesse
desiderare, poiché il valore di un Saiyan si riassumeva
nella sua potenza
fisica. Al contrario, aveva notato che sulla Terra si ragionava
perseguendo
altri standard: le coppie non si sceglievano in base alla forza, ma ad
altri
criteri come la bellezza, la bontà,
l’affidabilità, la simpatia.
Di tutti
questi requisiti, non sentiva
di possederne nessuno: senza dubbio non era né buono,
né simpatico, né
tantomeno affidabile, e la sua bellezza era quel genere di bellezza
decadente,
temprata nel fuoco e nel sangue, inossidabile come il metallo,
durissima come
uno schiaffo, che non riteneva adatto alle donnette terrestri.
Eppure,
Bulma aveva scelto proprio lui.
E non per
esibirlo come un trofeo, come
tante femmine svenevoli incontrate nella sua carriera di conquistatore
di
galassie avevano tentato di fare, aprendogli le gambe avide della sua
stessa
fama, del suo nome caduto in disgrazia.
Le sue
pupille cupe scivolarono sul viso
preoccupato di sua moglie, sulle sue labbra appena dischiuse.
L’idea che
qualcuno potesse averlo scelto, proprio lui, in mezzo a tutti gli
altri, e
soffrire alla sola idea di perderlo, era quantomeno bizzarra.
Aveva
capito cosa provava Bulma per lui
soltanto in quel momento, quando aveva sentito la vita fluire dal suo
corpo e
non aveva pensato all’orgoglio in frantumi,
all’esito della battaglia, ma
soltanto il suo volto gli aveva riempito la mente, come una
gigantografia,
ovunque, lo aveva visto ovunque dentro la sua testa, moltiplicarsi come
un
frattale impazzito. Più aveva cercato di scacciarlo,
più i dettagli del suo
viso, del suo corpo, erano divenuti vividi, ricchi di dettagli.
Un istante
prima dell’esplosione aveva
sentito una stretta allo stomaco e al cuore, ma non per la fatica, non
per le
molecole del suo corpo che si disgregavano nel fuoco divorante della
sua
passione.
Ora lo
sapeva perché.
Non voleva
perderli.
“Amore”
Anche
lui era stato stregato, alla fine, da un maleficio così
potente da farlo star
male alla sola idea di perderli.
«
Lo farò di nuovo, se sarà necessario. »
La sua voce
fu dura, quasi aggressiva,
la mascella che si gonfiava rigida ai lati del suo volto.
Un fiore di
ciliegio volteggiava fra
loro, frenando la sua caduta sul petto di Vegeta.
Bulma lo
fissò, mentre gli occhi le si
riempivano di lacrime. Allungò lentamente una mano per
raggiungerlo e lo sfiorò
con le dita, insensibile al cuore caotico di Vegeta, che pulsava
frenetico un
paio di centimetri sotto il suo polso.
Quel
piccolo fiore era perfetto. Aveva
guardato i ciliegi fiorire e cadere ogni anno da quando era nata, ma
mai aveva
notato che ogni singolo fiore fosse così perfetto. Forse
perché non era un
fiore qualunque. Era il fiore che era caduto fra di loro nella
dichiarazione
d’amore più potente e inesorabile che lui le
avesse mai fatto.
Una
promessa di morte.
Per Vegeta
non c’era mai stato nulla di
più prezioso della vita, l’unica cosa che fosse
intimamente sua. Gli era stato
sottratto tutto, il trono, la famiglia, la dignità, eccetto
la tenace
consapevolezza di essere ancora vivo, l’unico sopravvissuto
in una terra crudele
che aveva tentato di ucciderlo con ogni mezzo. Oltre a quello che Goku
le aveva
raccontato, Bulma sapeva ben poco del suo passato. Ma non aveva bisogno
di chiedergli
nulla, era in grado di scorgere da sola il dolore profondissimo che
infestava i
suoi occhi, la paura che incarnava il suo corpo, sempre nervoso e pieno
di
spasmi, le cicatrici bianche della sua schiena. Sapeva che Vegeta era
stato
picchiato a sangue, fatto letteralmente a pezzi, minacciato e
terrorizzato al
punto da riuscire a dominare quel terrore, diventandone esecutore. Non
poteva
invece immaginare quanto Vegeta avesse implorato, pianto e supplicato
dentro di
sé che quel dolore finisse, infinite volte, nel corso di
quei trentacinque
anni.
