have a little faith
Una volta, prima di andare a dormire,
Parker gli aveva chiesto per chi pregasse ogni sera prima di coricarsi,
per chi rimanesse in ginocchio davanti al letto per ore
intere, nonostante avesse appena risolto un caso complicatissimo
– e pronunciata dalla sua voce di bambino
l’indagine sembrava ancor più difficile.
Seeley Booth aveva sorriso al
figlio e gli aveva scompigliato i capelli così simili a
quelli della madre.
– Prego per te,
Parker, e per la mamma. – aveva risposto.
– Solo per noi?
– aveva chiesto il bambino, curioso.
– A volte anche per
me. – aveva sorriso l’uomo.
Il bambino era scoppiato a
ridere e si era infilato sotto la calda trapunta rossa del suo letto,
scalciando un po’, per scaldare anche gli angoli
più freddi del materasso.
– Dovresti pregare
più spesso per te, papà. – aveva
affermato Parker, annuendo convinto e un po’ imbronciato
– Sei tu che dai la caccia ai criminali. Non la mamma.
–
L’uomo aveva
annuito e aveva dato la buonanotte al figlio, promettendogli di pensare
di più a sé stesso.
Chiudendosi la porta alle
spalle Seeley Booth aveva pensato ad un’altra persona per cui
pregava sempre – quando la vedeva, china sul tavolo
del laboratorio, concentrata a studiare delle nuove ossa o a
ricostruire un cranio o accanto a lui, in macchina, con lo sguardo
dritto davanti a sé: era un fuso, il suo sguardo, uno
stramaledetto fuso – tanto da dimenticarsi di
farlo per sé stesso.
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