That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Mirzam - MS.001
- Legami di Sangue
Mirzam
Sherton
località sconosciuta - febbraio 1971
Cammino senza meta sulla spiaggia, a piedi
nudi… Una rosa ormai sfiorita in mano…
Che cosa diavolo volevo ottenere?
Il vento mi gela la pelle… I vestiti abbandonati a
terra. Non m’importa che l’acqua li trascini via e
li rovini… Avanzo a occhi chiusi con solo una grande voglia
di urlare… Una fatica incredibile a trattenermi
dall’urlare… Il tuo nome? Il mio dolore? Quello
che ho sempre provato per te? Le peggiori maledizioni che conosco? Non
lo so, ma voglio urlare... Fino a farmi esplodere i polmoni e
morire… Così… Solo morire…
Ti ho visto oggi, dalla cima della collina, nascosto tra gli alberi
come un ladro… Avevi il tuo bell’abito da sposa e
ridevi nel parco, tra i fiori e gli invitati… E nemmeno
l’ombra di un turbamento… Nemmeno un
ripensamento…
Siamo solo polvere... Solo ricordi e
foto bruciate... Solo pagine strappate…
Deglutisco, sono talmente sbronzo che potrei svenire e annegarmi
ormai…
Lui era accanto a te… Lì, con i capelli mossi dal
vento… E ti ha preso per la vita, e tu l’hai
baciato, e prima… Un’enormità di tempo
prima... Di baci prima... Di carezze prima... Di risate
prima… Vi siete scambiati quegli anelli, testimoni di un
amore miserabile rispetto a quello che avrei potuto darti
io…
No… No… No...
Affondo nella sabbia, tenendomi la testa tra le mani. La disperazione
mi spinge le lacrime sempre più su … Io non
posso, non devo piangere… Uno come me non piange
mai…
Uno come me….
Affondo le dita nella sabbia per trattenere i granelli che la marea mi
strappa via... Uno dopo l’altro… Uno dopo
l’altro… Come la vita e la mia idiozia mi hanno
portato via te…
Merlino! Vorrei essere cancellato dalla faccia della terra…
Ora… Mentre ti fa sua… Cancellato come le parole che ho
tracciato sulla sabbia… Idiota…
Inutile… Patetico… Vigliacco…
Sì, vigliacco…
Tengo la bacchetta in mano, ora che non serve più a niente.
Se fossi stato un uomo, avrei pronunciato un Avada… Sarei
finito in carcere, certo, ma lui non ti avrebbe avuto mai…
Non sono stato capace nemmeno di questo…
Pronuncio ora parole… Altre parole… Per chiamare
le onde che mi trascinino via… E mi sento sbattere sugli
scogli... E non voglio pensare più a niente... Né
al sangue che esce dalle mie braccia... Né alle ferite che
si saneranno sempre troppo presto... Rispetto al dolore che porto
dentro... Se solo fosse possibile... Se solo riuscissi ad annullarmi in
questo turbinio… Se solo bastasse chiudere gli
occhi… Nulla ha più senso ormai…
Mentre le luci di Orione si alzano sull’orizzonte...
Andromeda…
Mi riaggrappo allo scoglio…
È tutta colpa mia... Solo colpa mia…
Stringo l’acqua delirando, folle, illuso di trattenere
te… Voglio urlare... Voglio morire…
Voglio... Te…
Perché non te l’ho detto mai? Perché
sono coraggioso su una scopa o mentre faccio a botte, ma sono un
patetico vigliacco di fronte a te? Perché non ho sputato sul
mio onore? Perché non ho detto, non m’interessa
niente? Perché sono scappato davanti alle chiacchiere?
Perché non ti ho posto almeno di fronte a una scelta?
Perché ti ho fatto credere che le tue idee ti rendessero
indegna di me? Perché non ti ho detto, ti amo?
Perché non te l’ho detto... Mai... Nemmeno quando
ancora era tutto possibile...Nemmeno quando abbiamo ballato sotto la
luna… Mai... Nemmeno una parola su quello che provo per
te… Perché sono solo un vigliacco...
Sono rimasto in cima alla collina per ore... Impietrito da quello che
stavo vedendo... Ogni bacio era una coltellata... Ed io lì,
fermo come un idiota…
Come un perfetto idiota… Con una stupida rosa in
mano…
Ti ho perduta per colpa mia… Solo per colpa mia…
Le lacrime si fondono nelle onde, tu sei perduta per sempre…
Perché sono solo un viziato… Perché
non so controllarmi… Perché non sono
nessuno… Perché sono solo un nome.
Un maledettissimo nome… Che non mi è bastato a
meritare l’unica cosa che desidero…
Meda…
Le luci della notte urlano il tuo nome, non potrò
più alzare gli occhi al cielo senza sentirmi
morire…
***
Mirzam
Sherton
Londra - 15 giugno 1958
“Muoviti Mir… siamo
in spaventoso ritardo!”
“Ma mamma… la
partita comincia tra più di due ore!”
“Dobbiamo prima incontrare il
signor Krampton a Diagon Alley, è appena arrivato il suo
gufo… è per quella festa che sto organizzando per
papà…”
“Quella ad Amesbury, con tutte
le luci nel grande parco?”
“Sì,
tesoro… te l’ho detto: sarà una
magnifica estate…”
La mamma mi sorrideva, accarezzandomi i
capelli: se quel giorno il Puddlemere avesse vinto la partita,
com’era naturale, il campionato sarebbe finito in pratica con
due mesi d’anticipo, la squadra avrebbe conquistato la
stagione e finalmente papà si sarebbe impegnato di meno, e
sarebbe stato tutto mio… tutto mio… almeno fino
alla nascita di “quell’altro”. Guardai la
pancia già lievemente arrotondata della mamma e pur cercando
di reprimermi, non potei fare a meno di sentire montarmi dentro una
sorda gelosia.
Hanno me… che bisogno c’è di
“quest’altro”?
“Io
e la mamma ci amiamo, Mir… e quest’amore si
è trasformato in un bambino, come già
è successo quando sei nato tu… tutto
qui… lui c’è perché io e la
mamma ci amiamo, non perché tu non ci basti…
è lo stesso amore che ha creato te, è questo,
ancor più del sangue, che vi rende fratelli… lui
non ti toglierà nulla, io e la mamma ti adoriamo, lo
sai!”
Mio padre mi aveva scompigliato i capelli e mi aveva abbracciato, come
faceva sempre, ma per quanto apparisse rassicurante, non riuscivo a
perdonargli quanto stava accadendo. Passavo tanti pomeriggi in camera
mia a giocare col boccino e a riflettere su come sarebbe cambiata la
mia vita: mio padre avrebbe smesso di insegnarmi a volare per occuparsi
di lui? E la mamma? Lei era mia… ero già geloso
di papà quando la baciava, e ora dovevo dividerla anche con
“quell’altro”…
No,
non è giusto…
“Allora sei pronto?”
