Il delitto perfetto

di Alice Mechelli
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                                      Il delitto perfetto.
 
                                                            Capitolo 1
Acquaviva era un paesino situato al sud Italia con una popolazione di 5000 abitanti.
Il mare lo circondava sui due terzi del territorio ed un fiumiciattolo lo attraversava pigramente.
La vita del borgo iniziava dalla Piazza dei Filosofi che si trovava precisamente al centro formando
un cerchio perfetto. Le case si disperdevano tutte intorno per parecchi chilometri, fino ad
un piccolo muro di cinta che le divideva dalla campagna circostante dove erano presenti vigne,
piccole ville e migliaia di orti amorevolmente custoditi dai contadini.
Gli abitanti avevano caratteri distinti tra loro: la maggioranza era dolce, premurosa e gentile, ma
c’era un piccolo gruppo di persone che poteva essere descritto solo con due parole chiavi:
cattiveria pura.
Gilian Lunetta abitava a Acquaviva da tutta la vita, era un ragazzo di venti anni con i capelli rossi e
ricci che gli incorniciavano il viso, il nasino all’insù e gli occhi più belli di tutta la contea: il destro
azzurro come le onde, che si illuminava quando era felice e spensierato e il sinistro nero come un
corvo che, nelle giornate più oscure, spiccava su tutto e sembrava risucchiare nella sua profondità il
 buon umore. Era un ragazzo alto e forte, simpatico a tutti e con un carattere modesto, generoso e
coraggioso. I genitori erano contadini e abitavano in una modesta casa in campagna. La madre,
Eveline Bouvier, era francese e si era trasferita in Italia una volta sposata. Il marito, Niccolò
Lunetta, era nato a Roma ed era andato ad abitare a Acquaviva a sedici anni con i genitori.
Gilian era cresciuto in un ambiente amorevole e con la conoscenza del lavoro: già da piccolo, prima
di andare a giocare in Piazza con i suoi amici, dava una mano nell’orto e con gli animali.
Era sempre stato un ragazzo sveglio, imparava tutto in fretta e sapeva cavarsela in ogni ambiente.
Sin dall’età di sette anni si era appassionato alla lettura. Spesso, nelle calde giornate estive, si
sedeva sotto l’ombra di un ciliegio nel suo orto oppure su una delle spiagge che circondavano il

paesino e passava le ore con la faccia sepolta nei libri mentre il vento gli scompigliava i capelli e la
salsedine o l’odore della terra gli solleticavano il naso. In inverno, invece, accendeva il fuoco dopo
cena e leggeva seduto su una poltrona a dondolo davanti al grande caminetto di pietra.
Ad undici anni si era appassionato alla raccolta di romanzi dello scrittore Conan Doyle: Sherlock
Holmes, un investigatore famoso ed intelligente che riusciva a risolvere ogni caso gli si presentasse.
Da quel momento aveva deciso di diventare un detective e ci era riuscito a diciotto anni grazie alla
sua inaspettata bravura, nonostante gli mancasse ancora qualche diploma universitario.
Gilian abitava in una casa al centro del paese, accanto alla Piazza dei Filosofi. Era a due piani, con
una grande sala da bagno, due camere da letto, uno studio, un piccolo salotto ed una cucina. Un
giardino curato la circondava ed un cancello di legno la chiudeva sul davanti.
Era novembre, un venticello leggero smuoveva l’aria e gli alberi tutt’intorno. Il ragazzo era intento
a preparare la cena quando il telefono iniziò a suonare. Rispose al terzo squillo ed una voce
femminile si disperse nell’apparecchio:
«Ciao Gilian, scusa il disturbo».
«Emma! C’è qualche problema?».
«No tranquillo, volevo solo chiederti se sei pronto per l’esame di domani».
Gilian rimase per un secondo con il fiato sospeso, l’indomani avrebbe dovuto affrontare l’esame di
filosofia all’università, aveva studiato per un mese intero ed ora se ne era completamente
dimenticato. Dopo pochi minuti di stupore rispose alla sua compagna di banco, una bella ragazza
con i capelli lunghi, lisci e neri e due occhi verdi che risplendevano come zaffiri.
«Si, sono pronto e tu?».
«Insomma, di solito sono molto più studiosa, ma nell’ultimo periodo mi sono distratta molto».
«In effetti anche io, ma vedrai che andrà bene».
«Si, lo spero… bene, ti lascio studiare allora a domani».
«Buonanotte Emma».
Detto questo riattaccò il cellulare e con un’ansia sempre più crescente finì di cucinare ed iniziò a
ripassare in fretta e furia filosofia sbocconcellando qua e là la frittata con gli spinaci.
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La mattina dopo si svegliò grazie ai raggi del sole, che filtrando dalla finestra gli illuminarono il
viso, si trovava ancora seduto sulla sedia della scrivania con i libri aperti ed il piatto con gli avanzi
della cena accanto. Erano le otto del mattino, l’esame sarebbe iniziato alle otto e mezza. Vedendo
l’ora scattò in piedi, barcollò per il sonno fino al bagno e con grande fatica riuscì a farsi una doccia.
Poi si vestì, bevve una tazza di caffè, prese i libri necessari e si diresse verso la sua Audi nera.
Alle otto e un quarto era arrivato all’università che si trovava nella parte est del paesino.
Emma si trovava di fronte alla classe nella quale sarebbe stato fatto l’esame e camminava avanti e
Indietro torturandosi le mani.
«Emma, fermati».
La ragazza, che in quel momento gi dava le spalle, si girò di scatto e si illuminò.
«Gilian, aiutami sono troppo stressata».
«Tranquilla, è solo uno stupido esame».
«Lo so che non lo pensi davvero, non è solo un esame, è la svolta delle nostre vite».
«Si, ma tu ora devi pensare che è solo uno stupido esame».
In quel momento la porta dell’aula si aprì e la voce della professoressa Moretti risuonò nel
corridoio.
«Rossi Emma».
La ragazza guardò Gilian con aria implorante, lui le fece un sorriso di incoraggiamento e lei si girò,
prese un respiro profondo e sparì dietro alla porta trotterellando accanto alla professoressa di
italiano, storia e filosofia.
Mezz’ora dopo uscì un po’ più rilassata e Gilian entrò al suo posto. Sudava, tremava dalla
testa ai piedi e il suo occhio nero spiccava sempre più sull’altro. Superata la soglia, fece alcuni passi
incerti verso una sedia situata di fronte alla cattedra di mogano e si mise seduto. Davanti a lui
c’erano quattro professori, ma solo la Moretti parlò.
«Salve signor Lunetta, è pronto?».
Il ragazzo annuì con poca convinzione.
«Bene, allora iniziamo, parlami di Zenone di Elea».
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Gilian rimase sorpreso, quel filosofo si studiava al terzo superiore, era molto facile.
Dopo aver risposto correttamente, la professoressa continuò con le altre domande che si dilaniarono
in livelli altisonanti: alcune erano semplici, anche troppo. Altre erano molto difficili.
L’esame passò in fretta. Quando uscì di lì, il ragazzo si sentiva sollevato e stranamente leggiero.
Emma lo stava ancora aspettando fuori dal cancello della scuola.
«Gilian, hai finito finalmente! Com’è andata?».
«Direi che non posso lamentarmi, ho fatto fatica a rispondere solo ad una domanda e tu?».
«A me è andato bene, i quesiti erano semplici, alcuni da classi superiori, forse i professori si
sono impazziti».
«L’ho pensato anche io, ma non mi lamento».
«Questo mai. Ho fame, perché non andiamo a pranzo insieme?».
«Perché no».
I due vicini di banco si incamminarono nel Centro Commerciale vicino all’università. Era un
edificio di tre piani pieno di negozi di svariato tipo, pizzerie e ristoranti vari. Entrarono nel
McDonald del secondo piano, accanto al cinema e durante il pranzo spettegolarono su tutto.
Verso le due e mezza del pomeriggio finirono finalmente di mangiare ed uscirono, mentre si
incamminavano verso le rispettive macchine un ragazzo li raggiunse.
«Piccioncini, cosa ci fate insieme?».
«Ciao Dan» lo salutò Emma.
«Abbiamo avuto un esame questa mattina e dopo siamo andati a pranzo» aggiunse Gilian.
Daniele, per gli amici Dan, era un loro coetaneo molto simpatico. Aveva dei capelli corti e neri e gli
occhi dello stesso colore. Era un artista, bravissimo a disegnare e a suonare la chitarra elettrica.
«Capisco» disse rivolgendo uno sguardo malizioso verso Emma.
«Tutto vero, non farti illusioni» ribatté la ragazza ridendo.
«Ma siete così carini insieme!».
Gilian arrossì leggermente. Da quando si erano conosciuti, Daniele non faceva che dire che lui e la
sua compagna di banco sarebbero stati una bella coppia.
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«Ora devo andare, vi saluto ragazzi» disse prima di scappare letteralmente.
Daniele e Emma si guardarono con aria interrogativa e ricominciarono a parlare mentre Gilian
correva verso la sua auto.
