Riporto
come da prescrizione lo specchietto di presentazione della storia al
contest:
Nome
sul forum: OldFashioned
Nome
su EFP: Old Fashioned
Titolo:
Opus Magnum
Artista
e opera: Wallis, Chatterton
Genere
e rating: Genere Giallo, Sottogeneri Azione, Mistero, Storico. Rating
Giallo
Lunghezza storia: Il contatore di Libre Office mi
dà 23.774 parole. La storia è composta da 42
pagine suddivise in 3
capitoli.
Note: nonostante il soggetto fosse assai
evocativo in tal senso, ho preferito evitare tutte le storie
romantiche, sia perché il genere slash non veniva accettato,
sia
perché a prescindere da ciò il genere romantico
non è esattamente
il mio. Ho pensato di fare in modo che il quadro diventasse una
"scena del delitto", di quello che a prima vista appare un
suicidio ma poi si rivela non esserlo affatto. La storia è
ambientata nel 1752 in Prussia ed è un breve giallo che ha a
che
fare con società segrete e alchimia. L'investigatore
è un ufficiale
di Federico il Grande.
OPUS
MAGNUM
Parte prima – Nigredo
Espressione alchemica
che
indica il primo procedimento dell’Opera: consiste nella
soluzione o
liquefazione, cioè nella morte del Dragone. È il
Solve che
consentirà il Coagula.
Il roseto era in piena
fioritura.
Vi erano corolle di un bianco candido, vaporose come nuvole, altre di
un rosa carnicino, fiori in boccio tondi e compatti che lentamente si
schiudevano petalo dopo petalo, altre ancora di un colore sanguigno,
vellutato, che nella luce dorata del tardo pomeriggio diventava un
vermiglio sontuoso.
Una dama dal volto pallido e
fine, con l’acconciatura incipriata e un abito di seta sui
toni del
verde, si fermò davanti a una pianta un po’
isolata dalle altre,
raccolse un fiore nella coppa delle mani e si chinò ad
aspirarne il
sentore delicato. Poi si raddrizzò e sfiorò con
le dita i petali,
che erano bianco alabastro sul bordo e delicatamente rosati nella
parte più interna.
“Questa varietà
l’ho
chiamata come lui,” sospirò.
L’uomo che la
accompagnava, un
imponente ufficiale della Guardia che aveva i suoi stessi occhi
cerulei, le chiese: “Konstantin?”
“Sì, mi ricorda il
suo
incarnato.”
Fecero qualche passo lungo il
vialetto coperto di ghiaia. L’aria era tiepida, carica degli
effluvi della tarda primavera e vibrante del canto degli uccelli.
“È molto che non lo
senti?”
chiese l’uomo.
“Da Natale. Mi ha mandato una
lettera in cui diceva che stava bene e ripeteva che non aveva
intenzione di tornare a casa.” Si interruppe, emise un
secondo
sospiro. Si voltò a dare un ultimo sguardo al roseto, dove
la pianta
battezzata Konstatin brillava in un’aiuola tutta per
sé, poi
disse: “Ti ricordi quando era piccolo?”
L’ufficiale
annuì. Un
frugoletto dai capelli color fiamma, il cui massimo divertimento era
fare il cavalluccio sulle sue ginocchia. “Diceva che sarebbe
diventato come me.” Lo rivide girare per le sale della
residenza
agitando una spada di legno, con il suo tricorno che gli scendeva
fino agli occhi e lo costringeva a tenere una comica postura con la
testa rovesciata all’indietro.
“E adesso, invece...”
mormorò
la donna, sedendosi su una panchina di marmo. La voce aveva
un’incrinatura di pianto.
L’uomo si sedette
accanto a
lei, le prese una mano, la strinse fra le sue. “Gli
parlerò io,
Luise. Lo convincerò a tornare.”
L’altra estrasse un
fazzolettino dalla scollatura e si tamponò gli occhi.
“Non servirà
a nulla. Non ha mai risposto a nessuna delle mie lettere, tutti i
soldi che gli ho mandato li ha rispediti indietro. Dice che vuole
stare a Berlino e vivere delle sue poesie. Dice che non ha nessuna
intenzione di diventare ufficiale come Leopold e Gottfried.”
Alla frase fece seguito un
lungo
silenzio. Il sole stava calando e le ombre degli alberi disegnavano
sul prato lunghe strisce scure. Sulla linea dell’orizzonte il
cielo
cominciava a prendere un tono aranciato. “Sarà
meglio che
rientriamo,” disse l’ufficiale alzandosi. Porse il
braccio alla
sorella.
I due si incamminarono fianco
a
fianco verso un palazzo che si stagliava imponente dietro la
vegetazione.
†
La sala di marmo del Sanssouci
era occupata da un minuetto in pieno svolgimento.
In piedi vicino alla parete,
le
braccia dietro la schiena, il colonnello della Guardia Wilhelm von
Kleist seguiva distrattamente le evoluzioni delle coppie.
Ripensava al colloquio avuto
con
la sorella sul figlio di lei, ovvero il suo giovane nipote
Konstantin, che si ostinava nonostante ogni preghiera a vivere di
ristrettezze in una specie di topaia.
Considerò che se il
ragazzo
avesse avuto quella stessa determinazione nel diventare ufficiale, a
quel punto sarebbe già stato da almeno un anno
Fahnenjunker[1] nel
suo stesso reggimento, proprio come avrebbe tanto voluto fare da
piccolo.
Poi però si era
iscritto
all’Università, aveva conosciuto altri studenti,
si era riempito
la testa di idee strane e alla fine aveva abbandonato Potsdam e le
tradizioni di famiglia in favore di una solitaria vita da spiantato
nella Capitale.