Le sorrisi: mi afferrò la mano appena annuii e stringendomi
a sé, avvolgendomi nel suo buon profumo, ci smaterializzammo
alla periferia di Londra. Era una tarda mattinata di metà
giugno, assolata, l’aria però era stranamente
ferma, quasi pronta a scatenarsi in una tempesta di calore: per le
strade, su cui si aprivano solo negozi dalle serrande abbassate, non
c’era nessuno. La mamma camminava tranquilla al mio fianco,
parlandomi della festa che aveva in mente, mentre affrontavamo quel
quartiere babbano: non era la prima volta che passavamo di
lì, e casa nostra sorgeva, visibile, in un quartiere in
pieno centro. Al contrario della maggior parte dei purosangue
Slytherins, infatti, mio padre non aveva problemi con i babbani, quanto
a mia madre, per amor suo, aveva messo da parte le sue iniziali
perplessità di strega purosangue e Serpeverde. Ora si
divertiva persino, soprattutto quando ci spostavamo in auto, o
papà portava a casa una nuova diavoleria babbana:
quando comprava un nuovo disco, ballavano in salotto per ore stretti
stretti ed io sognavo di ballare un giorno con la mia principessa come
facevano loro. Così, quando lui non c’era, pregavo
la mamma che insegnasse anche a me, e lei acconsentiva e
m’istruiva non solo sui balli dei maghi ma anche su quelli
dei babbani. E poi c’erano i loro libri, che mio padre mi
leggeva a letto se ero ammalato o anche solo se non riuscivo ad
addormentarmi: lo sentivo che restava al mio fianco, sempre,
finché non era più che sicuro che dormissi sereno
e potesse ritornare da mia madre. Quando si era accorto che dalla mamma
avevo preso un po’ di naturale diffidenza per i babbani, poi,
mi aveva rassicurato a lungo che non avevo nulla da temere. Ed io gli
avevo creduto e gli credevo ancora, così mi lasciavo andare
con fiducia al nostro bizzarro modo di vivere e con il tempo avevo
scoperto quanto amassi la loro musica e la loro poesia.
Anche quella mattina camminavo ridendo, al fianco della mamma: dovevamo
arrivare fino all’incrocio infondo alla strada, lì
iniziava la Londra magica, celata da una barriera di mattoni che ci
avrebbe immesso nella parte estrema di Diagon Alley. Era il modo
più semplice e rapido di arrivare
all’appuntamento, senza passare davanti a Florian
Fortebraccio e ai suoi meravigliosi gelati, che ci avrebbero assorbito
il poco tempo che avevamo a disposizione. Di colpo, nel deserto
silenzioso della strada, da una via laterale sbucarono due ceffi, un
tipo basso e corpulento e uno più alto, completamente calvo
e dal muso da topo: ridevano sguaiatamente e iniziarono a dire ad alta
voce parole che non capivo. Dopo un po’ mi fu chiaro che si
rivolgevano alla mamma… Lei mi serrò la mano
nella sua e accelerò il passo, senza dire niente. La
guardai: aveva il viso contratto in una strana smorfia e gli occhi
fissi davanti a noi. I due uomini continuarono a ridere della nostra
apparente indifferenza ma invece di lasciarci andare, cambiarono
direzione e iniziarono a seguirci.
“Muoviti Mir... e se ti dico
scappa… tu corri… siamo intesi?”
“Ma
mamma…”
“Niente ma… Devi
raggiungere la barriera e cercare qualcuno cui chiedere aiuto non
appena ti dirò di farlo…”
La osservai meglio, il suo sguardo celava un’ombra di paura,
anche se cercava di mantenersi calma per me; annuii, più di
una volta mio padre aveva detto che quando non c’era lui, io
dovevo fare tutto quello che diceva la mamma. Ma diceva anche di
proteggerla, perché, se lui non c’era, ero io
l’uomo di casa e lui affidava a me quanto aveva di
più prezioso. Le risate e le parole quasi urlate sembravano
avvicinarsi sempre di più e il nostro passo pur accelerato
quasi a trasformarsi in una corsa, sembrava inutile, la barriera
sembrava sempre più lontana, e esposti in mezzo a una strada
babbana, seppur deserta, la mamma non poteva prendermi e
smaterializzarci.
“Vieni qua bella
rossa… Non ti va di fare amicizia con noi?”
Urlava il calvo, un sorriso sordido a rendere ancor più
disgustosa la sua faccia.
“Vai Mir… per
l’amor di Merlino… vai!”
Mia madre mi spinse avanti, quasi volesse lanciarmi di peso oltre la
barriera di mattoni, poi si voltò ad affrontarli, coprendo
la mia fuga: ormai quasi in salvo, mi guardai indietro e la vidi che
tirava fuori dalla manica la bacchetta, ma l’altro uomo,
quello basso che finora era rimasto zitto, la colpì al
volto, facendola cadere. Quando la vidi in ginocchio a terra, ferita,
terrorizzata, che cercava di proteggersi la pancia con le mani, sentii
il sangue urlarmi dentro e non capii più niente: tornai
indietro, contravvenendo agli ordini e alla logica, mentre lei
m’implorava di oltrepassare la barriera. Invece mi chinai,
presi la bacchetta caduta dalle sue mani, avanzai verso i due ceffi che
ridevano sempre di più: l’odio, un odio che non
avevo mai provato, vinceva la paura e mi rendeva forte.
“State lontani da lei! State
lontani da lei!”
Sibilavo, pregando in cuor mio la bacchetta perché,
benché fossi piccolo e non fosse la mia, mi rispondesse e
potessi fare qualcosa, qualsiasi cosa, per proteggere la mamma e
“mio fratello”. L’uomo alto
però mi prese all’improvviso alle spalle,
sollevandomi, e mentre mia madre a terra urlava che mi lasciassero
andare, l’altro tirò fuori una cosa lucida dalla
giacca, sentii un sibilo strano, e vidi un lampo che squarciava
l’aria e poi un dolore lancinante alla pancia e poi un altro
e un altro ancora… Non capivo perché…
Faceva tanto male e la luce si faceva sempre più debole e
tutto diventava scuro. Anche se era appena passato mezzogiorno.
Sentii le mie dita allentare la presa, il rumore del legno della
bacchetta che cadeva a terra e che era schiacciata e spezzata dal piede
pesante di uno dei due. Con lei caddero il mio coraggio e la mia forza.