Tre giorni dopo i risultati dell’esame arrivarono. Il ragazzo si era svegliato con calma, erano le dieci
del mattino. Dopo aver fatto colazione uscì in giardino per prendere la posta, l’aria fredda invernale
gli fece intirizzire la pelle sotto il giacchetto. Infreddolito, si sbrigò a prendere le buste e a rincasare.
La lettera dell’università spiccava tra tutte. Si mise seduto sulla sedia e con mano tremante la aprì
per leggerne il contenuto:
Signor Lunetta,
siamo lieti di informarla che ha superato con successo l’esame di filosofia dell’università Dante
Alighieri di Acquaviva.
Il risultato che ha conseguito è di 30 su 30.
Gilian richiuse la busta ed un sorriso gli si dipinse sul volto, ora la sua carriera da investigatore era
salita di un gradino. Da quando aveva compiuto diciotto anni aveva iniziato a collaborare con la
polizia del paese e aveva risolto molti casi di omicidio. Il suo talento era noto a tutti.
Quel pomeriggio prese la lettera, le chiavi di casa e dell’auto ed uscì. Salì nella sua Audi, mise la
chiave nel riquadro, la girò con uno scatto e partì alla volta della campagna. Quando arrivò a casa
dei genitori parcheggiò al solito posto e corse a bussare alla porta. Eveline aprì e si trovò davanti
alla sagoma del figlio:
«Caro, potevi avvertire che venivi, ti avrei preparato qualcosa da mangiare!».
«Non ti preoccupare mamma» le scoccò un bacio sulla guancia ed entrò nella casetta della sua
infanzia.
«Come stai tesoro mio?».
«Bene e voi?».
«Tuo padre ha il suo solito mal di schiena, ma oltre questo va tutto bene».
Il ragazzo si mise seduto sul divano in salotto e si guardò intorno, non vedendo Niccolò chiese sue
notizie.
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«Sta dando da mangiare alle mucche nella stalla, rientrerà a breve».
«Lo aspetterò allora, sono venuto per farvi vedere una cosa».
Eveline lo squadrò con curiosità e notò la lettera tra le mani del figlio.
«Riguarda quella?» chiese indicandola.
«Si».
Vedendo che il giovane non diceva altro, la donna non insistette oltre, era curiosa ma avrebbe
aspettato. Era sicura solo di una cosa: sarebbe stata fiera di lui come lo era sempre stata.
Alcuni minuti dopo la porta d’ingresso si aprì e Niccolò fece il suo ingresso.
«Papà hai bisogno di una mano con qualcosa?».
«Gilian! Quando sei arrivato?» chiese sorridendo.
«Poco fa» poi rivolto ad entrambi i genitori aggiunse «Sedetevi qui con me, ho una novità».
Marito e moglie si guardarono e raggiunsero il ragazzo, che una volta seduti gli porse la busta.
Niccolò la prese e cominciò a leggere ad alta voce. Una volta finito, Eveline abbracciò il figlio con
forza e gli rivolse un ampio sorriso, mentre il marito gli diede una pacca sulla spalla facendogli le
congratulazioni.
Il giorno dopo Gilian si alzò presto, fece colazione con una macedonia di frutta fresca che gli aveva
regalato il padre e dopo aver sistemato la casa decise che avrebbe fatto jogging, così si vestì con la
sua tuta grigia preferita, prese l’MP3 per ascoltare la musica ed uscì di casa.
Dopo due ore di corsa ininterrotta era stanco morto, decise quindi di mettersi seduto su una
panchina del parco. Poco dopo gli passò davanti una donna con passo affrettato, sembrava essere in
ritardo per qualche appuntamento e lui si soffermò ad osservarla: aveva capelli castani, lunghi fino
alla schiena che ricadevano in boccoli leggieri, occhi color cioccolato, labbra carnose. Era vestita
con un tailleur rosso, scarpe con il tacco nere ed una borsa ed una pelliccia dello stesso colore. Era
truccata con una riga di eyeliner nero sugli occhi e le labbra erano colorate con un rossetto rosso
acceso, le unghie finte erano rosse e lunghe. Mentre camminava con passo cadenzato i suoi capelli
ondeggiavano qua e là e il vestito le sottolineava tutte le curve. Le lunghe gambe avanzavano una
 
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davanti all’altra velocemente e i tacchi risuonavano ad ogni passo. Il ragazzo l’aveva vista
molte volte, era la moglie del sindaco e spesso era accompagnata da una donna identica a lei,
probabilmente la sorella gemella.
                                                       Capitolo 2
ALESSANDRA:
Alessandra Toscani era una donna di 45 anni ricca, spavalda, superficiale, vanitosa e perfida. Aveva
girato il mondo e studiato in una delle più prestigiose scuole francesi. Poteva diventare qualsiasi
cosa nella vita, la sua famiglia era famosa a livello internazionale, ma dopo una giornata estiva,
quando aveva otto anni, era diventata chiusa e quando all’università aveva incontrato Lorenzo
Pisani ne aveva subito approfittato per sposarlo e tornare con lui tra i tranquilli quartieri di
Acquaviva.
Alessandra aveva passato molto tempo in quel paesino da piccola, la sua famiglia, per avere un po’
di tranquillità, aveva comprato una villa in campagna che veniva usata come residenza estiva. Lei
aveva trascorso molte estati da quelle parti, divisa tra il mare, casa sua e il centro del paese ed era
rimasta interdetta quando Lorenzo le aveva detto che abitava li: non lo aveva mai visto ed era
convinta di conoscere già tutti.
Quella mattina doveva incontrare sua sorella gemella Elena ed era in netto ritardo. Al parco
accelerò il passo e mentre transitava davanti ad una delle tante panchine notò un ragazzo
notevolmente sudato e stanco che la guardava. Lo riconobbe immediatamente: come moglie del
sindaco doveva conoscere tutti i cittadini, inoltre lui era abbastanza famoso per aver risolto molti
casi da detective.
Alessandra superò il parco, attraversò la strada, camminò per altri tre chilometri, girò l’angolo ed
arrivò alla fine della via. Si ritrovò sotto la casa di Elena e guardandosi un po’ intorno con aria
disgustata suonò il campanello: quel quartiere era orribile ai suoi occhi da intenditrice. La sua villa
in campagna, dove si era trasferita con il marito alla morte dei genitori, aveva tutti i possibili
 comfort. La sorella invece aveva deciso di abbandonare il lusso e trasferirsi in un piccolo palazzo
in quel quartiere a dir poco indecente per una del suo rango.
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Una voce femminile la distrasse dai suoi pensieri:
«Chi è?».
«Io, sciocca».
«Le dame come lei non usano questo gergo volgare».
Elena la stava di nuovo prendendo in giro con un falso accento francese. Odiava quando lo faceva.
«Fammi entrare e basta!» sbottò.
«Va bene, va bene, non c’è bisogno di essere scortesi».
Il portone scattò con un cigolio sinistro, Alessandra lo aprì ed iniziò a salire le scale che l’avrebbero
portata di fronte alla porta di legno che nascondeva il piccolo appartamento della gemella.
Elena se ne stava appoggiata allo stipite avvolta in uno scialle color cremisi, i suoi occhi color
cioccolato sembravano quasi risplendere sotto la luce fioca del sole che faticava ad entrare dalle
piccole imposte appoggiate sulle pareti.
«Sei in ritardo sorellina».
«Lo so, lo so».
«Dai, entra».
Elena fece un passo indietro e lasciò che la sorella superasse la soglia, chiuse la porta e si girò a
guardarla.
«Sei molto bella oggi» le disse accarezzandole i capelli.
«Io sono sempre bella, tu piuttosto mi sembri una poveraccia, ma perché ti ostini a fare la
trascurata? Siamo ricche, ricordi?».
«Come potrei dimenticarlo con te che me ne parli ogni volta che ne hai l’occasione?».
«Non so trattenermi, guardati! Indossi una tuta, ti rendi conto? Dei pantaloni! Non sai che ti
coprono le gambe? Dove sono i bellissimi vestiti che indossavi da piccola?».
«Ale ti prego, non fare la superficiale! Che problema hanno i pantaloni? E comunque da bambina
indossavo i vestiti solo perché mi obbligava la mamma»
«Faceva bene e non chiamarmi “Ale”, i nomi abbreviati sono da poveri e volgari».
 
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Elena guardò la sorella con aria avvilita. Lei aveva sempre preferito la comodità alla bellezza e
aveva sempre odiato quei stupidi vestitini che le lasciavano scoperte le gambe e le impedivano di
giocare come avrebbe voluto.
Si diresse in cucina con Alessandra al seguito e preparò un tè guardando dalla finestra gli stormi di
uccelli che volavano compatti. Era sempre stata invidiosa di loro, se avesse potuto avrebbe volato
per sempre senza scendere mai sulla terra ferma, librandosi nell’aria che le riempiva i polmoni.
Alessandra si accorse che la sorella era pensierosa:
«E adesso che c’è?».
Elena si fece scura in volto. La moglie del sindaco sapeva cosa significava quello sguardo e non le
piaceva affatto, così la fermò prima che iniziasse a parlare:
«No, so a cosa stai pensando. Non ne voglio parlare».
«Ale io ho visto quella donna con i miei occhi, vaga per le strade come se fosse un fantasma,
dobbiamo dirglielo!».