Sospirò. Aveva
abbandonato la
disponibilità a comprendere certe ubbie giovanili dopo il
primo
fischiare di pallottole in campo aperto.
Mentre stava così
meditando,
fecero il loro ingresso nella sala tre donne. Il loro aspetto lo
colpì immediatamente, in primo luogo perché erano
tutte e tre molto
belle, e in secondo luogo perché la loro avvenenza aveva un
che di
vistoso e selvaggio, con una nota esotica che al tempo stesso
affascinava e spingeva sulla difensiva.
La più vecchia
poteva avere sui
quarant’anni. Era alta quasi come lui e asciutta come un
abete.
Aveva occhi neri dallo sguardo febbrile, che brillavano come braci in
un viso di eccezionale pallore. I suoi lineamenti erano severi ed
eleganti come quelli di una kore
greca. Portava un collier di rubini che sembrava uno spruzzo di
sangue. Nei generali toni pastello della sala, il suo abito scarlatto
impensieriva come un principio di incendio.
Le altre due dovevano essere
le
figlie, perché le somigliavano straordinariamente ma erano
molto più
giovani. Una aveva occhi verde acqua, l’altra li aveva neri
come la
madre. Nemmeno la meticolosa incipriatura riusciva a nascondere del
tutto l’ebano lucente delle loro capigliature.
Anch’esse avevano
abiti dai
colori sgargianti, una celeste e l’altra verde smeraldo, di
seta
lucida e frusciante.
Una voce lo distrasse dalla
contemplazione: “Anche voi siete incantato dalle nostre
ospiti, von
Kleist?”
L’ufficiale si
voltò e vide
von Bissing, un collega della cavalleria. “Chi
sono?” gli chiese
semplicemente.
“Non lo sapete? L’alchimista
e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.”
L’uomo ebbe un
sogghigno. “Pensate, la più vecchia, una certa madame
de Pfuel, si è
presentata a Sua Maestà sostenendo di essere in grado di
creare
l’oro a partire dai metalli vili.”
“E Sua
Maestà?”
Von Bissing fece
un’altra
risatina. “Invece di cacciarla come tutti si sarebbero
aspettati,
le ha concesso una rendita e una villa sul Templiner See. Pensate che
vi ha addirittura fatto allestire un laboratorio secondo le sue
richieste, in modo che madame potesse fare le sue trasmutazioni.”
Alzò le spalle e soggiunse: “Del resto, se quelle
due figliole
arrivassero nel mio reggimento con la pretesa di fare gli ufficiali,
pensate che mi libererei di loro?”
Von Kleist diede un altro
sguardo
alle giovani, che pur costrette nei rigidi passi del minuetto
sembravano delle nereidi intente a giocare fra le onde. “Non
credo
proprio,” concluse.
“Ecco, appunto. Ma ora basta
contemplare le grazie muliebri, collega. Di là ci sono von
Zieten e
von Falkenhausen che avrebbero piacere di rievocare qualche aneddoto
di guerra in vostra compagnia.”
Von Kleist si
staccò dalla
parete per seguirlo, ma nel movimento il bastone da passeggio col
pomolo d’argento che vi aveva appoggiato cadde a terra.
Al rumore del legno sul
pavimento, la ragazza in verde abbandonò le danze agile come
un
felino, raccolse l’oggetto e glielo porse. “A voi,
signor
ufficiale,” disse fissandolo negli occhi. La voce era bassa e
leggermente arrochita. Evocava la zampa di un gatto, morbida ma con
dentro gli artigli.
“Molte grazie, mademoiselle,”
disse l’altro accennando un inchino, ma la giovane stava
già
raggiungendo la sorella.
“Muovetevi, von
Kleist!” lo
richiamò alla realtà von Bissing, tirandolo
scherzosamente per una
manica.
Si spostarono in un salottino
in
cui il colore dominante era il blu scuro delle uniformi. La musica
giungeva ovattata e in generale la confusione del ricevimento era
solo un’eco lontana.
“Ve l’ho portato,
finalmente!” annunciò von Bissing ai presenti.
Tutti si voltarono nella loro
direzione.
“Buona sera!” disse
von
Kleist a voce alta. “Nel vedere lor signori tutti insieme mi
sembra
di tornare alla vigilia della battaglia di
Hohenfriedberg[2].”
“Il nostro ottimo von
Kleist!”
lo salutò un generale sollevando nella sua direzione il
calice che
teneva in mano.
L’ufficiale rispose
al saluto
con un cenno del capo. “Generale von Falkenhausen.”
“Venite qui, ragazzo mio.
Prendete un po’ di questo chiaretto, non
c’è niente di meglio
per scaldare il cuore di un vecchio soldato.” Fece una pausa,
che
utilizzò per bere un sorso. “Sebbene voi non siate
affatto
vecchio, dico bene?”
“Lo è quanto basta
per
abbandonare la sala senza rimpianti quando entrano le due ragazze von
Pfuel!” intervenne ridendo un altro ufficiale.
“Me lo ricordo quando era un
giovane sottotenente nella battaglia di Mollwitz,”
replicò von
Falkenhausen. “Quanto tempo è passato da
allora?”
Von Bissing fece il conto.
“Dieci
anni, signor generale.”
“Ne avete fatta di carriera in
questo decennio, ragazzo mio.”
Un altro ufficiale si
avvicinò
al gruppetto e disse: “Niente rende rapide le carriere come
le
promozioni per meriti sul campo.” Alzò a sua volta
il bicchiere in
direzione di von Kleist, poi aggiunse: “E per fortuna, presto
ci
sarà nuovamente questa magnifica occasione per tutti noi. Io
credo
che tra un po’ ci sarà una guerra.”