Era sempre più freddo, mentre i miei vestiti
s’inzuppavano di qualcosa di caldo e appiccicoso. Ormai
c’erano solo le loro risate. E la voce disperata della mamma
che urlava il mio nome, sembrava arrivarmi da un luogo sempre
più lontano.
Poi non sentii più niente.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 21 marzo 1960
Fin da piccolo, delle tante storie raccontate da
mio padre, quelle erano le mie preferite, dopo le avventure legate al
Quidditch: quando mi parlava di Herrengton, restavo affascinato per
giorni immaginando il castello e la foresta e gli ippogrifi e gli altri
animali magici, un mondo ben diverso da quello che vivevo tutti i
giorni a Essex Street o ad Amesbury, d’estate. E ora ero
finalmente lì. Guardavo fuori dalla finestra,
l’oceano sotto di me sembrava una placida distesa di
mercurio, intorno a me pietra millenaria e strani alambicchi, libri
polverosi dalla copertina consumata, arazzi, quadri di antenati, una
miriade di ampolle e contenitori con nomi di strani ingredienti: lo
studio del nonno. Finora ero stato a Herrengton solo per prendere le
rune, ma ero troppo piccolo per ricordare. E quando eravamo stati male:
sapevo che io e la mamma eravamo stati curati a lungo in Scozia, ma
anche di quello avevo poca memoria. Mio padre e ancor di più
mia madre, anche se non ne parlavano chiaramente, e non ne capissi il
motivo, non erano troppo felici di farmi stare con il nonno, per questo
l’avevo incontrato solo poche volte: quando pensavo a lui,
rivedevo solo una figura austera che non mi aveva baciato mai, che
attendeva sull’arco di pietra della porta, con le mani
serrate, che i Medimaghi finissero di visitarci e lo rassicurassero
sulle condizioni mie e della mamma. Era un uomo anziano che aveva in
sé ancora molto della propria antica energia: era alto come
mio padre, altrettanto magro, con una criniera di capelli lisci,
candidi come neve, che gli arrivavano fino a metà schiena,
legati in una coda, lasciando così scoperta la maestosa runa
che portava al collo. Sembrava che sulla sua pelle
quell’inchiostro sacro risaltasse più che sulla
mia o su quella di papà.
Fino a pochi minuti prima ero rimasto nella mia stanza, nella camera
che aveva fatto preparare per me in una delle torri, con gli stendardi
di Salazar davanti al mio baldacchino: io non vivevo in una casa
Serpeverde, a Essex Street, lì gli oggetti non avevano fregi
serpenteschi. Quando avevo visto la mia stanza a Herrengton la prima
volta, avevo iniziato a chiedermi perché mio padre volesse
che vivessimo in mezzo a oggetti che non ricordavano il valore e la
grandezza della nostra famiglia, ma mio padre diceva soltanto
“Quando sarai grande, parleremo e capirai”.
Io non volevo capire, volevo solo vivere da Serpeverde e aspettavo con
impazienza che passasse un altro anno e mezzo per poter finalmente
entrare nella casa di Salazar, a Hogwarts. Mio padre sorrideva di
questo, anche se il suo non era più il sorriso di un uomo
felice. Dopo quel pomeriggio in cui i due babbani avevano attaccato me
e la mamma, mio padre era stato strano per molto tempo, aveva smesso di
parlare in termini entusiastici del mondo "non magico", era diventato
triste e spesso l’avevo sentito chiedere a mia madre di
perdonarlo. Lei allora gli diceva qualcosa piano all’orecchio
e lo abbracciava e lo baciava, come sempre, pur tuttavia mio padre
aveva perso il sorriso che aveva sempre avuto. Benché fossi
solo un bambino, avevo capito che anche mio padre aveva perso qualcosa
quel giorno. Volevo essere proprio per questo un Serpeverde: non per la
tradizione di famiglia, ma perché come una Serpe odiavo i
babbani. E non era per il dolore che avevo provato quel giorno o
perché avevo rischiato di morire: li odiavo
perché non riuscivo a dimenticare mia madre a terra, ferita,
e perché pensavo che solo una piena vendetta avrebbe reso di
nuovo il sorriso a mio padre.
Quando all’improvviso la porta della mia stanza si era aperta
e Doimòs mi aveva annunciato che mio nonno desiderava
parlarmi, il pensiero era corso, rapido, a Londra, alla mamma impegnata
a far nascere un altro bambino; era troppo presto... La mia
agitazione aumentò: la paura per mia madre mi fece tremare e
stringere le mani tanto da segnarmi la pelle con le mie stesse unghie.
Seguii timoroso in silenzio il vecchio elfo per corridoi oscuri e scale
a chiocciola, sempre più in basso, fino ai sotterranei di
una delle torri: Doimòs mi fece entrare in una stanza ampia
illuminata da bifore che guardavano verso il mare, poi mi
lasciò da solo, in attesa che il nonno mi raggiungesse. La
mente turbinava e si perdeva in pensieri tristi e orribili. Poi sentii
la porta aprirsi e richiudersi, sentii il suo mantello muoversi
nell’aria. Alla fine mi voltai, impettito, come si conveniva
a suo nipote, cercando di tenere ferma la voce, mentre mio nonno stava
ritto davanti a me, presso il caminetto. A scrutarmi, quasi come se mi
stesse valutando.
“Signore,
è… è successo qualcosa a mia
madre?”
“Tua madre e il bambino stanno
bene, non sei qui per loro, ma per seguirmi e
ascoltarmi…”
Guardai quell’uomo, era freddo come ghiaccio: dunque era
nato. Eppure la sua espressione non cambiò, la sua
voce non si addolcì. Non feci domande, sicuro che
non avrei avuto risposte. Lo seguii, mantenendomi due passi
indietro come faceva sempre anche mio padre, lasciando che mi guidasse
in una parte del castello che non ricordavo di aver visitato mai.