«No, no, assolutamente no! E ti ho detto di non chiamarmi “Ale”».
«Ma lei deve saperlo, ne ha il diritto».
«Stai zitta! Lei non deve sapere nulla, ormai è anziana, ha un’età troppo avanzata, non le rimane
molto tempo».
«Ma cosa dici? Avrà una settantina d’anni e comunque deve saperlo».
«Ok, basta, me ne vado!».
Alessandra si alzò di scatto, prese la borsetta appoggiata sulla sedia accanto a lei e corse via. Elena
rimase a guardarla con la teiera in mano: non sapeva cosa fare.
La moglie del sindaco superò il portone di ferro e camminò con passo affrettato per lasciarsi alle
spalle quel posto orribile. Discuteva spesso con sua sorella di questo motivo, ma non era pronta a
rivangare i fantasmi del passato e preferiva scappare ogni volta quando la situazione diventata
insostenibile.
Con un attimo arrivò alla sua Lamborghini rossa fiammante che aveva parcheggiato alla parte
opposta del parco e tornò a casa. Appena scese dall’auto il vento invernale le scompigliò i capelli.
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Si fermò e fece un lungo respiro: finalmente si trovava al posto giusto, a casa sua e tra le
sue cose.
Prese la borsa dalla Lamborghini e camminò nel prato fino alla porta d’ingresso, il
rumore dei tacchi attutito dall’erba.
Lorenzo la vide arrivare dalla finestra del suo studio e le andò incontro.
«Ciao tesoro mio».
«Caro, non vedevo l’ora di tornare a casa!».
«Che voleva tua sorella?».
«Non lo so».
«Ma come non lo sai? Sei andata da lei perché ti aveva chiamato per parlarti di qualcosa».
«Lo so, ma sai come siamo fatte noi donne, ci siamo messe a spettegolare finché non sono andata
 via».
Il marito la guardò con la sua solita aria da innamorato.
«Donne! Non le capirò mai» sbuffò prima di tornare nello studio.
Alessandra si tolse le scarpe sollevata ed iniziò a vagare scalza per la casa finché non incrociò
Dalila, una delle sue domestiche.
«Signora ha bisogno di qualcosa?».
«No Dalila, torna a pulire».
«Si signora».
La serva si allontanò e lei riprese a camminare senza una meta precisa, finché non decise che per
chiudere la mente si sarebbe distratta con lo shopping. Tornò in salotto, rimise le scarpe ed uscì di
casa dirigendosi con la macchina nel quartiere situato sopra alla spiaggia più grande del paese,
pieno di bellissimi negozi di vario genere.
                                                      Capitolo 3
GILIAN:
Gilian tornò a casa dopo la corsa con i muscoli tutti indolenziti, si infilò sotto la doccia lasciando
che l’acqua scorresse sul suo corpo stanco rinvigorendolo. Dopo venti minuti uscì dal bagno con un
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asciugamano legato alla vita, i muscoli in bella mostra e i capelli bagnati. Si diresse in cucina,
preparò un caffè e dopo aver bevuto tornò in bagno e si asciugò i ricci rossi ribelli. Dopo essersi
vestito andò in salotto e si piazzò davanti alla libreria: un centinaio di libri erano accatastati e
allineati uno accanto all’altro. Si diresse verso i gialli e scorrendo la mano su ogni volume
prese quello che cercava: Il segno dei quattro, il secondo libro su Sherlock Holmes.
La lettura lo catturò come al solito e non si accorse che le ore gli stavano scorrendo pigramente
sotto il naso. Quando chiuse il volume, che aveva già letto un milione di volte, erano le sette di sera.
Si alzò dalla poltrona per sgranchirsi le gambe pensando a quanto desiderava diventare un
investigatore affermato. Risoluto a raggiungere quel risultato si motivò e decise che l’indomani
sarebbe andato dal capo della polizia per farsi assegnare uno dei tanti casi che aleggiavano solitari
nelle cartelle, aspettando che qualcuno si occupasse di loro, e quel qualcuno sarebbe stato lui.
Dato che era quasi l’ora di cena e non aveva nessuna voglia di cucinare uscì di casa diretto in uno
dei ristoranti su lungomare.
Optò per una piccola trattoria di legno. Quando entrò vide Emma in piedi davanti ad un cameriere.
«Ciao Emma».
«Gilian, che ci fai qui?».
«Non mi andava di cucinare» ammise il ragazzo sorridendo, improvvisamente un po’ paonazzo in
volto.
«Anche io, prendiamo un tavolo insieme, ti va?».
«Ma certo».
Emma si girò verso il cameriere che nel frattempo si era allontanato, perso nel suo lavoro.
«Mi scusi, non sono più sola, può prendere un tavolo per due?» urlò per farsi sentire.
«Ma certo signorina».
Poco dopo i due vicini di banco sedevano uno di fronte all’altra in un tavolo di legno con vista sul
mare. Il caminetto acceso dall’altra parte della sala diffondeva un piacevole calore.
«Allora» iniziò Emma rompendo il silenzio «ti sono arrivati i risultati?».
«Certo».
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«Com’è andata?».
«30 su 30 e tu?».
«Bravissimo!» si complimentò la ragazza ammirata «io un po’ meno: 20 su 30».
«Complimenti Emma» disse Gilian sorridendole.
«Questa sera dobbiamo proprio festeggiare» rispose lei, poi si girò verso il cameriere che li
stava raggiungendo con due menù in mano.
«Mi scusi, può portarci una bottiglia di champagne?».
«Certo signorina, ecco a voi i menù».
I due ragazzi continuarono a parlare finché l’uomo non tornò con una bottiglia in mano.
«Ecco a voi, siete pronti con gli ordini?».
«Si, io prendo un piatto di riso alla pescatora» disse Gilian.
«Ed io un piatto di fettuccine con i funghi» continuò Emma.
«Molto bene».
Il cameriere segnò i piatti e tornò in cucina.
La serata passò con ilarità: Emma si versò addosso il bicchiere colmo di vino, mentre Gilian si
sporcò i pantaloni con il pesce che gli cadde dalla forchetta. I due ragazzi si divertirono e parlarono
molto, fino a quando non si fece tardi e rincasarono entrambi. Gilian, da vero gentiluomo,
accompagnò la sua amica a casa e prima di ripartire attese che fosse entrata nel grande portone di
ferro che si aprì e richiuse con un cigolio.
                                                          Capitolo 4
ALESSANDRA:
Aveva comprato cinque vestiti, due paia di scarpe con il tacco ed una borsa di Chanel, ora si sentiva
meglio ed era pronta a tornare a casa, ma prima decise di andare a prendersi un Ginseng. Passeggiò
fino al bar centrale ammirando le vetrine dei negozi, entrò, appoggiò le buste su una sedia e si
accostò al lungo bancone.
«Cosa desidera miss Toscani?» le chiese il bellissimo barman di ventisei anni che come tutti in
paese la conosceva come la moglie del sindaco.
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«Un ginseng caro Michael» rispose con la sua voce suadente.
Mentre il ragazzo le preparava la bevanda, Alessandra si mise seduta su uno sgabello rivestito in
pelle bianca e iniziò a scorrere il display del suo cellulare con le lunghe dita affusolate. Entrando su
Whatsapp si rese conto che sua sorella le aveva mandato un messaggio:
«Ale scusami per prima, non volevo spaventarti ma credo che parlare con lei sia la cosa più giusta
da fare, incontriamoci tra dieci minuti al centro commerciale per discuterne con calma».
Spaventata chiuse in fretta il cellulare, bevve il suo drink (che nel frattempo era stato appoggiato da
Michael sul bancone) tutto d’un fiato e corse a chiudersi in casa».
Affannata si chiuse in camera e si buttò sul letto come un’adolescente dopo una crisi
d’amore. Da quanto tempo teneva quel segreto nascosto? Troppo. Le serviva qualcuno con cui
sfogarsi, ma non poteva farlo, così annegò come sempre il turbamento nel vuoto in fondo al suo
cuore. Presto si rese conto che per la prima volta non le serviva a niente, si sentiva triste, sola e
disperata. Per un attimo pensò di andare in soffitta a rovistare tra le vecchie cose, però immaginò
che sarebbe stato peggio, così si mise a dormire anche se era solo il pomeriggio con le idee che le
frullavano per la mente.
Il giorno dopo si svegliò presto, suo marito era già uscito e appena si alzò i pensieri del giorno
prima vennero a galla. Per distrarsi accese il cellulare ma c’era un altro messaggio della sorella.
Passò la giornata in modo riluttante fino a quando non ce la fece più e salendo un gradino dopo
l’altro si diresse nella grande soffitta impolverata. Non entrava in quel posto da quel giorno lontano,
quando aveva solo otto anni e aveva cercato invano di nascondere ogni prova e ricordo che aveva
con il bambino che era stato suo amico. Entrò lentamente con passo cadenzato, l’aria era pesante e
l’unica luce presente proveniva da un piccolo lucernario in un angolo della stanza. Iniziò la ricerca
dello scatolone nel quale conservava le vecchie foto di bambina ed una volta trovato lo portò sotto
la luce per vedere bene. Rimase per molto tempo ad osservarla ma non riuscì ad aprirla da sola,
aveva bisogno di qualcuno al suo fianco o i ricordi, la nostalgia e il senso di colpa l’avrebbero
investita. Con calma scese di nuovo in cucina, prese il cellulare e chiamò Elena che rispose dopo
due squilli.