“Voi dite?”
domandò
qualcuno, con un tono a metà fra la preoccupazione e
l’aspettativa.
L’altro
annuì grave.
“L’arcinemica del nostro amato sovrano, Maria
Teresa d’Austria,
non rinuncerà facilmente alla Slesia.”
Si fece avanti von Zieten, un
colonnello di un reggimento di linea: “Non si è
ancora rassegnata?
Ha bisogno di un altra Kesseldorf[3] per capire come stanno le
cose?”
“Non si rassegnerà
mai. C’è
un odio personale tra lei e Sua Maestà. Del resto lo sanno
tutti in
che rapporti sono. Io credo che Maria Teresa tenterà di
allearsi con
Caterina di Russia per stringere la Prussia in una morsa.”
Il generale von Falkenhausen
vuotò il bicchiere e lo appoggiò sul tavolino,
poi solennemente
proclamò: “Io dico che finché il nostro
amato sovrano ci
comanderà in battaglia, sarà impossibile che
quella strega riesca a
mettere le mani sulla Slesia, o su qualsiasi altra parte del regno di
Prussia!”
Tutti approvarono
rumorosamente,
venne versato un nuovo giro di chiaretto, si brindò alla
salute del
Re.
†
Il colonnello von Kleist non
fece
in tempo a scendere dalla carrozza che già la porta del suo
alloggio
si era aperta e sulla soglia era comparsa la figura erculea del suo
valletto con un candelabro in mano.
“Bentornato,
Eccellenza,” lo
salutò l’enorme giovanotto con un inchino.
“Grazie, Franz.”
L’ufficiale
entrò nell’ingresso e si accorse che su una delle
mensole che si
trovavano sotto le specchiere c’era un vassoio
d’argento con una
busta. “Cos’è quella?” chiese.
L’altro
scattò sull’attenti.
“Una lettera, Eccellenza.”
Von Kleist sorrise.
“Una
lettera, di chi?”
“Non saprei,
Eccellenza.”
“Chi l’ha
portata?”
“Uno che ha detto di venire da
Berlino, Eccellenza.” Poi, dopo una pausa, con tono vagamente
incerto: “Dovevo trattenerlo, Eccellenza?”
“No, hai fatto bene a mandarlo
via. Gli hai dato un Groschen[4] di mancia come ti ho
insegnato?”
Franz annuì fiero.
“Sì,
Eccellenza.”
“Molto bene. Ora portami quella
lettera e va a dormire.”
“Sì,
Eccellenza.”
Von Kleist si
ritirò nella sua
stanza, quasi sollevato dal non sentirsi rivolgere l’epiteto
‘Eccellenza’ ogni tre parole. Kretschmer era un
bravo ragazzo, ma
faticava ancora a capire quando era il caso di usare le cerimonie e
quando invece sarebbe stato necessario un tono più
informale.
Prese la busta e lesse il
mittente. Sorrise fra sé e sé: lupus
in fabula. Forse
Konstantin dopotutto si era stufato di fare l’anacoreta.
Aprì la lettera e
subito sollevò
le sopracciglia perplesso. Se non fosse stato più che sicuro
di aver
riconosciuto la grafia di suo nipote, avrebbe giurato di aver a che
fare con un impostore che si spacciava per lui.
Ciò che stava
leggendo non aveva
nulla a che fare con il Konstantin che conosceva, tanto che la
seconda ipotesi che formulò fu quella della malattia. Forse
il
ragazzo non stava bene con la testa.
Rilesse la lettera:
Stimatissimo signor
zio,
è vero
senza menzogna, certo
e verissimo che voi siete il mio zio prediletto.
Mi rivolgo a voi
nell’ora
del bisogno, e non esito a dirvi che mai mi sono trovato, nella mia
breve vita, in una tale profonda e impellente necessità
della vostra
presenza.
Qualora voi veniste a
trovarmi
ma io non ci fossi, guardate con melancolia fuori dalla finestra:
allora ciò che era manifesto sarà nascosto e
ciò che era nascosto
sarà manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il
motivi
del mio turbamento.
Vi prego, caro signor
zio, non
indugiate: se voi non intervenite, il nostro sole potrebbe essere
spento per sempre da una luna invidiosa.
Il vostro devoto
nipote
Konstantin von Jagow
Von Kleist rilesse ancora una
volta la lettera, capendoci ancora meno. L’unica cosa chiara
di
tutta la missiva era che il ragazzo aveva bisogno di vederlo con
urgenza.
Trasse di tasca una chiave,
andò
a uno stipo e lo aprì: dentro vi erano vari sacchetti di
talleri. Ne
prese qualcuno. Sicuramente Konstantin si era messo in qualche guaio
che non aveva il coraggio di confessare ai genitori. Probabilmente
cercava di attirarlo a Berlino per intenerirlo facendo leva
sull’affetto che nonostante tutto sapeva di suscitare in lui.
Poco male: questa volta
l’avrebbe
riportato indietro. Con la forza, se necessario. Quello stupido gioco
di fare il poeta spiantato era già durato anche troppo a
lungo.
“Franz!”
chiamò.
Si udì un
tramestio, poi
comparve il ragazzone in camicia da notte.
“Eccellenza?”
“Prepara tutto, domattina
partiamo per Berlino.”
“Sì,
Eccellenza.”
†
Il giorno dopo, di buon
mattino,
Wilhelm von Kleist salì sulla carrozza portando con
sé cinquecento
talleri, il suo bastone animato, la sua spada e un paio di pistole
cariche. Non che pensasse di fare chissà cosa, ma il tono
della
missiva di Konstantin non gli era piaciuto per niente, e non voleva
rischiare di farsi cogliere alla sprovvista in nessuna situazione.
