Arbeit macht frei
Sono stanca, terribilmente stanca.
E distrutta.
Cosa ci faccio ancora qui? Perché non mi hanno ancora soppressa?
Questo trattamento è disumano, mostruoso, perfino per me, che di
umano ho poco e nulla. Si ostinano a sottopormi a continui test,
l’uno più violento dell’altro e ormai sento il
sangue colato rapprendersi sul mio corpo maltrattato.
Tra poco verranno con la pompa, per ripulirmi dai segni di sangue dell’ultimo esperimento.
Che esseri vili e disgustosi...
Perché non sopprimermi? Che altro ho da perdere, se non la vita?
Mi hanno già strappato tutto: la libertà, i vestiti, la
dignità, la possibilità di avere una vita normale e di
costruirmi un futuro in pace. Tra poco mi toglieranno anche il nome.
Con altre l’hanno già fatto e si sono già abituate
a farsi chiamare con il loro numero, perché è questo che
siamo, per loro: solo una lista di numeri.
E quando succederà, assieme al nome perderò anche me
stessa. Giunti a questo punto, ormai, che cosa può importarmi
davvero?
Essere un Diclonius vuol dire non aver diritto a vivere? Vuol dire non
avere diritto a un futuro? Vuol dire essere privati di tutto e rimanere
solo un guscio vuoto del quale si può decidere la sorte in base
alla sua utilità?
Questo non è un laboratorio: è l’Inferno.
Questo mio cuore sta soffrendo e voi non vi accorgete di niente?! Voi
che mi osservate ogni giorno dall’altra parte del vetro siete
veramente così ciechi da non riuscire a vedere il mio dolore?
Che cosa sono diventata? Sono davvero solo carne da macello?
Stanno aprendo la porta: staranno venendo a ripulirmi dal sangue.
Poi, eccolo: un getto d’acqua m’investe, potente, allontanandomi i capelli dal viso.
Li sento: stanno ridendo. Giocano con me, con il mio corpo.
Con la mia vita.
Perché si divertono con il mio dolore? Io... io non li capisco:
che divertimento c’è nel torturare altri esseri, nel
vederli soffrire?
Tutta questa indifferenza mi strazia e nuove, dolorose fitte dilaniano il mio subconscio, già totalmente annientato.
Non ho più la forza di reagire... non ho più la volontà di lottare...
Loro sono il nemico, la minaccia!
I miei vettori, le mie armi, i miei unici mezzi di sopravvivenza, ormai
sono distrutti: non riescono più a far del male, non riescono
più a difendermi. Oramai sono sola, alla mercé del dolore
e degli umani.
Basta, non voglio più soffrire, non voglio più sentire tutto questo dolore.
Perché ridete? Che c’è da ridere? Sto soffrendo,
non lo vedete?! Stupidi umani, smettetela! Zitti! Non mi avete
già torturata abbastanza?
Queste catene sono la metafora della mia volontà: mi impediscono di reagire.
Perché? Dovete smettere di ridere! Basta! BASTA!!
Questo dolore... è troppo forte... troppo concreto... è atroce.
Fatelo smettere! Fateli smettere!
Questo è il mio dolore... lo sento rifluire dentro di me, nei miei vettori.
Li sento: stanno ancora ridendo.
Le sento: le mie braccia si stanno ridestando.
La sento: la volontà riprende il controllo delle mie membra.
La sento: forte, dentro di me.
Non mi lascerò sopraffare: riavrò la mia vita, la mia
dignità e la mia libertà. Non lascerò che gli
umani prevalgano su di me, perché io sono superiore alle loro
capacità: io ho il potere d’impormi. Saranno loro a
subire, d’ora in avanti, perché io l’ho fatto per
troppo tempo.
Ora basta.
Li sento: stanno gridando.
I miei vettori vi spaventano? Fate bene a gridare: urlate finché
ne avete la facoltà, perché tra poco non potrete
più aprir bocca.
Ecco, il momento è arrivato ed è stato meraviglioso.
È dolce la morte? Spero di no.
La vendetta invece sì, ha un dolce sapore.
Vi siete divertiti con me, non è così?
Ora io sono stufa di essere il vostro pupazzetto, patetici umani.
Adesso è il mio turno di giocare con le vostre vite...
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