Perché,
nonostante tutto, Vegeta non
aveva mai voluto morire.
Lui voleva
vivere.
Ma adesso
non gli bastava più vivere e
basta, voleva vivere accanto a lei.
Le lacrime
iniziarono a scorrere sul
volto di Bulma, lo sguardo ancora concentrato su quel piccolo fiore
rosa, i cui
petali morbidi erano piegati contro la sua canottiera, ipnotizzato al
punto da
non vedere la mano di Vegeta avvicinarsi e racchiudere la sua, con una
delicatezza estranea alla violenza che era abituata ad esercitare.
Il Saiyan
non disse nulla, inanellando
le dita alle sue, tornando finalmente a guardarla negli occhi. Si
trapassarono
a vicenda, ma fu Vegeta a distogliere lo sguardo per primo, le guance
avvinte
da un calore improvviso. L’amore che vide negli occhi di
Bulma risuonò come in
una eco, fuori e dentro di lui. Un sorriso si aprì sul volto
della donna, più
luminoso e cristallino del sole. Lo conosceva troppo bene, sapeva
decifrare
tutti i suoi sguardi, i suoi piccoli movimenti, i toni impercettibili
della sua
voce, la sua assurda timidezza, il pudore tipico di un uomo cresciuto
in mezzo
agli uomini.
Bulma
accarezzò il dorso della sua mano ruvida
e glabra, godendosi il suo calore, la potenza vitale, ripensando
involontariamente
a quella primavera in cui era incinta e sola, su quella stessa amaca, a
guardare i ciliegi traballare insieme alla certezza che Vegeta sarebbe
tornato
dopo averla abbandonata per allenarsi nello spazio. Eppure, una piccola
parte
di lei non aveva mai smesso di crederci. Anche quando tutti le avevano
detto di
dimenticarlo, quando tutti insistevano nel sottolinearle che Vegeta era
soltanto un guerriero spietato che non l’aveva mai amata e
che non avrebbe mai
iniziato a farlo.
Con
arroganza lo tirò a sé e baciò uno
dei suoi palmi, stropicciato dalle linee, respirando contro la sua
pelle umida.
Yamcha li
guardava da lontano, spudoratamente,
talmente sorpreso da non riuscire a nascondere la propria
incredulità. Quelle
carezze, la mano di Bulma scomparsa nello stesso punto in cui era
scomparsa
quella di Vegeta, l’espressione emozionata di lei, gli occhi
lucidi e il
sorriso che si era aperto sul suo volto, quel bacio. A quel punto il
Saiyan si
voltò leggermente, come se avesse sentito la sua invadenza.
Non appena incontrò
lo sguardo di Vegeta il sentì il cuore accelerare, la
tensione immediata
nell’innervare i suoi muscoli aumentando leggermente il suo
ki. Ma non successe
nulla, i suoi occhi neri erano vuoti, rilassati, privi del solito
sarcasmo e
della solita aggressività.
Fu Yamcha
ad abbassare lo sguardo per
primo, pieno di imbarazzo per quella sua curiosità fuori
luogo.
Forse,
dopotutto, Crilin aveva ragione.
Sovrastati
dai ciliegi, Bulma e Vegeta si
tenevano la mano guardando la foresta scura e lontana. Era un
caleidoscopio di
colori, i papaveri di porpora che giocavano a rincorrersi sospinti dal
vento,
la vita che brulicava lenta, incarnata nelle cicale che cantavano
melodie
antiche.
L’ombra
scendeva inesorabile, combattuta
strenuamente dai raggi solari che si opponevano ribelli al tramonto.
Non avevano
più bisogno di parlare.
I fiori di
ciliegio continuavano a cadere,
come rintocchi silenziosi di un tempo irreversibile, di momenti perduti
per
sempre, dispersi nella corrente della Vita.
***
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