Papà diceva che il castello era pieno di tesori, di reliquie
del passato, ma che non era ancora nel pieno della sua magnificenza,
perché molte cose ci erano state rubate nel corso dei secoli
e, lui, una volta lasciato il Quidditch, voleva impegnarsi a recuperare
tutto: guardandomi attorno, mentre attraversavo quei corridoi dai
soffitti altissimi, in cui la pietra si annodava su se stessa creando
intrecci maestosi, mi chiedevo come dovesse essere Herrengton al
massimo del suo splendore, perché già
così era meravigliosa. L’aspetto del maniero
cambiò di nuovo, il corridoio si fece più ampio,
più luminoso, il soffitto non era più di pietra
ma coperto con cassettoni dorati; ovunque, al contrario di casa nostra
a Londra, c’erano fregi serpenteschi e i colori della sacra
casa di Serpeverde. Mio nonno svoltò a destra, entrando in
un ambiente celato allo sguardo da una ricca tenda di broccato verde,
lo seguii e mi ritrovai in una gigantesca sala, apparentemente
più antica del corridoio appena percorso: enorme, era fatta
di pietra, con, in fondo, tre archi ogivali che costituivano un sipario
ed era sormontata da una volta a botte, affrescata con un cielo
stellato, cinque lampadari di cristallo scendevano dal soffitto,
illuminando l’ambiente con la luce di cento candele. Notai
che le pareti erano ricoperte di arazzi e la voce commossa di mio padre
emerse dai miei ricordi: m’irrigidii sulla porta, avendo
compreso dove mi trovassi in quel momento. Invitato a entrare, mossi
pochi titubanti passi all’interno, ero circondato da un
millennio di storia, tutti i nomi dei maghi purosangue erano
lì attorno a me, sapevo di esserci entrato solo
un’altra volta nella mia vita, quando mio padre mi aveva
presentato ai suoi avi come futuro erede degli Sherton. Sentii
emozione, timore e orgoglio fondersi insieme in un unico fuoco nel mio
cuore.
“Avvicinati e
osserva… Noi siamo gli Sherton: un singolo ramo. Come puoi
vedere, siamo soli, non abbiamo fratelli, né cugini, compete
solo a noi portare avanti il destino della famiglia più
potente del Nord.”
Alzai gli occhi, come un ammonimento sinistro osservai la linea che
scorreva sopra il nome di mio zio e sua moglie: sì, eravamo
rimasti soli, solo io e la mia famiglia. Era la maledizione
della nostra storia, un grande potere che faceva gola a troppi nelle
mani di un solo uomo, un singolo errore e tutto sarebbe finito in
polvere.
La prima regola è sopravvivere…
Compresi in quel momento l’importanza di mio fratello, dei
miei fratelli: se fosse capitato qualcosa a me... io ero niente, era la
nostra famiglia ciò che contava. Mentre riflettevo sul peso
che gravava su tutti noi, il nonno estrasse una boccetta dalla toga,
poi materializzò un pugnale: come vidi la lama, i miei occhi
si riempirono di terrore, troppo vividi e troppo spaventosi, ancora,
erano i miei ricordi.
“Dammi la mano…
sarai tu a donare sangue puro, stavolta.”
Tesi la mano, sorpreso e titubante, me la sentii afferrare con poca
grazia, la lama ferì il mio palmo, disegnando una riga
sottile e profonda, il sangue rubino apparve poco dopo, il nonno
lasciò che si accumulasse nel palmo poi lo versò
con cura all’interno della boccetta; infine pose di piatto la
lama sulla ferita, cicatrizzandola magicamente. Osservai la sottile
linea: sembravano incise delle fitte e piccole rune, tutto lungo il
taglio. Intanto, con la mano sinistra, il nonno mescolava lo strano
intruglio nella boccetta, recitando a bassa voce una litania in
gaelico.
“Ora scriverò il
nome del bambino sull’arazzo, con una lega fatta di puro
argento di Herrengton e di puro sangue Sherton: lì
resterà indelebile nei secoli. Un giorno sarai tu,
l’erede di Hifrig, a scrivere il nome dei nuovi Sherton.
Ricordati sempre, però: dovrai meritare il tuo ruolo nella
storia con la tua vita!”
Mi pose una mano sulla spalla avvicinando la bacchetta
all’arazzo e serrandomi a sé, tanto forte che
sentii il battito del suo cuore, rimasi sorpreso: credevo quasi che non
ne avesse uno, al contrario di mio padre. Non avevo chiesto quale fosse
il nome scelto e quando lo vidi tracciato, rimasi stupito,
impressionato: possibile? Possibile fosse vero? Possibile che fossi
testimone di un evento così importante? C’era
scritto Meissa Deidra Sherton. Avevo dunque una sorella, una sorella
nata proprio nel giorno di Habarcat? Non era possibile, era un sogno
forse: avevamo atteso quasi settecento anni. No, non era possibile. Mio
nonno si voltò, aveva una luce particolarmente eccitata
nello sguardo, non l’avevo mai visto così.
“Mirzam Alshain Sherton sei
qui, di fronte ai nostri padri, ad annunciare con me il momento
glorioso, in cui ritorniamo padroni del nostro destino, in cui termina
il nostro declino e la nostra solitudine. Hai annunciato ai nostri avi
col tuo sangue la nascita di tua sorella nel giorno di
Habarcat… ti sei impegnato a proteggerla per tutta la vita,
davanti a tutti, non dimenticarlo mai… chi cede il proprio
sangue all’arazzo, s’impegna a rispettare i propri
doveri di fronte a Salazar stesso…”
Guardò la mia mano appena risanata, e guardò
me… Era tutto vero, Herrengton aveva riconquistato la sua
libertà, la cosa più preziosa, più
degli ori e degli argenti, più di Habarcat stessa. Ed io
avevo appena promesso di proteggere mia sorella a costo della vita, per
garantire il futuro di noi tutti. Mio padre mi aveva raccontato molte
cose della nostra famiglia: delle lotte che settecento anni prima ci
avevano quasi distrutto, delle maledizioni poste su di noi per impedire
che nascessero femmine e diventassimo troppo potenti grazie alla loro
forza. E ora ero lì, davanti all’arazzo e ammiravo
immobile e silenzioso un miracolo che aspettavamo da tanto, troppo. I
secoli bui erano finiti ed io mi sentivo orgoglioso e grato verso
quella bambina e avrei voluto essere già a Londra, a
partecipare della gioia della mia famiglia. Mi chiedevo che faccia
avesse, se assomigliasse alla mamma, con i bei capelli rossi, o avesse
gli occhi chiari come i miei, o fosse più simile a mia
nonna, considerata la più bella strega del Nord.
“Seguimi!”
Il nonno scivolò silenzioso verso i tre archi ogivali,
sollevò una delle tende e si fermò lì,
facendomi cenno di seguirlo, mi mossi piano, in religioso silenzio: una
specie di terrore sacro mi prese allo stomaco, ero curioso ma anche
incredibilmente terrorizzato, al pensiero di stare al cospetto di
Habarcat.
“Sai già
cos’è questa fiamma, il dono che Salazar Slytherin
fece alla nostra famiglia per la nostra fedeltà.