A cassetta con il cocchiere
sedeva il suo valletto, al quale probabilmente sarebbe bastata la
sola mano sinistra per ridurre all’impotenza il suo efebico
nipote.
Se il ragazzo si fosse ribellato ancora una volta alla voce del buon
senso, avrebbe dato ordine a Franz di caricarselo in spalla. Ormai
non ne poteva più di certi capricci da bambino viziato.
Sorrise fra sé e
sé
nell’immaginare la scena.
La carrozza si mise in
movimento.
Si lasciò in breve alle spalle la cittadina di Potsdam, e
dopo un
breve tratto di campagna giunse ai sobborghi di Berlino.
Da lì non fu
difficile arrivare
all’edificio in cui aveva trovato alloggio di Konstantin.
La carrozza vi si
fermò proprio
davanti, attirando lo sguardo di parecchie persone: non dovevano
passarne molti, di esponenti della nobiltà, da quelle parti.
Nella curiosità
generale,
l’ufficiale scese e rimase a guardarsi intorno con i pugni
puntati
sui fianchi. Se quello fosse stato un acquartieramento per le sue
truppe, avrebbe dato una bella strigliata a chi gliel’aveva
messo a
disposizione. “Franz!” chiamò.
“Eccellenza?”
“Va a vedere se
c’è qualcuno
in questa topaia.”
“Sì,
Eccellenza.” Il ragazzo
salì i gradini che conducevano al portone
d’ingresso e batté
qualche colpo sulla porta.
Von Kleist nel frattempo
osservava critico il palazzo: era un caseggiato di quattro piani, con
la facciata di mattoni scuri e le finestre piccole. Qualche vetro era
stato sostituito da tavolette di legno.
In generale aveva un aspetto
umido e fatiscente, che non invitava certo a prendervi alloggio.
Se mai ce ne fosse stato
bisogno,
quella era un’altra conferma della necessità di
portare Konstantin
in ambienti più consoni al suo rango e alla sua cultura.
Nel frattempo, il portone si
era
aperto e sulla soglia era comparsa una signora di
mezz’età corpulenta e bassa di statura, con un neo
posticcio sulla guancia e
un’elaborata parrucca di crine bianco. “Che
cos’è questo
fracasso?” inveì la donna, asciugandosi le mani
arrossate nel
grembiule che aveva addosso. Poi notò alle spalle di Franz
la
presenza della carrozza, ma soprattutto di von Kleist. Immediatamente
si ricompose e omaggiò quest’ultimo di una
riverenza. “Signor
ufficiale...” disse ossequiosa.
Il colonnello si fece avanti e
si
presentò, poi chiese: “Abita qui Konstantin von
Jagow?”
La signora rimase perplessa.
“Von
Jagow?” ripeté. Dall’espressione era
piuttosto evidente che il
nome non le diceva nulla.
“Un giovane di circa
diciott’anni, con i capelli rossi, snello, non
particolarmente
alto.”
La signora tirò
fuori dai
recessi del suo abito una lorgnette e squadrò con quella il
colonnello, come se il vederlo attraverso le lenti avesse il potere
di rendere più chiara la descrizione del misterioso
inquilino.
Infine disse: “L’unico che potrebbe corrispondere
alla vostra
descrizione è il signor Theophrastus.”
“Theophrastus?” fece
eco von
Kleist perplesso.
La donna si sciolse in un
sorriso
affettuoso. “Un giovanotto che sta all’ultimo
piano. Tanto
beneducato e gentile. Non fa mai rumore, non disturba mai. Qualche
volta non ha i soldi per l’affitto, ma io gli faccio sempre
credito, sapete? E immancabilmente dopo qualche giorno lui mi paga
fino all’ultimo Pfenning.”
“Vorrei parlare con
lui,”
disse l’ufficiale. Tirò fuori dalla tasca un mezzo
tallero
d’argento.
Alla vista della moneta, la
signora si illuminò in viso. “Vi faccio
strada!” esclamò, e
raccolte le gonne li precedette in un androne che sapeva di cavolo
bollito e salsiccia di fegato.
Dopo innumerevoli rampe di
scale,
l’ultima delle quali ripidissima e piuttosto tarlata,
arrivarono a
una soffitta. Nonostante la stagione, il luogo era freddo e
l’aria
umida. Refoli di vento si insinuavano dalle finestre con i vetri
rotti. Un piccione si alzò in volo con gran sbattere di ali
al loro
arrivo.
“Ecco qua,” disse la
signora,
con un po’ di affanno per via delle scale. “Un
posticino
tranquillo e confortevole per un giovane studente.” Poi si
avvicinò
a una porta e bussò con discrezione. “Signor
Theophrastus?”
Non le giunse risposta.
“Strano,”
constatò la donna,
poi bussò in modo più energico. “Signor
Theophrastus? Ci sono
delle visite per voi!”
“Konstantin!”
subentrò il
colonnello, “Sono io, lo zio Wilhelm! Apri la
porta!”
Ma di nuovo rispose solo il
silenzio.
“Siete sicura che non sia
uscito?” chiese l’ufficiale.
“Sicurissima, Eccellenza.
Probabilmente starà dormendo. Sapete come sono gli studenti:
fanno
tardi la sera, fanno baldoria, e poi...” Alzò gli
occhi al cielo.
Il colonnello bussò
di nuovo,
poi provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a
chiave.
“Konstantin!” ripeté, “Apri!
Sono tuo zio Wilhelm!”
Al protrarsi del silenzio, si
rivolse alla signora: “Aprite quella porta!”