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«Alessandra?».
«Ho bisogno di aiuto».
«Cosa succede? Hai una voce così seria!».
«Io..».
«Cosa?».
Ci fu un momento di silenzio nel quale la paura di Elena crebbe inesorabilmente, mentre Alessandra
stava per rimangiarsi tutta quella telefonata. Alla fine prese un lungo respiro e disse tutto d’un fiato.
«Sono andata in soffitta».
Un altro minuto di silenzio, stavolta da parte della sorella.
«Perché hai bisogno di me?».
«Non ci arrivi sorellina?» rispose Alessandra in modo acido.
«Proprio no».
Fece un altro lungo respiro e Elena se la immaginò mentre alzava gli occhi al cielo prima
di spiegare.
«Non ce la faccio da sola».
«Arrivo subito».
Elena prese al volo la giacca e uscì di casa pronta a raggiungere la vecchia villa di famiglia. Il suo
cuore era pesante e la sua mente vagava nel passato.
Alessandra si gettò di peso sul divano bianca in volto e visibilmente stanca e spossata. Attese la
gemella mentre la sua mente tornava ai suoi otto anni e a quel tremendo pomeriggio estivo. I ricordi
si soffermarono sul viso rosato del bambino. Suonò il campanello. La domestica più giovane,
intenta a fare il bucato, corse ad aprire con il cestino pieno di panni in mano.
«Benvenuta signora».
«Grazie Isabella, ti prego chiamami “Elena”».
«Oh non potrei mai, mi dispiace disubbidirle».
«Va bene, stai tranquilla».
 
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Elena sorrise alla donna ed entrò in casa raggiungendo Alessandra. Appena la vide si accorse che
aveva qualcosa che non andava e poteva capire benissimo di cosa si trattava.
Le gemelle si guardarono e aspettarono che la domestica si allontanasse, poi un’aria greve cadde su
entrambe.
«Sei pronta?» chiese Elena.
Alessandra la fissò per un momento che sembrò infinito, poi si alzò, prese la sua mano e
rispose di si.
La scatola con le foto era ancora sotto il lucernario e sembrava aspettarle. Elena si avvicinò con
passo sicuro, mentre la sorella sembrava quasi tremare sotto il peso della vergogna.
Si inginocchiarono e con mani scosse da tremiti aprirono la scatola. Davanti ai loro occhi si
Estendevano un vecchio carillon d’oro, una collana di perle, un diario di pelle nera, una bambola
sporca e senza un occhio ed una busta con varie foto. Presero quest’ultima e riversarono le
immagini sul pavimento. Alessandra cominciò a scorrerle sudando freddo: nella prima c’era una
bambina con i capelli raccolti in due treccine che giocava in giardino con una bambola vestita con
un elegante vestitino rosa con un fiocchetto bianco sulla vita. Nella seconda due gemelle vestite
uguali intente a scartare i regali di Natale. In altre cinque foto, le gemelle giocavano o
abbracciavano un bambino dai capelli castani e gli occhi marroni.
Si soffermarono su quelle foto osservando il piccolo che aveva la loro stessa età. Alessandra
rabbrividì inesorabilmente. Elena alzò gli occhi sulla gemella.
«Dobbiamo parlare con quella donna».
Dagli occhi di Alessandra sgorgarono calde lacrime, le labbra le tremarono.
«No».
«Ma perché insisti tanto? Non ci farà nulla. Dobbiamo farlo, ci sentiremo meglio e la rispetteremo».
«Non è vero, chiamerà la polizia e ci metteranno in prigione».
«Non dire sciocchezze Ale, eravamo solo delle bambine, è stato un incidente ed abbiamo aspettato
anche troppo per confessarlo».
Elena si girò di scatto e cominciò ad andarsene.
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«Dove vai?».
«Da quella povera donna a raccontarle come sono andate davvero le cose».
«No!».
Alessandra urlò e spaventata raggiunse la sorella prendendola per un braccio. Elena provò a
divincolarsi mentre la gemella la strattonava e continuava ad urlare.
«Lasciami!».
«Non ci penso neanche!».
«Ormai ho deciso di dire tutto, non puoi chiudermi in questa villa e appena esco vado dalla
signora».
Gli occhi di Alessandra vennero trapassati da un moto d’ira e paura, in un raptus improvviso si
guardò intorno e vide una bottiglia di vetro vuota, appoggiata a pochi passi da lei su un vecchio
mobiletto. La prese con una mano, mentre con l’altra stringeva più forte che poteva il braccio della
sventurata. Si girò e la colpì in testa. Elena cadde sul pavimento svenuta. Alessandra raccolse un
coltello arrugginito e cominciò a colpirla con una violenza spietata. Dopo cinque coltellate sul petto,
la ferì con diversi calci in testa. Il corpo di Elena era ricoperto di sangue, era già morta da un pezzo
quando la gemella continuò a colpirla con tutto ciò che trovava intorno a lei. Alla fine, l’assassina si
riscosse. Non provava tristezza o sensi di colpa, ma solo un’insana paura che il corpo della gemella
venisse trovato e lei sarebbe stata accusata. Dopo attimi intensi di indecisione, decise di lasciare lì la
vittima e di tornare a prenderla quando fosse stata sicura di dove nasconderla. Scese piano le scale
guardandosi intorno e si chiuse in bagno per lavare le macchie di sangue. Quella sera a cena cercò
di essere impassibile davanti al marito.
«Com’è andata la giornata amore?».
«Bene e la tua?».
«Bene, ho partecipato all’inaugurazione del nuovo cinema in centro».
«Che bello!» sorrise.
«Isabella mi ha detto che oggi pomeriggio è passata Elena».
Alessandra cercò di rimanere calma mentre dentro di sé ribolliva di rabbia, con calma rispose.
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«Si, voleva raccontarmi un pettegolezzo riguardante una sua amica e ha preferito passare a trovarmi
piuttosto che chiamarmi sul cellulare».
«Voi donne state sempre a spettegolare» rispose l’uomo ridendo.
Quella notte, Alessandra ripensò al delitto. Isabella doveva essere allontanata e il corpo di Elena
nascosto. La cosa positiva era soltanto una: nessuno andava mai in soffitta. Nonostante ciò
l’assassina doveva muoversi o il corpo della gemella avrebbe iniziato a puzzare richiamando
l’attenzione.
                                               Capitolo 5
GILIAN
Quando si fu assicurato che Emma fosse entrata in casa, se ne andò.
Il giorno dopo si svegliò presto e dopo essersi vestito corse in commissariato.
«Buongiorno Giorgio» disse salutando il capo della polizia.
«Buongiorno Gilian, è successo qualcosa?».
«No, vorrei solo che mi trovassi un caso da risolvere».
«Per ora non ne abbiamo, ti chiamerò io appena se ne presenterà uno».
«Grazie».
«Lo hai fatto l’esame?».
«Si, ho preso 30».
«Bravissimo, ora te ne mancano solo due per prendere il diploma da investigatore vero?».
«Si, non vedo l’ora! Adoro questo lavoro».
Giorgio sorrise: il ragazzo gli ricordava lui durante i suoi primi anni di lavoro. Ora aveva cinquanta
anni ed era sposato da venticinque.
Gilian ringraziò ancora una volta quell’uomo che gli stava tanto simpatico, poi tornò a casa.
Quella giornata passò tranquilla.
L’indomani decise di andare a svagarsi in campagna dai genitori mentre aspettava la chiamata di
 Giorgio. Partì all’ora di pranzo ed arrivò mentre la madre stava cucinando.
«Sei arrivato finalmente» disse la madre mentre gli apriva la porta.
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«Scusa se ho fatto tardi mamma, stavo sistemando la casa».
Eveline gli scoccò un bacio sulla guancia e si pulì le mani piene di farina sul grembiule che aveva
attaccato alla vita. Niccolò era seduto sul divano e stava guardando la televisione.
«Ciao papà».
«Ciao Gilian, sono contento che sei venuto a pranzo da noi».
«Dopo se vuoi ti aiuto con gli animali».
«Piuttosto mi servirebbe un aiuto con l’orto, devo piantare i finocchi e i carciofi».
«Va bene papà» poi si girò verso Eveline «Mamma cosa hai cucinato? Ho una fame!».
«Gli gnocchi fatti in casa con il sugo e per dolce una crostata con la marmellata di ciliegie».
«I miei preferiti» rispose Gilian sorridendo.
Poco dopo la famiglia iniziò il pranzo e il ragazzo ricordò i vecchi tempi in cui da bambino sedeva
a tavola con i genitori sporco di fango dopo aver giocato tutto il tempo nella campagna circostante.
Dopo tre giorni gli arrivò una telefonata. Gilian stava passeggiando quando il suo cellulare iniziò a
suonare una canzone di Bob Marley, il suo cantante preferito, che aveva scelto come suoneria.
«Gilian?».
«Si, chi è?».
«Sono Giorgio, ti sto chiamando con il telefono di mia figlia».
«Ciao Giorgio, dimmi».