Habarcat…”
Entrai nel sacello, sembrava che l’aria lì dentro
fosse più densa, la fiamma riluceva della sua fredda luce
blu-verde… Il nonno pronunciò delle parole in
gaelico, versò quanto era rimasto nella boccetta e la fiamma
si nutrì del mio sangue: per pochi istanti il suo colore
virò verso delle tonalità più
naturali, rossicce. Sorrise e sospirò un sì
liberatorio. Mio padre aveva detto una volta che il nonno era un grande
veggente capace di fare domande alla fiamma e ottenere risposte: non
gli chiesi conferma dei miei dubbi, ma capii dal suo sguardo che aveva
chiesto a Habarcat se Meissa fosse proprio la bambina della
svolta. E aveva ottenuto la risposta che desiderava. Mentre
lasciavamo la sala e ritornavamo in silenzio sui nostri passi,
nonostante la felicità e l’eccitazione mi sentivo
angustiato però da mille domande. Perché mio
nonno aveva affidato Meissa a un bambino come me? Quasi mi avesse letto
nella mente, al temine della nostra silenziosa cena, il nonno mi
chiamò a sé, ritto in piedi, davanti al caminetto
su cui campeggiava il ritratto che lo raffigurava con la nonna e i suoi
due figli.
“Ti stai chiedendo
perché ho voluto il tuo sangue, non quello di tuo
padre… Mio figlio è un grande mago, un ottimo
giocatore di Quidditch e un brav’uomo… ma
è anche un debole dalle convinzioni deboli, Mirzam: non ha
mai capito e non ha mai accettato gli insegnamenti più
importanti per un mago Slytherin e purosangue… con la sua
curiosità, la sua indecisione, la sua insofferenza ha messo
in pericolo te, tua madre, la nostra intera famiglia … Io
non posso permettere che si ripeta, no, non mi posso fidare, non
più, non ora… Ormai sei grande, tra poco andrai a
scuola… Ho voluto il tuo sangue, perché
così ti prenderai l’impegno di occuparti dei tuoi
fratelli, di farli crescere come dei bravi Slytherins, a costo della
vita: voi tre siete il futuro della nostra famiglia ed io sono troppo
vecchio e stanco ormai. Giurami che non sarai mai debole e
insicuro… non importa quanto sarai abile come mago o
perfetto come uomo, ciò che conta è che tu non
dubiti mai di quanto è sacro e superiore il sangue che
scorre nelle tue vene. Solo così sarai un vero Sherton. Ora
vai e ricordati, non devi parlare mai di quanto ti ho detto questa
sera, con nessuno!”
Mi congedò così, senza che potessi replicare,
senza che potessi chiedere dei chiarimenti, lasciandomi nella
più totale confusione. Passai tutta la notte a guardarmi la
ferita alla mano, chiedendomi quale fosse la via per diventare uno
Sherton migliore di mio padre, ammesso fosse possibile. Nella testa
risuonavano le parole di mio nonno:
"... Tuo padre è anche un debole dalle convinzioni deboli...
"
No, non è vero, non è vero! Mio padre
è il mio eroe e mio nonno è solo un bugiardo!
Strinsi le lenzuola, arrabbiato e tremante….
"... Non ha capito e non ha accettato mai gli insegnamenti
più importanti… "
Che cosa significava? Quali insegnamenti non accettava? Era vero, amava
le cose babbane, usava le cose babbane… E
allora? Forse non odiava i babbani, per lo meno prima non li
odiava... ma ora avevo qualche dubbio.
"
… Con la sua curiosità, la sua indecisione, la
sua insofferenza, ha messo in pericolo te, tua madre…"
Davvero mio nonno credeva questo? Ed era questa la verità?
Era per questo che mio padre chiedeva perdono alla mamma? Ed io che
cosa potevo fare? A chi potevo chiedere aiuto?
***
Mirzam
Sherton
Castello di Hogwarts, Highlands - 1 settembre 1961
“Mirzam
Sherton…”
Era alla fine arrivato il momento della verità, al termine
di una lunga giornata, che mi aveva visto per la prima volta lontano
dalla mia famiglia. Per tutto il viaggio in treno ero stato teso e
nervoso, diviso in due: entusiasta all’idea delle mille
avventure che mi attendevano nel magico castello di Hogwarts, eppure
triste per non aver potuto salutare la mamma al binario e averla dovuta
lasciare a casa con i miei fratelli. Inoltre ero un po’
preoccupato per il mio smistamento: dopo quello che mi aveva detto il
nonno, ormai quasi due anni prima, ero sempre pieno di dubbi e mi
chiedevo sempre se quello che facevo e pensavo fossero pensieri e
azioni giusti per un vero Sherton. Mio padre mi aveva accompagnato a
King’s Cross e si era occupato personalmente dei miei bagagli
e di trovarmi un posto, forse per avere più tempo da passare
insieme, o perché, quando si trattava di uno dei suoi figli,
non delegava mai agli altri nemmeno uno stupido dettaglio. Alla fine mi
aveva lasciato salire scompigliandomi i capelli e baciandomi davanti a
tutti, comportandosi in modo molto diverso dagli altri altezzosi
genitori Slytherins: da quando avevo parlato col nonno, vedevo sempre
più facilmente quanto fosse, e quanto fossimo, diversi dalle
altre famiglie Serpeverdi, però non riuscivo a sentirmi
inferiore agli altri, né a vergognarmi, solo
perché mio padre dimostrava davanti a tutti il bene che mi
voleva. Un po’ ero preoccupato di sentirmi dire che ero
debole, però ero felice dell’affetto di mio padre,
e per questo non avevo avuto scrupoli ad abbracciarlo, a mia volta, e
molto di malavoglia ero salito. E subito ero corso al finestrino aperto
per salutarlo, felice. A quel punto lui mi aveva dato il suo ultimo
dono prima della partenza.
“Questo è per
te… se dovessi avere problemi ad addormentarti...”
Mi aveva messo in mano il libro che mi leggeva sempre, un libro
piccino, ma piccolo solo quando stava in tasca, quando era aperto per
essere letto, invece, le pagine sembravano non finire mai:
l’aveva creato lui, mettendoci dentro tutte le storie
più belle che amavo, e scrivendone persino alcune di suo
pugno. E l’aveva creato apposta per me.
Solo per me.
Gli sorrisi e rimasi sporto dal finestrino finché il treno
non aveva curvato strappandomi alla sua vista: avevo urlato orgoglioso
il suo nome e lui mi aveva risposto con un ampio sorriso, quello che
dopo la nascita di Meissa era finalmente tornato a stamparsi spesso
sulla sua faccia. Questa volta, però, quel sorriso era di
nuovo tutto per me...
Solo per me.
Ero andato a sedermi accanto al finestrino e avevo lanciato
un’occhiata poco entusiasta ai miei compagni di viaggio,
cupo… Ci misi poco a farmi un’idea di loro.