La donna tirò fuori
dalle pieghe
del vestito una chiave universale e fece scattare la serratura,
quindi dischiuse l’anta e si affacciò
all’interno. Subito si
portò le mani al viso e strillò: “Mio
Dio!”
Franz fece appena in tempo ad
afferrarla prima che crollasse al suolo svenuta.
Von Kleist si
affacciò a sua
volta nella misera stanzetta: Konstantin giaceva immobile sul letto.
Aveva visto abbastanza cadaveri nella sua carriera da capire con
sicurezza che suo nipote era morto.
Fece qualche passo nella
camera.
Il ragazzo era posizionato su un fianco, con il capo abbandonato
sulle coltri e un braccio che pendeva verso terra. I capelli color
fiamma, sciolti, rendevano ancora più profondo il pallore
dell’incarnato. Aveva addosso una camicia bianca, un paio di
pantaloni color indaco, le calze e una sola scarpa. La marsina rosso
scuro era appoggiata alla spalliera di una sedia.
Accanto al letto
c’era un
piccolo baule aperto e pieno di carte strappate. Sul pavimento, poco
lontano dalla mano del giovane, si trovava una fialetta di vetro.
Si avvicinò, gli
toccò il
collo: la pelle era già fredda, non vi era più la
pulsazione delle
arterie.
Aggrottò le
sopracciglia: perché
mandargli quella lettera chiedendogli di raggiungerlo, se poi la sua
intenzione era quella di uccidersi? O quello di uccidersi era stato
un gesto impulsivo, dettato dal suo carattere irruente?
Si guardò intorno:
la stanza era
di una miseria sconcertante. A parte il letto, coperto da un semplice
panno marroncino, gli unici mobili presenti erano una sedia e un
tavolino con sopra una bugia. La candela doveva essersi consumata di
recente, perché dal piccolo oggetto si levava ancora un
lieve filo
di fumo.
Sempre sul tavolino
c’era
l’abbozzo di una lettera indirizzata alla madre.
Dietro il letto
c’era una
finestra aperta, sul davanzale c’era un vaso di terracotta in
cui
cresceva una piantina di rose.
Sospirò al pensiero
di quello
che avrebbe dovuto dire a sua sorella.
Si avvicinò al
ragazzo, lo
osservò con più attenzione. La prima cosa che lo
colpì fu la pace
che sembrava distendere i suoi lineamenti. La fialetta di vetro
suggeriva che per uccidersi avesse usato del veleno, ma nessun veleno
di sua conoscenza regalava una tale tranquillità nella
morte. Di
solito il trapasso avveniva fra atroci dolori, in mezzo a sbocchi di
sangue, vomito ed escrementi.
Konstantin invece sembrava un
Endimione. Peraltro non c’erano né macchie
ipostatiche né
rigidità cadaverica, sebbene non vi fosse ormai
più traccia di
calore corporeo.
E la camicia. Era aperta fino
alla cintura. Il ragazzo non l’aveva mai portata in quel
modo, lo
riteneva volgare. Scostò appena i lembi
dell’indumento e notò al
centro del petto, proprio alla fine dello sterno, una macchia scura.
Una delle mani di Konstantin si trovava proprio lì, come se
quell’alone fosse il segno di qualcosa che gli aveva in
qualche
modo provocato sofferenza.
Sotto il letto
trovò la scarpa
mancante, in una posizione in cui non poteva essere finita
perché
sfilatasi dal piede dopo la morte. Da quando in qua ci si suicida con
una scarpa sola, pensò?
Guardò le carte a
brandelli:
erano fogli scritti. Tutto suggeriva che il giovane li avesse
stracciati prima di porre fine alla propria esistenza.
Controllò in giro,
guardò nel
cassetto del tavolino, ma a parte la chiave della stanza non
trovò
nulla di rilevante, né soldi né oggetti preziosi.
Udì passi pesanti
su per le
scale e dopo un po’ si affacciò Franz, che
osservò la scena,
assunse un’aria costernata ed esclamò:
“Eccellenza! Povero
signorino...”
Quell’accorata
constatazione
ebbe il potere di spingere brutalmente von Kleist fuori dalla trincea
di distacco che era riuscito a crearsi. Di colpo realizzò
che il
corpo lì steso era quello del bimbo che gli saltellava sulle
ginocchia cantando ‘Hoppe
Hoppe Reiter’[5] e
del giovanotto per cui aveva immaginato una carriera nella Guardia.
“Sì, povero signorino,”
sospirò.
Lo rivide in uno dei suoi
atteggiamenti favoriti: chino su un libro, la mano a sostenergli il
volto, lo sguardo assorto. I capelli sciolti che gli ricadevano da un
lato come una cortina di rame lucente.
Diede un’ultima
occhiata al
corpo immobile, poi trasse un secondo sospiro e disse: “Bene.
Mettiamoci al lavoro, ci sono parecchie cose da fare. Vammi a
chiamare la padrona di questo posto.”
“Sì,
Eccellenza.” Franz
scomparve giù per la scala.
Rimasto solo, von Kleist prese
tutti i brandelli di carta che riuscì a trovare, sfilandoli
addirittura dalla mano gelida di Konstantin, e li ripose nel baule,
poi prese il fazzoletto e con esso raccolse la fialetta di vetro, che
poi si mise in tasca.
Guardò in giro una
seconda
volta, controllò anche le tasche della marsina abbandonata
sulla
sedia, ma non trovò nulla. Considerò fra
l’altro che non c’era
un Pfenning[6] in tutta la stanza, e che i miseri averi del ragazzo
ammontavano a pochi vestiti, qualche oggetto da toeletta, una penna e
un calamaio.