«Domani mattina passa in commissariato, ho una novità».
«Va bene, a domani».
Il ragazzo, curioso, si chiese se si trattava di qualche nuovo caso da risolvere. Rientrò in casa
contento e lesse Sherlock Holmes.
La mattina seguente, alle sette era già sveglio. Si lavò in fretta e si vestì con un paio di jeans, una
maglietta, un paio di scarpe e un giacchetto neri e fece un’abbondante colazione. Alle nove uscì
eccitato di casa e guidò fino al commissariato. L’aria invernale e la puzza di fuliggine, che usciva
dai camini delle case, gli penetrava nel naso facendolo starnutire.
Giorgio era seduto alla sua scrivania con indosso la divisa.
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«Ciao Giorgio».
«Gilian ben arrivato, accomodati» rispose l’uomo indicando al ragazzo una sedia abbandonata di
fronte alla scrivania.
«Grazie» disse sedendosi.
«Ti ho fatto venire perché volevi un caso da risolvere. Bene, ora ce l’hai».
«Racconta!» lo pregò il giovane con gli occhi illuminati.
«Ieri ci ha chiamato una signora dicendo che è un’amica di Elena, la sorella della moglie del
sindaco. A quanto pare lei ha provato più volte a chiamarla al cellulare, ma Elena non ha mai
risposto, così si è recata a casa sua e non c’era. Ha provato a contattarla per due giorni, però è
sparita, così ha chiamato la moglie del sindaco e nemmeno lei sa nulla».
«Vuoi che la ritrovo?».
«Proprio così».
«Ottimo, ci penso io».
«Benissimo, ti affido il caso. Per qualsiasi problema chiamami e ti metterò a disposizione tutte le
pattuglie, i cani e gli oggetti che ti servono».
«Grazie Bruno, riuscirò a risolvere questo mistero».
«Confido in te, sei molto bravo nel tuo lavoro ragazzo».
Il poliziotto gli diede una pacca sulla spalla sinistra e gli propose di andare a fare colazione, però
Gilian eccitato e con la pancia piena per tutte le cose che aveva mangiato a casa, rifiutò l’offerta e
se ne andò ringraziandolo.
                                                     Capitolo 6
ALESSANDRA
Alessandra stava facendo colazione da sola: il marito era andato a lavorare presto quella mattina e le
domestiche erano uscite per fare la spesa. Mentre sbocconcellava il suo cibo dietetico pensando a
dove poter nascondere il corpo della gemella, sentì il cellulare squillare. Con le sue scarpe tacco 15
raggiunse la vecchia borsetta di Gucci con nonchalance e dopo aver frugato un po’ all’interno trovò
finalmente l’apparecchio e rispose.
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«Pronto?».
«Alessandra sono Ginny, l’amica di Elena».
L’assassina si pietrificò.
«Dimmi cara» rispose con voce smielata fingendo una calma che non aveva.
«Tua sorella è a casa tua?».
Altro tremore.
«No, perché?»           .
«Non risponde al cellulare da due giorni e non è a casa».
«Se le fosse successo qualcosa?» domandò Alessandra impaurita da perfetta attrice.
«Lo penso anche io, forse è meglio chiamare la polizia».
Gelo totale.
 Sapendo che se avesse parlato con i poliziotti non avrebbe retto e si sarebbe fatta
Scoprire, rispose.
«Chiamali tu cara, io nel frattempo provo a telefonare alle altre sue amiche, forse è da qualcuna di
loro».
«Va bene, li chiamo immediatamente e ti faccio sapere se ci sono novità».
«Grazie, sono molto preoccupata!».
Quando riagganciò il cellulare, sentì il poco cibo che aveva mangiato risalirle insieme al sangue e
alla paura sempre più su, fino al cervello. Fu costretta a sedersi e a riprendere fiato. Doveva
assolutamente far sparire il corpo della sorella in un luogo dove nessuno l’avrebbe trovato e lei
 avrebbe continuato a vivere custodendo quel segreto come aveva fatto con il primo.
Improvvisamente, i ricordi di quel giorno estivo di quando aveva otto anni le tornarono in mente più
vividi che mai. Quella mattina lei e Elena avevano fatto colazione velocemente ed erano uscite dalla
villa correndo. Le gonne degli abiti che svolazzavano al vento.
Come tutti gli anni, loro e i genitori erano andate a passare l’estate nella villa e giocavano
ogni giorno con Tommaso, il loro amico estivo.
Il bambino le aspettava come sempre davanti al cancello della loro residenza.
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Tutti e tre corsero in un piccolo boschetto lì vicino dove erano soliti giocare.
«Che facciamo oggi?» chiese Tommaso.
«Giochiamo a Robin Hood, Tom» rispose Alessandra con gli occhi che le luccicavano.
«No, io non voglio!» si lamentò Elena.
«Sei una guastafeste! Perché non vuoi?» la rimproverò la sorella.
«Perché non mi piace, tu e Tommaso fate sempre Robin e Lady Marian e a me tocca il ruolo
di Lady Cocca, non è giusto!».
I tre bambini si ispiravano sempre al cartone Disney di Robin Hood per i loro giochi, era il loro
preferito.
«Ti prego, se accetti oggi pomeriggio puoi mangiare la mia merenda».
Elena ci pensò un attimo, la proposta le sembrava soddisfacente. Accettò.
Dopo aver giocato, i tre discoli si trovarono sui margini del lago che attraversava la città. Era
enorme per loro, così rimasero a fissarlo sbalorditi. Decisero di rimanere lì.
«A cosa giochiamo ora?» domandò Alessandra.
«Ai pirati» risposero insieme Elena e Tommaso.
«No, sono rozzi!» si lamentò la bambina facendo una smorfia schifata. Era troppo schizzinosa per
sporcarsi il vestitino e per ricoprire il ruolo di un maschiaccio puzzolente come pensava che fosse
un pirata.
I tre piccoli si rincorsero spingendosi a vicenda e ridendo per un po’, fino a quando le due gemelle
diedero allo stesso tempo una spinta al loro amico che cadde in acqua. Annaspò per un po’ cercando
di uscire, però la corrente lo allontanò dalla riva e dalle sue amiche e poco dopo affogò. La polizia
aveva cercato per un po’ di risolvere il mistero e alla fine aveva decretato che il bimbo era caduto
da solo ed era annegato. Le due gemelle non avevano mai raccontato a nessuno che erano state loro
a buttarlo in acqua per sbaglio e la mamma di Tommaso, da quel giorno, visse nel dolore e nella
frustrazione e tutt’ora sembrava un fantasma chiusa com’era in sé stessa e sempre pallida e
dolorante.
Alessandra si riscosse con un brivido che la percosse tutta. Era ancora sul divano con le lunghe
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gambe ripiegate insieme. Improvvisamente le venne un’idea. Si mise gli occhiali da sole che le
riparavano gli occhi dal vento, indossò una pelliccia pesante ed uscì ondeggiando qua e là, come
una modella sulle sue scarpe con il tacco color oro brillanti. Prese la macchina e guidò fino ad un
quartiere nel lato est del paesino.
Arrivò fino ad un negozio di pompe funebri e senza farsi vedere da nessuno entrò. La porta si
spalancò con un cigolio sinistro. Un uomo con lunghi baffi neri era seduto dietro ad una scrivania di
mogano vestito con uno smoking elegante e la fissava con aria rude.
«Salve» disse Alessandra mettendosi seduta su una sedia di fronte all’uomo.
«Buon pomeriggio» rispose lui con la sua voce cavernosa.
«Ho bisogno di una lapide e di un posto al cimitero».
«Ma certo, i posti rimasti sono tre finché non sarà pronta la parte nuova del cimitero che hanno già
iniziato a costruire. Dove lo vorrebbe?».
«Al centro».
«Si, uno è lì. Ma lei non è la moglie del sindaco?».
Alessandra aveva il cuore in gola, sperava di non essere riconosciuta.
«Si, è morto un mio caro amico».
«Mi dispiace molto signora Toscani».
«Non si preoccupi, passiamo alla lapide».
«Ma certo, mi dica nome e cognome e mi porti una foto del suo amico».
«Si chiamava Filippo Abati, la foto la porterò domani, ora non ce l’ho con me».
«Va bene» rispose l’uomo appuntandosi tutto su un foglio «Vuole qualche frase o citazione sopra la
lapide?».
Alessandra ci pensò un po’, poi in un moto artistico e nostalgico rispose.
«Vorrei che ci fosse questa frase: “il tempo passa, i ricordi no”».
L’uomo scrisse anche quest’ultimo elemento. Lei lo guardò e un’idea improvvisa le baluginò
in mente.
«Mi scusi, il mio amico non ha voluto nemmeno un funerale per la sua morte, quindi vorrei che
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nessuno lo venisse a sapere, la pagherò di più se ce ne sarà bisogno».
L’individuo annuì poco convinto, gli sembrava una cosa strana. Alessandra se ne accorse e gli passò
cento euro.
«Questo lo prenda come un ringraziamento per la sua gentilezza, quando tutto sarà pronto mi dirà il
prezzo e le darò gli altri».
L’uomo prese i soldi e i suoi lineamenti si addolcirono. L’assassina soddisfatta se ne andò.