C’erano due timide bimbette che non sembravano nemmeno avere
undici anni, soprattutto di fronte a me che ero ben più alto
della mia età: frignarono per tutto il viaggio
perché mancava loro la madre. Una era una ragazzina un
po’ rotondetta dai capelli fulvi, Molly Prewett,
l’altra, Martha McDougal, la più lamentosa delle
due, era simile a un pulcino, con gli occhi acquosi e celesti, il
musetto smunto e dei sottilissimi capelli biondi legati in due treccine
cadenti… Di sicuro, benché purosangue, piattole
come quelle potevano finire solo a Tassorosso, quindi non rivolsi loro
più nemmeno uno sguardo, ben intenzionato a non dar loro
spago: non stava bene avere a che fare con lagne come quelle. Altri due
li conoscevo già: Jarvis Warrington, era il figlio di un
compagno di squadra di papà, era un ragazzo dai capelli
corvini e con gli occhi azzurri, abbastanza alto e un po’
corpulento, dalla risata schietta e l’aria sempre gioviale, a
parte quando, nelle occasioni in cui c’eravamo incontrati,
l’avevo battuto a scacchi senza pietà. A
guardarlo, con quell’aria da bravo ragazzo studioso, non
avevo dubbi che sarebbe diventato un Corvonero, quindi mi sorpresi non
poco, quella sera, quando finimmo a dividere la stessa stanza nei
dormitorii di Serpeverde. Dall’altra parte dello
scompartimento, a ridosso della porta, silenziosa, c’era una
ragazzina bruna dallo sguardo luminoso e chiaro almeno quanto il mio:
sorrideva appena di tutto quello che accadeva là dentro e
non mi staccava mai gli occhi di dosso. L’avevo vista qualche
volta alle feste di zia Rebecca a Doire: si chiamava Sile ed era la
figlia di Donovan Kelly, uno dei più cari amici irlandesi di
mio padre. Poi, quando già il treno era in viaggio,
- se solo l’avesse immaginato, di certo, mio padre
avrebbe cercato un altro posto per me-, si era aggiunto un assurdo tipo
dai capelli rossi sparati per aria, Arthur Weasley, futuro Grifondoro
come tutta la sua sudicia razza di rinnegati. Non rimase fermo un solo
istante per tutto il viaggio, entusiasta per qualsiasi cosa di animato
e inanimato passasse davanti ai suoi occhi, parlò di
continuo, nella vana speranza di far smettere le
“lamentiadi” alle altre due e provocandomi, con la
sua chiacchiera infinita, un feroce mal di testa. Nemmeno Meissa, nota
urlatrice, appena nata, provocava con i suoi pianti dei mal di testa
peggiori… Dopo aver salutato tutti senza troppo trasporto,
m’interessai solo del paesaggio che scorreva oltre il
finestrino, intercettando spesso sul vetro gli occhi di Sile: facevo
finta di nulla ma spesso la cercavo, poi imbarazzato, lasciavo che lo
sguardo scorresse su colline e fiumi e valli, mentre il sole lentamente
spariva tra le nuvole ed era sostituito dalla pioggia e i profili del
paesaggio perdevano la propria morbidezza per diventare più
maestosi…
Al passaggio della signora delle caramelle, da bravo Sherton, offrii ai
miei compagni alcuni dolciumi, mi esibii in qualche parola di rito e
cercai di mantenermi civile e cavalleresco: sotto gli occhi divertiti
di Warrington, però, feci in modo di non tendere la mano a
Weasley, che ci rimase un po’ male. In realtà, non
avevo intenzione di metterlo in imbarazzo, solo che avevo allestito
tutta quella sceneggiata solo per dare di nuovo la mano a Sile, e non
mi andava di dover pagare pegno dandola pure a quello
lì. Alla fine, ritornai a perdermi nei miei
pensieri, osservando la pioggia che sferzava i vetri del finestrino: mi
chiedevo con chi avrei legato, che tipo di Serpeverde ci fosse in
quella scuola, se sarei riuscito a fare amicizia con loro. E se io
stesso sarei finito lì, nonostante mio padre ed io fossimo
così diversi dagli altri…
La maggior parte degli amici di mio padre non aveva figli della mia
età, lui si era sposato troppo giovane e aveva avuto me a
nemmeno vent’anni: avevano tutti figli piccolissimi, come
Orion Black che aveva due figli dell’età di
Meissa. Solo suo cognato Cygnus, tra i nostri conoscenti più
intimi, aveva figlie grandi quasi quanto me: a pensarci bene, non mi
sarebbe dispiaciuto fare quel viaggio con loro, ma Bella non sarebbe
venuta a Hogwarts prima di un altro anno e Andromeda, addirittura, non
prima di tre. La sera prima ero stato a casa di Orion, a Grimmauld
Place, e c’era anche la famiglia di Cygnus: le figlie erano
già incredibilmente belle e, in particolare, Bellatrix
già da un po’ faceva di tutto perché la
notassi e sembrava arrabbiarsi quando fingevo di non vederla
nemmeno… Lei in realtà mi piaceva, non era una
ragazzina stupida e lagnosa, anzi era in gamba, curiosa, piena
d’inventiva, e mi batteva sempre a scacchi; i suoi occhi
erano sempre attenti, ero convinto che notasse anche i più
piccoli dettagli… E poi… lei ci teneva
sempre tanto a ricordare che i Black sono detti “Toujours
Pur” e a me piacevano tanto le persone orgogliose di se
stesse, come lei… Sì, Bellatrix Black era proprio
una ragazzina interessante e non vedevo l’ora che entrasse
anche lei a Hogwarts: le avrei insegnato tutto quello che sapevo, e lei
sarebbe stata contenta, ancora di più, della mia amicizia.
Infine eravamo arrivati, sotto un cielo di nuovo stellato avevamo
affrontato il Lago Oscuro su delle piccole barchette, gli occhi
sognanti e tanta emozione nel cuore: io stringevo forte il ciondolo che
mia madre si era tolta dal collo per darlo a me.
“Ti sarò sempre vicina, portami sul tuo
cuore…”
E ora l’insegnante mi aveva chiamato. Mi staccai dalla
colonna delle ultime matricole non ancora smistate e con passo un
po’ incerto mi avvicinai, mi sedetti emozionato sullo
sgabello e aspettai che il cappello di Godric mi fosse posto sulla
testa. Fece appena in tempo a sfiorarmi i capelli che
pronunciò a voce alta, senza alcuna esitazione:
“Serpeverde!”
Sorrisi orgoglioso, emettendo un sospiro di sollievo, mentre decine di
calorosi applausi fecero tremare il tavolo delle Serpi, levandosi dalle
fila dei miei futuri amici e compagni. Mi alzai, spavaldo, e raggiunsi
i miei compagni di Casa. Un ragazzo bruno, probabilmente del terzo o
del quarto anno, dagli occhi azzurri come ossidiana blu, si strinse
contro il suo vicino, creando un vuoto, allungò improvviso
la mano verso di me, mi prese per la giacca e mi attirò al
suo fianco: mi ritrovai seduto vicino a lui, senza capire cosa stava
accadendo. Senza esitazione, allungò la mano per
presentarsi.