Rivolse una nuova occhiata al
corpo. Konstantin si era suicidato per disperazione? Forse aveva
pensato che nonostante la lettera nessuno sarebbe arrivato a
soccorrerlo? Cosa gli aveva impedito, se era in tali ristrettezze, di
tornare a Potsdam anche a piedi? L’orgoglio, forse? Ma allora
perché scrivere quella lettera?
Scosse la testa: in quel
suicidio
c’erano parecchie cose che non quadravano affatto.
Sentì di nuovo i
passi di Franz
salire le scale. Alle sue spalle una voce femminile diceva:
“Ah,
no! Io lassù non ci torno per tutto l’oro del
mondo! Signore
Iddio, non dimenticherò quello spettacolo campassi mille
anni!”
“Arriva la signora,
Eccellenza,” annunciò il valletto.
“Vi ho detto di no!”
si fece
udire la voce della donna dal piano di sotto. “Io
lassù non ci
salgo. Venite voi quaggiù, Eccellenza, se volete
parlarmi.”
Von Kleist emise uno sbuffo
infastidito. Si avvicinò alla tromba delle scale e in tono
severo
chiese: “Come vi chiamate, signora?”
“Hermine
Pfannenschmied.”
“Molto bene, signora
Pfannenschmied. Io ho appena perso mio nipote. Fatemi il favore di
non creare ulteriori turbative con le vostre paturnie.”
Il tono del colonnello
convinse
la signora a salire le scale senza replicare.
Quando furono faccia a faccia,
von Kleist le disse: “Ora voglio che voi chiudiate la porta e
la
finestra di questa stanza e che non facciate entrare nessuno fino a
che non verranno a prendere il corpo, cosa che succederà al
più
tardi domattina. Il ragazzo vi doveva qualcosa?”
La donna esitò.
“Allora?”
“Ecco…
l’affitto del mese,
Eccellenza.”
Von Kleist le diede un tallero
d’argento. “Prendete questo. Se seguirete le mie
istruzioni alla
lettera, quando tornerò ve ne darò un
altro.”
Alla signora Pfannenschmied si
illuminarono gli occhi. “Oh, grazie, Eccellenza!”
esclamò.
“State tranquillo, vigilerò io personalmente:
nessun altro metterà
piede in questa stanza.”
L’ufficiale
annuì soddisfatto
e disse: “Franz, prendi il baule del signorino e portalo
sulla
carrozza.” Poi, rivolto alla donna: “Come vi ho
detto, torneremo
al più tardi domattina.”
†
L’incontro
con la sorella
era stato più straziante del previsto. Von Kleist aveva
già avuto
l’ingrato compito di recare simili annunci alle famiglie di
giovani
ufficiali caduti del suo reggimento, ma nulla l’aveva
preparato
all’abisso di dolore in cui era sprofondata Luise nel
ricevere la
notizia.
Non aveva versato una
lacrima,
non aveva emesso un suono. Era rimasta immobile, aveva rifiutato gli
abbracci, si era lasciata scivolare addosso le parole di conforto.
Solo i suoi occhi chiari si erano incupiti come laghi che in inverno
si coprono di ghiaccio. Infine si era alzata dalla sedia lenta,
solenne, già un’ombra dolente di quello che era
stata. “Vado al
roseto,” aveva annunciato con voce incolore, ed era scomparsa
nel
parco.
Osservò il bauletto
che aveva
preso nella camera di Konstantin. Un semplice contenitore di legno,
del valore di pochi Pfenning.
Rivide il corpo adagiato, la
miseria delle poche cose che lo circondavano, lo squallore della
soffitta umida e sporca.
Nulla quadrava.
Il fatto che il ragazzo gli
avesse inviato una lettera in cui chiedeva il suo aiuto ma poi si
fosse comunque
ucciso. Il contenuto della lettera: frasi sconnesse, senza apparente
senso. Il contesto in cui aveva trovato il corpo: elementi che
deponevano a favore di un suicidio ma altri che sembravano negarlo
nella maniera più decisa.
Inspirò
profondamente. Forse era
il coinvolgimento affettivo che lo rendeva incapace di ragionare in
modo razionale. Forse la morte assurda del suo nipote prediletto gli
faceva desiderare e quindi immaginare che ci fossero persone a cui
poter attribuire la colpa di quanto era successo.
Aprì il baule,
rovistò
immergendo la mano fra i brandelli di carta straccia. Potevano essere
le sue poesie? Tirò fuori una manciata di frammenti,
cominciò ad
allineare sul tavolo i pezzetti di carta. ‘Mio caro
Theophrastus,’
lesse su uno di essi.
Alzò le
sopracciglia: dunque
erano lettere. O perlomeno c’erano anche delle lettere in
quel
mucchio di frammenti.
Liberò
completamente il tavolo,
vi rovesciò sopra il contenuto del baule, stando ben attento
a non
perdere nemmeno un brandello. “Franz!”
chiamò.
Subito comparve il valletto.
“Eccellenza?”
“Franz, va a preparare della
colla arabica e poi portamela assieme a dei fogli di carta.”
“Sì,
Eccellenza.”
Era stata necessaria tutta la
notte, ma alla fine von Kleist era riuscito a ricomporre il contenuto
del baule, che stava finendo di asciugarsi incollato su fogli
più
grandi.
Osservò il
risultato del suo
lavoro. C’era un disegno che rappresentava una donna alata in
posizione seduta, con una corona di fiori sul capo e un compasso in
mano, circondata da svariati oggetti. Nella figura si vedevano anche
un putto e un cane, un quadrato con dentro dei numeri e un solido
dalla forma strana.
C’erano dei versi.
Rime che in
apparenza non avevano alcun senso, con espressioni come sole
nero, lupo dei metalli
o bagno
dell’androgino.
Infine c’erano delle
lettere.