Mentre tornava a casa ripensava alla sua idea: nascondere il corpo della sorella in una bara e
sotterrarla nel cimitero cittadino con il nome e la foto di un uomo, non solo inventato, ma del sesso
opposto, le sembrava geniale. Nessuno l’avrebbe trovata.
Una volta rientrata salutò il marito e pensò a come poter prendere una foto da mettere sulla lapide.
Accese il computer portatile e cominciò a scorrere le fotografie che aveva salvato sui suoi viaggi e
il suo matrimonio.
Il marito le si avvicinò alle spalle facendo attenzione a non farsi sentire e con le mani le tappò gli
occhi.
«Indovina chi sono?» chiese modificando la sua voce.
Alessandra ebbe un sussulto di spavento.
«Tesoro mi hai fatta spaventare!».
Il marito la lasciò e si mise al suo fianco con in mano una rosa.
«Grazie mille!» rispose la donna sorridendo con sincera ammirazione e prendendo il fiore.
Lorenzo le diede un bacio sulla guancia e guardò lo schermo del computer.
«Hai nostalgia?» domandò alla moglie ridendo affettuosamente.
«Si, certo, è per questo che sto vedendo le foto» rispose Alessandra sbrigativa, con un nodo in gola.
«Ti lascio ai tuoi ricordi allora e vado a preparare la cena».
«Vai a fare cosa? E le domestiche?» domandò accigliata la donna girandosi di scatto.
«Stanno facendo altri lavori, preferisco dargli una mano poverine».
«Sai come la penso, sono pagate per fare questi lavori!».
«E va bene, allora ti cucinerò tutti i tuoi piatti preferiti ed apparecchierò con le candele e i fiori sul
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tavolo, prendila come una cena romantica» rispose il sindaco facendole l’occhiolino.
Alessandra si arrese e il marito si allontanò. Continuò a guardare foto fino a quando non arrivò a
quelle dei suoi studi in Francia. Una ritraeva lei, i suoi compagni di classe e il preside nel cortile
verdeggiante: erano tutti sotto un albero e sorridevano. Era il giorno della laurea.
Pensò che il preside fosse perfetto, nessuno lo avrebbe riconosciuto in quel piccolo
paesino. Premette sullo zoom fino ad ingrandire la foto al volto del vecchio uomo e la ritagliò, poi
stampò il tutto.
Contemplò la foto e si ritenne soddisfatta: Adrien, il preside, era stempiato, aveva gli
occhi neri e sorrideva guardando l’obiettivo davanti a lui. L’assassina spense il computer e nascose
la fotografia nel portafoglio, dentro la borsa, poi si recò in salotto. Il tavolo era apparecchiato con
una tovaglia rossa, un mazzo di fiori troneggiava al centro e due bicchieri di cristallo risplendevano
 di fronte a due piatti ancora vuoti. In quel momento entrò Lorenzo con un vassoio in mano pieno di
leccornie.
Alessandra, vedendolo, si sentì improvvisamente appagata e felice, finché non pensò al corpo della
sorella sdraiato sul pavimento della soffitta, sopra le loro teste. »
                                                    Capitolo 7
GILIAN
L’investigatore iniziò immediatamente a pensare al caso. Tornò a casa e si chiuse nel suo
studio. Fece subito il punto della situazione parlando ad alta voce.
«Quindi, sappiamo che una donna è sparita improvvisamente, la sorella non sa nulla e nemmeno
una delle sue amiche. Dovrei parlare con la moglie del sindaco».
Dopo viarie riflessioni decise che per iniziare avrebbe parlato con la gemella della vittima. Era
ormai sera, perciò andò a dormire.
La mattina seguente, verso le undici, si avviò alla villa con la sua macchina nera. Suonò e una
donna gli aprì la porta e lo fissò.
«Chi è lei?» chiese Isabella.
«Sono l’investigatore Gilian Lunetta, vorrei parlare con la moglie del sindaco».
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«Mi dispiace, la signora è uscita».
«Sa quando tornerà?».
«No, non so nemmeno dov’è andata».
Il ragazzo rimase deluso.
«Va bene, le lascio il mio numero di telefono scritto su un foglio, quando torna le dica di
chiamarmi».
«Certo signore».
Prese un post-it dalla tasca della sua giacca con una piccola penna e scrisse, poi lo consegnò alla
domestica e le fece un sorriso di saluto prima di tornare alla sua Audi e ripartire.
Mentre guidava pensava alla vittima, ricordava di averla vista poche volte, vestita sempre con delle
tute comode e i capelli scompigliati. In quei casi era completamente diversa dalla sorella. Arrivò
alla spiaggia, parcheggiò e si incamminò. Quel giorno non faceva particolarmente freddo e del
vento neanche l’ombra. Passeggiò sulla sabbia morbida fino a trovare un punto comodo in cui
sedersi e rimirò le onde che si infrangevano sugli scogli e l’infinito del mare. Rimase molto così, a
pensare, quando all’improvviso arrivò Emma.
«Gilian!».
Il ragazzo trasalì.
«Emma, che cosa ci fai qui?».
«Ti ho messo paura eh?» rispose ridacchiando.
L’investigatore divenne tutto rosso in volto.
«Ho notato la tua macchina mentre passavo a piedi e ho capito che eri qui da qualche parte, così ho
pensato di raggiungerti».
«Bene, sono felice!».
«Cosa stavi facendo? Sembravi così pensieroso».
«Mi hanno affidato un caso e ci stavo rimuginando sopra».
«Davvero? Racconta!» rispose Emma eccitata mentre si sedeva accanto a lui.
Gilian le raccontò tutto ed Emma lo lasciò parlare senza mai interromperlo, solo alla fine parlò.
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«L’ultima volta che l’ho vista era appena uscita di casa, mi sembra che fosse alcuni giorni fa».
«Dove stava andando?».
«Non lo so, ma sembrava agitata e camminava velocemente, come se avesse fretta».
«Mi sembra molto strano».
«Hai detto che nemmeno la moglie del sindaco sa nulla? Credo sia una bugia, sono gemelle
dopotutto, non dovrebbero essere unite da qualche strano legame e sapere sempre tutto una
dell’altra?».
«A quanto pare no» rispose ridendo.
«Che fai, mi prendi in giro?» chiese Emma ridendo a sua volta e iniziando a dare dei piccoli pugni
sulla spalla dell’amico.
I due si misero a ridere e a scherzare e per un attimo Gilian dimenticò i suoi problemi e si rilassò
completamente sotto i sorrisi della ragazza.
Quella sera cenarono insieme a casa dell’investigatore. Ordinarono due pizze e continuarono a
parlare del mistero.
«Secondo me è stata uccisa».
«Perché?» domandò il ragazzo.
«Era una donna semplice e le piaceva il posto in cui viveva, al massimo sarebbe andata via per
qualche viaggio e in quel caso avrebbe avvertito qualcuno».
«E secondo te chi l’avrebbe uccisa e per quale motivo?».
«Il motivo non lo so, per quanto riguarda l’assassino credo che non sia stata la sorella».
«Mi sembra ovvio».
«No, ma cosa hai capito? Io non sospetto della sorella non perché era una sua parente, ma perché mi
mette i brividi, sarebbe troppo scontato se fosse lei l’assassina».
«Emma secondo me vedi troppi film» e scoppiò nuovamente a ridere.
«Non è colpa mia se mi piacciono!» provò a difendersi la ragazza prima di seguire nella risata il suo
interlocutore.
Il giorno dopo Gilian chiamò Giorgio.
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«Pronto?».
«Ciao Giorgio, sono Gilian».
«Ciao Gilian, dimmi».
«Mi servirebbe una squadra di ricerca, dobbiamo prima di tutto sapere se quella donna è viva o no».
«Ma certo, oggi pomeriggio li metto subito all’opera».
«Grazie».
«Di nulla, se vuoi partecipare alle ricerche con loro vieni ogni mattina alle otto».
«D’accordo».
Il ragazzo fu molto impegnato nei giorni seguenti, tornò solo un’altra volta a casa del sindaco ma
Alessandra non c’era ed una sua chiamata non arrivò mai.
Un giorno, la madre di Gilian andò al cimitero per mettere dei fiori sulla tomba del padre sepolto lì,
nel paese. Dopo aver fatto ciò che doveva, si rese conto di un nuovo particolare: a due lapidi di
distanza da quella di Dorian, suo padre, ce n’era una nuova e l’uomo nella foto le sembrava
famigliare anche se il nome non lo aveva mai sentito.
L’investigatore, il giorno dopo si recò con la sua Audi a casa dei genitori per pranzare con loro
prima di continuare le ricerche.
«Ciao a tutti!» urlò aprendo la porta socchiusa.
«Tesoro!» rispose la madre affacciandosi dalla porta della cucina.
«Ho una fame da lupi ed una novità».
«Il pranzo sarà pronto tra pochi minuti, racconta!».
«Aspettiamo anche papà, così non dovrò ripetere tutto da capo».
Dieci minuti dopo entrò in casa Niccolò tutto sporco di olio motore.
«Cosa è successo caro?» domandò Eveline vedendo il marito.
«Ho passato due ore a sistemare il trattore».