“Benvenuto a Serpeverde,
Mirzam Sherton… Io mi chiamo Rodolphus... Rodolphus
Lestrange…”
Ero già pronto a ricambiare la stretta, ma quando sentii il
cognome, rimasi un attimo interdetto e indeciso su quello che dovevo
fare: dovevo prendere quella mano dimostrandomi gentile e bendisposto
o, come diceva mio padre, era bene evitare certe famiglie? Il suo volto
sicuro e beffardo si stava aprendo un sorriso canzonatorio, ero
convinto che avesse fatto tutto questo solo per dimostrare ai suoi
amici che avevo paura di lui, che tutti gli Sherton si comportassero da
conigli, di fronte a dei Lestrange. Si preparava già a
deridermi e a darmi della mammoletta, ma io non esitai oltre, strinsi
la sua mano con fare energico lasciandolo stupito, e gli raccontai di
quanto fossi contento di essere finalmente nella casa dei miei avi e di
aver fatto un viaggio davvero pessimo, con delle piattole frignanti che
avevano sempre invocato la mamma: le indicai sedute ai tavoli dei
Grifoni e dei Tassi, provocando ululati di derisione tra i miei
compagni. Feci poi un cenno del capo all’indirizzo di
Weasley, appena smistato, dicendo di aver dovuto dividere lo
scompartimento anche con tipi poco raccomandabili, gentaglia al pari di
sanguesporco, feccia immonda che non meritava di essere nemmeno
nominata, e Warrington, che era stato smistato poco prima tra le Serpi
e si era aggiunto al nostro tavolo in quel momento, non fece altro che
confermare e darmi manforte.
“Povere piccole Serpi, ma
questi sono racconti dell'orrore... Ora non dovete più
preoccuparvi, qui non rischierete più quel genere di brutti
incontri… Ora ci pensiamo noi a
proteggervi…”
Rodolphus si guardò intorno, intercettò il
sorriso poco rassicurante del Caposcuola Pucey e brindò alle
nuove Serpi, infischiandosene delle parole del vecchio preside, cui
nessuno di noi prestò la benché minima
attenzione… Io però lasciai stare presto anche
lui e feci scorrere lo sguardo lungo la tavolata: alla mia destra, di
fronte a me, alcuni posti più in giù, Sile Kelly
continuava a non staccarmi gli occhi da dosso.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - 20 luglio 1962
Era una fredda mattina di metà luglio, la pioggia scorreva
su tutti noi, cinque figure vestite di nero, vestiti e capelli
attaccati al corpo, fradici... Il gufo di mio padre era arrivato in
piena notte, comunicandoci la notizia: lui era in Scozia già
da una settimana, la mamma aveva appena avuto il tempo di avvertire
Orion e lasciare i miei fratelli a Grimmauld Place. Non erano previste
cerimonie pubbliche, bastava la famiglia, un Custode dei Riti del Nord
e un testimone. Il vecchio sacerdote pronunciò le parole
millenarie poi mio padre si chinò a baciare la bara che fu
rapidamente calata a terra, sotto un imponente albero di quercia, in
cima alla collina, accanto alla tomba di sua madre, Ryanna Meyer e di
suo fratello, Ronald Sherton. Mia madre stava tre passi dietro di noi,
accanto a Orion. Non riuscivo a piangere, la mente era un
turbinio di pensieri ma non c’era tristezza, non
c’era dolore, non capivo che cosa provassi…
La storia di mio nonno, Donavan Elija Sherton, finiva così,
incomprensibile alla mia mente: sapevo che era stato un uomo che aveva
tanto amato nella sua vita, era stato un padre simile al mio, seppur
più rigido e introverso, poi la morte della nonna aveva
congelato il suo cuore, era diventato freddo e distaccato, aveva perso
mio padre per la sua testardaggine e intolleranza, l’aveva
recuperato quando ero nato io, ma il loro rapporto non era
più stato semplice. Le cose erano peggiorate ancora quando
era morto anche mio zio, e il nonno si era chiuso nel suo silenzio
carico di paura e risentimento. Mio padre si voltò verso di
me e mi circondò le spalle col suo braccio forte, non mi
guardò in viso come faceva sempre, lo sguardo perso
all’infinito, su quel mare il cui colore assomigliava tanto a
quello dei suoi occhi… Non l’avevo mai visto
così sconvolto… Non l’avevo mai visto
piangere… Mi chiedevo cosa ci fosse nel suo cuore in quel
momento, perché ero convinto che amasse suo padre, ma che
tra loro ci fossero troppe cose non dette: forse si sentiva in colpa,
forse si sentiva perduto, forse aveva dei rimpianti. Io però
sapevo che il nonno non lo stimava appieno, che per lui era diventato
solo un mezzo per raggiungere un fine: il bene della famiglia. Mio
nonno non lo vedeva più come un figlio, solo come un
figlio… Forse era questo che lo faceva soffrire:
anch’io avrei sofferto, se mio padre non mi avesse amato
più …
Mi strinsi ancor di più nel suo abbraccio, non per il
freddo, ma perché mi proteggesse. Tra noi non doveva essere
così… Io e lui… non dovevamo
finire così… Non dovevano esserci quei silenzi,
quelle incomprensioni… Era questo che gli dicevano i miei
occhi, era questa la preghiera timida e silenziosa che gli rivolgevo,
quando alla fine mi fissò negli occhi. Lui capì,
perché mi strinse ancora più forte a
sé.
“Ti voglio bene
Mirzam…”
Avrei voluto che, pur nel dolore, quell’attimo rimanesse
fissato per sempre. Che per tutta la vita mio padre fosse rimasto per
sempre accanto a me. A farmi forza, come in quel momento.
***
Mirzam
Sherton
Londra - 1 settembre 1962
“Mi raccomando, Mirzam,
quest’anno cerca di dar retta ai professori e pensa anche a
studiare, non solo a svolazzare sulla scopa!”