La grafia non era quella di Konstantin. Erano tutte indirizzate a
Theophrastus e firmate da un certo Basilius. In esse si faceva
riferimento fra le altre cose a una Grande Opera che doveva essere
portata a compimento e a una Regina che l’avrebbe resa
possibile.
In tutte le lettere ricorreva una specie di sigla, V.I.T.R.I.O.L.,
che si trovava sempre prima della firma, al posto dei convenzionali
saluti.
Se Konstantin era uscito di
senno, quindi, non era rimasto solo nella sua follia: c’era
perlomeno un’altra persona che aveva vaneggiato con lui, e
che
aveva scambiato con lui delle misteriose missive.
Immaginò che
Basilius fosse un
nome falso esattamente come Theophrastus, quindi non avrebbe avuto
alcun senso andare a cercarlo. Non come Basilius, in ogni caso.
Uno scambio di lettere,
ragionò,
presuppone che ci sia qualcuno che porta le suddette lettere avanti e
indietro. Sarebbe bastato trovare quel qualcuno.
†
Arrivò alla
pensione della
signora Pfannesnschmied proprio mentre stavano caricando su un carro
la bara di Konstantin. Per l’occasione, la donna aveva
indossato
uno scialle nero, e in piedi sulle scale seguiva il feretro con un
atteggiamento di serietà grave. Non appena lo vide
sopraggiungere
gli andò incontro e, a bassa voce per non turbare la
solennità del
momento, lo informò che aveva seguito le sue istruzioni alla
lettera, e che nessuno poteva aver messo piede nella stanza che era
stata del signor Theophrastus.
“Molto bene,” rispose
von
Kleist.
La signora lo
scrutò per vedere
se era in arrivo il tallero promesso, ma l’ufficiale disse:
“Ho
ancora una cosa da chiedervi, signora Pfanneschmied.”
L’altra
faticò per nascondere
il disappunto che quell’ulteriore complicazione le
comunicava,
tuttavia chese: “Che cosa, Eccellenza?”
“Il signor Theophrastus
riceveva lettere?”
“Sì, Eccellenza.
Tutti i
giorni.”
“Chi le portava?”
“Un ragazzo. Non lo conosco di
nome.”
“Ne ha portate in questi ultimi
due giorni?”
“No, Eccellenza.”
Von Kleist sollevò
le
sopracciglia. “Molto interessante,”
constatò. “E il signor
Theophrastus scriveva lettere?”
“Sì,
Eccellenza.”
“Le consegnava a quel
ragazzo?”
“No, Eccellenza, quelle le
portava il nostro Sepp.”
“Posso parlarci, con questo
Sepp?”
La donna era sempre
più in
apprensione per il compenso promesso che sembrava non arrivare.
“Sì,
Eccellenza.” La sua espressione diceva chiaramente: purché
non gli venga in mente di darlo a Sepp, il mio tallero.
Grazie alle indicazioni del
giovane garzone di nome Sepp, che in effetti aveva quotidianamente
recapitato lettere da parte del signor Theophrastus, von Kleist
arrivò a una villa circondata da un parco.
Il posto aveva uno strano
aspetto
fatiscente, i vialetti erano invasi dalle erbacce, le piante erano
lasciate libere di crescere a loro piacimento. Qua e là si
vedevano
strane statue, isolate o in gruppi. Lo colpì un gruppo di
quattro
donne, ognuna in piedi su una sfera e con una specie di fiasco in
equilibrio sulla testa. Più oltre c’era una grotta
con l’entrata
fatta come le fauci spalancate di un drago. L’ipotesi della
follia
condivisa si fece più consistente. Suo nipote era stato un
ragazzo
intelligente, ma ingenuo e cresciuto negli agi: quanto poteva essere
stato difficile suggestionarlo o plagiarlo? Magari era venuto in
contatto con le stranezze che stava vedendo e ancora inesperto del
mondo, senza una guida che lo sostenesse, ne era stato risucchiato,
perdendo in tal modo il senno.
Mentre stava così
ragionando, la
carrozza arrivò allo spiazzo davanti all’ingresso
della villa e si
fermò.
L’edificio, che
aveva porta e
finestre serrate, era nelle stesse condizioni del giardino. Se non
fosse stato per un filo di fumo che si alzava da uno dei comignoli,
si sarebbe detto abbandonato.
Al centro della facciata
c’era
un bassorilievo che rappresentava un serpente nell’atto di
mordersi
la coda.
Franz scese dalla carrozza e
andò
a bussare alla porta.
Passò forse un
mezzo minuto
prima che l’anta si schiudesse. Sulla soglia comparve un
giovane
uomo con i capelli neri e il volto soffuso di pallore. Non aveva
l’aria di appartenere alla servitù.
Von Kleist scese a sua volta
dal
veicolo e si avvicinò. “Sto cercando la persona
che si fa chiamare
Basilius,” disse.
L’uomo si
voltò verso di lui,
lo squadrò con occhi così chiari da sembrare
senza colore. Non
parve particolarmente impressionato dal trovarsi di fronte un
ufficiale della Guardia. “Con chi ho
l’onore?” domandò.
“Siete voi Basilius?”
chiese
di rimando von Kleist.
“Forse. E voi chi siete, di
grazia?”
Di nuovo si squadrarono.
Nessuno
dei due abbassò lo sguardo. Infine, l’ufficiale
disse: “Il mio
nome è Wilhelm von Kleist. E ora vorrei sapere il
vostro.”
“Rainer Brandt.”
“Siete voi che vi fate chiamare
Basilius?”
“Sì. Posso sapere
perché
siete qui?”
“Il giovane che si faceva
chiamare Theophrastus è
morto, e vorrei cercare di capire perché, dal momento che
era mio
nipote.”