«Vai immediatamente a fare la doccia o non ti faccio mangiare».
Niccolò alzò gli occhi al cielo, ma dopo anni di matrimonio aveva imparato che non gli conveniva
disubbidire alla moglie, perciò si recò immediatamente al piano di sopra. Scese dopo venti  minuti
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profumato e con i vestiti puliti e il pranzo iniziò.
Eveline iniziò a servire la lasagna mentre il figlio e il marito la seguivano con gli occhi e
l’acquolina in bocca.
«Allora queste novità?» chiese mentre riempiva il piatto di Gilian.
Il ragazzo cominciò a raccontare del mistero che gli era stato affidato e quando ebbe finito di
spiegare ogni particolare, la donna rispose.
«Sono così fiera di te!» poi dopo alcuni minuti si accorse di una stranezza.
                                                      Capitolo 8
ALESSANDRA:
Il giorno dopo, la donna si recò nuovamente alle pompe funebri. Quando entrò, la porta risuonò il
suo solito cigolio sinistro che la fece rabbrividire.
«Sono venuta per portarle la foto».
«Bene, tra due giorni la lapide sarà pronta».
«Grazie».
«Le costerà £150».
«Pagherò a lavoro finito».
L’uomo la guardò con un ghigno ed annuì infastidito.
Alessandra uscì dal negozio lasciandosi alle spalle lo strepito della porta e delle sue scarpe con il
tacco che risuonavano ad ogni passo. Vagò per un po’ incerta e alla fine decise di raggiungere il
mare. Si tolse le scarpe tenendole in mano e si mise seduta su un punto isolato della spiaggia per
concentrarsi e pensare. Fissava le onde che danzavano davanti a lei con lo stesso ritmo. Un
gabbiano atterrò a pochi passi per poi riprendere il volo. I suoi pensieri erano lontani, persi negli
abissi della mente. Come una barca sul mare, solcavano gli antichi ricordi e i lontani rancori per poi
avvicinarsi sempre più verso la sorella e la sua rabbia cieca nata dal nulla. Non capiva perché si
comportava in quel modo: lo era sempre stata, anche da bambina. Il suo carattere era sempre stato
un po’ negativo, eppure ricordava un tempo in cui la gioia, la compassione e l’amore aleggiavano
 
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nel suo cuore. Perché le cose erano cambiate? E soprattutto quando lo avevano fatto?
Dal giorno in cui era accaduto quell’incidente con Tommaso, la sua vita aveva iniziato a scivolarle
lentamente dalle mani. Era semplicemente stata la marionetta dei suoi genitori e dopo la loro morte
era passata nelle mani della sorella. Elena. Erano gemelle, eppure così diverse, come il giorno e la
notte. Se a Alessandra piacevano le cose raffinate, a Elena le cose rozze. Se a Alessandra piaceva il
mare, a Elena la montagna. Se a Alessandra piaceva stare sola, a Elena piaceva stare sempre in
gruppo.
 La odiava.
Rimuginò a lungo su queste cose, finché la paura dell’omicidio superò la sua furia e Alessandra si
rese conto che non poteva lasciare il corpo della gemella in soffitta in attesa della lapide. Ormai
erano passati troppi giorni.
Pochi minuti dopo risolse anche questo problema: si alzò in piedi, si rimise le scarpe e guidò fino al
centro del paese. Lasciò la macchina nel parcheggio della chiesa ed entrò frettolosamente. A
quell’ora la Messa era finita ed oltre a lei non c’era nessun altro. Si avvicinò all’altare con passo
risoluto e deviò all’ultimo entrando in una porticina al lato. Camminò fino all’ufficio di Don
Giuliano, bussò ed entrò senza aspettare la risposta del parroco.
«Alessandra, cosa ci fai qui?».
I due erano amici sin da piccoli, si fidavano ciecamente l’uno dell’altro e da bambini si coprivano
per ogni marachella commessa. Giuliano aveva lo stesso carattere di Alessandra, era diventato prete
solo perché altrimenti avrebbe vissuto in mezzo ad una strada e con la finzione si era accaparrato la
fiducia di tutti i cittadini. La sua amica era l’unica a conoscerlo per quello che era davvero e lo
accettava lo stesso, era anche per questo motivo che l’uomo la adorava in un modo per certi versi
eccessivo.
«Devo chiederti un aiuto molto importante».
L’uomo si avvicinò alla sua adorata e tese l’orecchio per sentire le novità: la moglie del sindaco non
andava mai in chiesa e quando gli chiedeva aiuto era successa una “marachella”.
«Problemi con la giustizia?».
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«Diciamo di si».
«Hai rubato qualcosa?».
«Peggio».
Giuliano la guardò intensamente negli occhi, Alessandra non resse il confronto e li abbassò.
«Se la mia leonessa non riesce a guardarmi in faccia deve essere proprio qualcosa di grave!».
«Ho assassinato mia sorella».
La donna sputò quelle parole come se avesse il fuoco in bocca e dopo averle pronunciate si sentì per
un momento meglio, come se il fiume che stava ingabbiando in sé stessa fosse improvvisamente
arginato.
Giuliano non batté ciglio, si limitò a chiedere.
«Vuoi che ti aiuti a nascondere il corpo?».
«Bingo mio caro Sherlock, so già dove nasconderlo ma ho bisogno del tuo aiuto».
Alessandra cominciò a raccontargli tutto e alla fine Giuliano accettò di darle una mano. La sua
principessa delle tenebre era in pericolo, non l’avrebbe abbandonata neanche a costo della vita.
Il giorno dopo, la donna aspettò che la casa fosse completamente libera, chiuse a chiave ogni porta,
abbassò tutte le finestre e con passo felpato iniziò a salire i gradini che l’avrebbero portata nella
buia soffitta incriminata. Entrò. Il corpo della sorella giaceva lì dove lo aveva lasciato, il sangue lo
aveva tolto qualche giorno prima e l’arma del delitto buttata di nascosto in un cestino a caso
dall’altra parte del paesino avvolta in una busta di carta, così che non sarebbe stata trovata.
Con cautela infilò i guanti, guardò con disprezzo la sorella e la adagiò in un sacco nero. Scese le
scale, uscì dal retro ed entrò in fretta e furia in macchina chiudendo il sacco nel bagagliaio. Guidò
con un’ansia sempre crescente fino alla piccola chiesa. Era inverno e alle cinque del pomeriggio la
luce scompariva all’improvviso lasciando spazio al suo contrario. Alessandra parcheggiò la
Lamborghini di fronte ad una porta secondaria della chiesa, Giuliano la stava aspettando. I due
entrarono nella piccola cappella collocata alla sinistra dell’edificio principale portando il sacco
insieme. Una volta entrati deposero l’involto maligno a terra ed estrassero piano la vittima. Una
 
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bara era già pronta in un lato della stanza. Giuliano sistemò la povera Elena nella cassa da morto,
quello che sarebbe stato il suo giaciglio per sempre.
I due amici si guardarono, si presero per mano ed uscirono di soppiatto. Giuliano l’abbracciò nel
buio del pomeriggio avanzato. Alessandra lo guardò negli occhi ringraziandolo di cuore con lo
sguardo, salì in auto e tornò a casa.
 Quella notte fu tormentata da incubi che sembravano non voler mai cessare.
La mattina seguente si svegliò presto, madida di sudore. Suo marito le dormiva accanto, poteva
sentire il suo respiro andare e venire con un ritmo lento e sempre uguale. Scese in cucina per fare
colazione, una delle serve era già ai fornelli.
«Buongiorno signora».
«Buongiorno Caterina, cosa cucini?».
«Frittelle con frutti di bosco e cioccolata squagliata sopra».
«Mi farai prendere dieci chili» rispose con tono acido.
«Mi scusi signora, desidera qualcos’altro?».
«cereali dietetici ed una macedonia, quella robaccia puoi anche buttarla».
Caterina smise di cucinare la squisitezza di poco prima, gettò tutto nel secchio con il cuore in gola
per lo spreco ed iniziò a preparare il cibo ordinato.
Alessandra mangiò con poco gusto, si fece una doccia veloce, si vestì con un tailleur blu ed un paio
di scarpe con il tacco bianche ed uscì di casa. Pochi minuti dopo era davanti al negozio funebre.
«Buongiorno» disse entrando nella stanza.
L’uomo baffuto la salutò con un cenno del capo e le indicò un armadietto.
«La lapide è lì, ora la prendo».
Si alzò, raggiunse il grande mobile in acciaio ed aprì le due ante. La pietra sepolcrale giaceva su una
delle tre mensole. Alessandra l’ammirò: era di media grandezza, in alto a sinistra c’era la foto del
suo ex preside in bianco e nero, poco più sotto il nome e al centro la frase che la donna aveva scelto.
Mancava solo una cosa e l’assassina se ne accorse solo in quel momento.
«Scusi, la data di nascita e di morte non ci sono».
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«Me ne sono accorto solo ieri, avevo dimenticato di chiederglielo, me la dica ora».
Alessandra improvvisò due date credibili.
«Nacque il 20 ottobre 1922 ed è morto il 10 novembre 2012».
L’uomo prese uno scalpello ed incise sul fondo della lapide le date. Finì in un attimo.