Mi voltai verso mio padre rivolgendogli un’occhiata carica di
promesse, poi di corsa raggiunsi Rodolphus, sotto gli occhi perplessi
di mia madre: avevo convinto i miei a invitarlo a casa nostra per
Natale, l’anno prima e pur rimasto leggermente meravigliato,
mio padre, non aveva fatto una piega. Come sempre, per la mia
felicità, non si opponeva e cercava di superare i propri
pregiudizi. La mamma mi aveva però fatto promettere di stare
sempre all’erta e di scrivere subito a lei o a
papà, se qualcosa non mi avesse convinto. Io,
però, non credevo che Rodolphus potesse essere pericoloso,
loro non lo conoscevano: era una forza, giocava a Quidditch, nel ruolo
di portiere, e in tutta Hogwarts non c’era nessuno che
parasse i tiri bene come lui, tanto che era anche merito suo se
l’anno precedente le Serpi avevano vinto il campionato! Non
vedevo l’ora che ci fossero i provini, magari da cacciatore,
visto che ancora per un paio di anni il ruolo di cercatore sarebbe
stato più che dignitosamente ricoperto da Teddy Lammark,
solo per giocare con lui. Poi… beh Rodolphus era davvero
simpatico, con lui c’erano sempre belle avventure da
organizzare, sempre nuovi scherzi da fare ai Grifoni... E lui era anche
bravo a non farsi mai scoprire e mi aveva promesso che avrebbe
insegnato anche a me come fare... E i suoi racconti…
Merlino... certe sere d’inverno, attorno al caminetto, i suoi
racconti avevano fatto restare tutte noi Serpi col fiato sospeso. Era
un trascinatore, organizzava delle bellissime feste e non era un
presuntuoso, lasciava che anche noi più piccoli
partecipassimo e verso di me, in particolare, aveva sempre un
atteggiamento aperto e amichevole: era il mio eroe, mi aveva persino
fatto allenare a Quidditch di nascosto, l’anno prima, e mi
aveva promesso che appena fosse stato possibile, avrebbe messo una
buona parola col capitano perché il ruolo di cercatore
finisse a me.
“Hai passato bene le vacanze,
Rod?”
Ero corso fin da lui, ma sembrava che la sua attenzione e quella dei
suoi amici nei miei confronti fossero piuttosto carenti, seguii il suo
sguardo e intercettai le figure altezzose dei coniugi Black e delle
loro figlie, venuti a King’s Cross per accompagnare Bellatrix
al suo primo viaggio. Lei doveva essere lì da qualche parte,
ma non l’avevo ancora vista, a dire il vero non la vedevo da
quando c’eravamo trasferiti a Herrengton, in fretta e in
furia, alla morte del nonno.
“Tu li conosci, vero,
Sherton?”
Annuii, e iniziai a raccontare, sperando di riguadagnare la loro
attenzione mostrando di sapere molto sui Black.
“Li frequento regolarmente da
quando sono nato, il mio padrino è Orion Black
…”
“Davvero? Non lo
sapevo… Ma hanno solo figlie femmine?”
“Cygnus Black ha tre figlie,
Orion Black invece ha due maschi…”
“Ah per fortuna, sarebbe stata
una vera disgrazia se si fossero estinti pure
loro…”
Adrian Bradford, del quinto anno, m’interruppe, spostando di
nuovo il discorso su argomenti davvero poco leggeri di cui non capivo
niente e che mi misero addosso tanta tristezza: la famiglia di Alicia
Coulbourne si era definitivamente estinta quell’estate,
quando suo padre, unico erede maschio dei Coulbourne, era morto in un
incidente causato da dei babbani, lasciando una moglie e tre figlie
piccole … e nessun erede maschio…
“Stiamo sparendo dalla faccia
della terra, è questa la verità…
Quegli stramaledetti babbani… Siamo costretti a vivere nelle
difficoltà e nella clandestinità per colpa di
esseri inferiori… e a scuola, invece di insegnarci a
difenderci e a riprendere il nostro posto, permettono a tutti di
entrare! Hogwarts sta diventando un covo di sanguesporco e di
mezzosangue… E con questo ministero, poi, che non ci
protegge in alcun modo…. Se non cambierà
qualcosa, presto i purosangue non ci saranno più…
ci sarà solo feccia, dannata feccia…”
Rodolphus annuiva, mentre i suoi amici continuavano argomentando con
altri esempi sempre più spaventosi. A me mancava
l’aria… All’improvviso percepii dietro
la figura di Druella Black qualcosa di corvino e la mia attenzione si
ridestò, salutai Rod e gli altri con una scusa e tornai dai
miei: mia madre si stava complimentando con i Black ancora una volta
per la straordinaria bellezza di Narcissa, rendendoli particolarmente
orgogliosi… Forse ero ancora in tempo per fare il viaggio
con Bella! Mi avvicinai, tesi la mano, sfiorai la manica di quel
bell’abito verde che intravvedevo e pronto a intercettare gli
occhi attenti di Bellatrix sfoggiai il mio migliore sorriso,
salutandola tutto gentile.
“Buongiorno, Bellatrix
Black!”
Quando la ragazzina si voltò, però, rimasi a
bocca aperta: Andromeda era diventata graziosa almeno quanto sua
sorella, l’unica cosa che le distingueva era la luce
dolcissima che illuminava il suo sguardo, ben diverso dalla luce
maliziosa che illuminava costantemente la figura di Bellatrix.
“Sono Meda, non sono
Bella… Ciao Mirzam Sherton…”
Sembrava leggermente delusa che non l’avessi riconosciuta, io
diventai rosso, vergognandomi per la mia gaffe, d’altra parte
l’avevo vista da lontano e lei fino all’ultimo era
nascosta dietro la figura di sua madre.
“Sei di nuovo qui? Hai
già finito di giocare con i tuoi amici?”
Mia madre mi sorrise mentre continuavo a restare senza parole, poi vidi
Bella che scendeva dal treno, un bell’abito rosso che
risaltava il suo incarnato e un fiocco che le fermava i capelli in una
ricca treccia corvina.
“Io…
pensavo… se Bella non ha già trovato un posto
migliore sul treno… io… beh potremmo fare il
viaggio insieme… così potrei raccontarle
qualcos’altro di Hogwarts…”
Cercai di usare la galanteria convenzionale del caso, per dissimulare
che desideravo davvero passare tutto quel lungo, altrimenti noioso,
tempo con lei.
“Che ragazzino gentile e
premuroso… sarebbe davvero un’ottima soluzione se
i nostri ragazzi facessero questo viaggio insieme, voi che ne
dite?”
Druella tutta esaltata guardava, speranzosa, mio padre e mia madre, che
non avevano nulla da obiettare, Cygnus prese con mala grazia per la
collottola il suo elfo e gli impose di sbrigarsi a spostare i bagagli
di sua figlia nello scompartimento in cui si trovavano i
miei… Io ero completamente rosso ed emozionato: avrei
passato tutto quel tempo, per la prima volta lontano dai miei, con la
ragazzina che mi toglieva il sonno ormai da un paio di anni. La
guardai: era meravigliosa, con gli occhi rilucenti di un delizioso
compiacimento. E non era l'unica a essere compiaciuta in quel
momento
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti,
recensito ecc ecc.
Valeria
Scheda
Immagine: al
momento non riesco a ritrovare la fonte di questa immagine.
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