Alessandra pagò, ringraziò e chiese all’uomo di portare la pietra funeraria quel pomeriggio verso le
sei al cimitero.
Il resto della giornata passò normalmente. Alle cinque e mezza di quel pomeriggio, Alessandra si
recò al cimitero, arrivò alle sei meno dieci. Iniziò a piovere incessantemente, i tuoni squarciavano
l’aria.
Giuliano arrivò dopo cinque minuti con la macchina che guidava di solito ai funerali e nella quale
aveva depositato la bara. Il venditore di lapidi si presentò alle sei precise.
Quando arrivò salutò la sua cliente e solo dopo il parroco, poi, dopo essersi tutti accordati, lui prese
la bara sul davanti, mentre Giuliano la afferrò sul fondo e con un segnale se la tirarono sulle spalle.
Alessandra apriva il corteo, superò il cancello di ferro e si incamminò verso il posto nel quale
doveva essere messa la cassa. Mentre avanzava passò davanti alle lapidi dei genitori e non riuscì a
guardarle, continuò dritta cercando di tenere la testa alta davanti a sé. Il terreno era diventato
scivoloso, il fango ai lati della stradina iniziava a sciogliersi e ad accerchiare le scarpe
dell’assassina. Quando finalmente arrivarono al punto stabilito, i due uomini misero a terra la bara
con un sospiro di sollievo, l’uomo baffuto iniziava ad essere stanco, la cassa era pesante e la pioggia
si univa al sudore appiccicandogli i capelli al viso. Il parroco depose la bara nel posto assegnato e
l’altro individuo sistemò la lapide: il lavoro era terminato.
Il venditore salutò e se ne andò. Alessandra e Giuliano rimasero per qualche tempo mano nella
mano, sotto la pioggia, davanti a quella pietra.
                                                   Capitolo 9
GILIAN:
Quando andò via dalla casa dei genitori era ormai quasi sera. Guidò fino a casa, si rilassò leggendo
come faceva ogni giorno e due ore dopo preparò la cena.
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Mangiò il riso con gli spinaci mentre guardava la televisione e verso le undici di sera si addormentò
nel suo letto matrimoniale.
Il giorno dopo uscì per una passeggiata, quando incontrò la madre all’inizio del mercato.
«Mamma!» la salutò mentre le si avvicinava.
«Gilian! Buongiorno, devo dirti una cosa».
«Cosa?».
«Andiamo in un bar, ti offro la colazione».
Mamma e figlio attraversarono la strada, camminarono un po’ ed entrarono nel primo bar che
videro. Si misero seduti ad un tavolo nell’angolo della stanza, non c’erano molte persone.
«Vado a prendere qualcosa e vengo, cosa desideri?».
«Un caffè, ma non scomodarti mamma, vado io».
Gilian si alzò di scatto e dopo aver fatto alla madre la stessa domanda che le aveva fatto lei, andò al
bancone.
«Buongiorno Amanda».
«Gilian! Sei venuto ad ordinare qualcosa?».
«Un caffè ed un tè al limone».
«Arrivano!».
Le bibite furono pronte in dieci minuti, il ragazzo prese le tazze e tornò al tavolo.
«Tieni mamma» disse porgendole il tè.
«Grazie tesoro».
Eveline bevve qualche sorso e solo in seguito iniziò a spiegare al figlio ciò che aveva da dire.
«Ieri mattina sono andata al cimitero ed ho notato una cosa strana».
«Cosa?» domandò Gilian con curiosità.
«C’era una lapide con la foto di un uomo che sembrava il preside di un’importante scuola in
Francia, inizialmente non ero sicura, ma poi ne ho avuto la certezza perché lo conoscevo bene, è
così famoso che in Francia lo conoscono tutti e quello nella foto doveva essere per forza lui anche
se il nome non coincideva».
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«Che ci fa la foto di un preside francese in una tomba di questo paesino?».
«Mi sono chiesta lo stesso, poi ho ripensato al caso che devi risolvere».
Gilian guardò la madre con occhi sbarrati.
«Mi stai dicendo che la vittima è stata uccisa ed è stata nascosta in una tomba fasulla?».
«L’ho pensato, non posso esserne sicura ovviamente».
«Se fosse così l’assassino sarebbe geniale, ma chi è?».
«La moglie del sindaco non ha frequentato quella scuola francese dove lavorava il preside in
questione?».
«Santo cielo..».
Gilian era sbalordito, incredulo.
«Credi sia stata la gemella ad ucciderla? Sarebbe terribile!».
«Non voglio insinuare nulla tesoro mio, ma converrai con me che questa storia è strana, quasi
ambigua».
«Si, ma perché lo avrebbe fatto?».
«Come faccio a saperlo? Non so nemmeno se è così, ho solo fatto una supposizione».
«Hai ragione, ne parlerò con la polizia».
Eveline e suo figlio finirono la colazione inizialmente in silenzio e poi parlando d’altro.
Quel pomeriggio, Gilian andò alla caserma.
«Giorgio devo parlarti» esordì entrando come una furia nella stanza.
«Dimmi» rispose l’uomo preoccupato.
L’investigatore iniziò a raccontare ciò che aveva sentito dalla madre. Quando concluse, Giorgio lo
fissò allibito.
«Non è un’idea infondata, dobbiamo scoprire però se è vero ed il movente».
«Lo so, come possiamo fare?».
«Potremmo chiedere a Lucas se può dissotterrare la tomba, così potremmo vedere il corpo».
«Chi è Lucas?».
«Il padrone del negozio di tombe funebri, è lui che si occupa di fare le lapidi e di togliere le tombe
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da dove sono sotterrate».
«Si, è una buona idea, ci passo immediatamente e se scopro qualcosa ti chiamo».
Detto questo, Gilian uscì, raggiunse la sua Audi e guidò fino al negozio di pompe funebri. Quando
entrò all’interno, la porta si aprì con un cigolio sinistro ed un uomo baffuto alzò lo sguardo, seduto
dietro ad una scrivania.
«Buongiorno».
«Signor Lucas?».
«Si, lei chi è?».
«Sono l’investigatore Gilian Lunetta, sto lavorando su un caso ed ho bisogno del suo aiuto».
«Per cosa?» chiese Lucas guardando il suo interlocutore di sottecchi.
«Dovrei dissotterrare una tomba, può aiutarmi?».
«Di chi è?».
«Un uomo».
«Mi dica il nome».
Gilian chiamò la madre con il cellulare e le chiese se ricordava il nome che aveva letto sulla tomba,
Eveline rispose.
«Si chiama Filippo Abati» disse il ragazzo guardando Lucas.
L’uomo lo fissò, riconobbe il nome dell’amico di Alessandra e gli sembrò immediatamente
una cosa strana che non ci fosse stato nessun funerale e che non si fosse presentato nessuno alla
sepoltura. Capì che qualcosa non andava, così non volle impicciarsi temendo il peggio.
«Mi dispiace signor Lunetta, non posso aiutarla».
«Perché?».
Lucas inventò qualche scusa e cacciò l’investigatore fuori dal negozio. Gilian rimase molto
sorpreso, comprese che l’uomo non gli stava dicendo la verità e dopo un attimo di riflessioni salì in
macchina diretto a casa di Alessandra per porle le fatidiche domande e concludere quella storia
maledetta.
Mentre guidava, era immerso nelle sue riflessioni sul caso e non si accorse che stava avanzando
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sulla corsia contraria alla sua. Un camion si avvicinò verso di lui ad una certa velocità. Gilian vide
Elena davanti a sé, gli stava porgendo una mano, il ragazzo l’accettò. In quell’istante lo scontro
frontale con il camion prese vita. L’Audi si accartocciò sotto la forza distruttrice del gigante di
fronte a lei. Gilian non si accorse di nulla, come se fosse già morto nel momento in cui aveva
accettato la mano della gemella assassinata. Poco tempo dopo, quando i soccorsi chiamati dai
passanti che avevano assistito impotenti alla scena stavano arrivando, il giovane stava già volando
 mano nella mano con la sua nuova amica, sopra le nuvole e sempre più su, con una tranquillità
divina ed una serenità mai provata.
                                                   Capitolo 10
Alessandra stava camminando vicino ad un basso muretto che la divideva dalla spiaggia. Il suo
solito tailleur alzato impercettibilmente dal vento gelido che soffiava con tutta la forza a sua
disposizione. Si sistemò lì aspettando il tramonto. Tremava.
Il sole iniziò a scivolare pigramente verso il basso. Il cielo era rosso, sterzato di macchie arancioni
qua e là. Alessandra si alzò in piedi e si girò a fissarlo, come se volesse accompagnare la sua scesa.
Mentre se ne andava completamente, l’assassina pensò che la palla infuocata assomigliava alla sua
vita: destinata a scivolare via da lei. Pensò che in fondo non era stata mai felice, che il turbamento e
l’odio l’avevano sempre accompagnata prendendola per mano ed aiutandola in ogni passo: genitori
invisibili.
Il cielo si fece improvvisamente scuro, la prima stella della sera spuntò in lontananza.
Alessandra continuò a fissarla. Il vento che giocherellava con i suoi capelli. La vita che sembrava
immobile, vuota.
 
 
 
 




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