La frase suscitò
nel misterioso
padrone di casa poco più di un’alzata di
sopracciglio. “Mi
dispiace molto,” disse dopo un po’, “e vi
faccio le mie
condoglianze per il lutto che vi ha colpito.”
“Sapevate che era
morto?”
Brandt abbassò gli
occhi. “L’ho
appreso adesso da voi.”
“Lo conoscevate da
molto?”
“Qualche mese.”
“Come mai quei soprannomi nelle
lettere? Che cosa significano?”
Il giovane fece spallucce.
“Un
gioco fra noi.” Si accorse che von Kleist stava cercando di
dare
un’occhiata all’interno della villa e si chiuse la
porta alle
spalle. “La morte fa parte della vita,” disse poi.
“Certo è
penoso perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi.
Ma
purtroppo sono cose che succedono, e bisogna farsene una ragione. Vi
consiglio di darvi pace, cercare di ripercorrere i suoi ultimi
momenti nella speranza di trovare una spiegazione al suo gesto
sarebbe solo una pena inutile.”
Il colonnello fissò
di nuovo
negli occhi il suo interlocutore, poi annuì grave.
“Ma certo. Vi
chiedo scusa per il disturbo e vi auguro buona giornata, signor
Brandt.”
Tornò alla carrozza.
Mentre il veicolo procedeva
verso
Potsdam, von Kleist rimuginava sulle parole del misterioso signor
Brandt: Certo è
penoso
perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi.
Non aveva mai detto in che
modo
era morto Konstantin.
E poi c’erano quei
nomi strani,
Theophrastus e Basilius, che Brandt aveva liquidato definendoli un
gioco, e c’era in generale la sensazione che
quell’uomo sapesse
molto di più di quello che gli aveva rivelato.
Tutta la vicenda, del resto, a
partire dalla lettera che Konstantin gli aveva inviato e finendo con
il suo misterioso suicidio, se tale era stato, sembrava necessitare
di una chiave di lettura, senza la quale era destinata a rimanere
incomprensibile.
C’era un filo
conduttore che
univa tutti gli elementi in suo possesso, ne era certo, ma con le sue
competenze da militare non riusciva a coglierlo. Ci voleva un altro
tipo di sapienza.
†
Von Kleist si
guardò intorno
incuriosito: ogni volta che andava a fare visita al suo vecchio
compagno d’armi, trovava qualche nuova meraviglia da
ammirare.
Era costumanza che nei palazzi
agiati ci fosse una Wunderkammer[7]
piena di oggetti misteriosi provenienti da paesi lontani, ma la
residenza di Johannes von Ruchel era diventata nel corso degli anni
un’unica, immensa e fantastica Wunderkammer, dove scheletri
di
animali esotici si mescolavano con manufatti di popoli sconosciuti e
conchiglie madreperlacee gareggiavano in splendore con minerali
colorati.
Franz, che seguiva il
colonnello
a rispettosi tre passi di distanza con la cassetta e le lettere del
povero Konstantin, come ogni volta si guardava intorno a bocca
aperta, e di certo al ritorno da quella visita avrebbe intrattenuto
il resto della servitù per giorni con i racconti di
ciò che aveva
visto.
“Johannes?”
chiamò von
Kleist, procedendo con attenzione lungo un corridoio con due file di
armature da samurai allineate lungo le pareti. Le orbite vuote delle
maschere di lacca sembravano seguire il suo passaggio con disappunto,
come se la sua presenza in qualche modo le disturbasse.
“Johannes?”
“Sono qui,” rispose
una voce,
“nella stanza dei fossili.”
Poi si udirono il raschiare di
una sedia che veniva spostata e un passo claudicante, accompagnato
dal ticchettio regolare di un bastone. “Eccomi
qui,” disse un
uomo sulla quarantina, di altezza media, vestito con una semplice
camicia dalle maniche rimboccate e un paio di pantaloni scuri e
impolverati. I capelli biondi erano legati in una coda.
“Scusa la
tenuta, stavo classificando delle ammoniti,” si
giustificò. Poi si
rivolse al valletto: “Salve, Franz. Come stai?”
Il ragazzo accennò
un inchino.
“Molto bene, Eccellenza, grazie.”
“Beh, venite qui,”
disse il
padrone di casa. Poi, rivolgendosi a von Kleist: “Hai detto
che
avevi bisogno della mia sapienza,
se non sbaglio.”
Sempre appoggiandosi
pesantemente
al bastone, precedette i due verso un salotto dove si trovavano un
tavolino e delle poltrone. Fece cenno di sedersi e prese posto a sua
volta. “Hai visto?” chiese a von Kleist.
Batté con le nocche
sulla sua coscia destra, producendo un rumore legnoso.
“Questa
volta hanno fatto il tutore secondo il mio disegno. Quando lo porto
riesco quasi a camminare senza il bastone.”
“Ti fa ancora male?”
chiese
von Kleist.
L’altro
alzò le spalle. “Ormai
sono passati più di dieci anni da Chotusitz[8], ci ho fatto
l’abitudine. Quello che mi fa più male
è che adesso la mia unica
possibilità di servire il Reggimento è aiutarti
con le traduzioni
in latino.”
“Eri il migliore di noi, se ti
può consolare.”
Von Ruchel si
limitò ad alzare
di nuovo le spalle. “Allora, questa faccenda
misteriosa?” chiese
poi.
“Si tratta di mio nipote
Konstantin,” esordì von Kleist. Gli
raccontò tutto, senza
tralasciare il minimo particolare.
Alla fine gli porse la lettera
del ragazzo.
L’altro la lesse con
attenzione, poi rialzò lo sguardo e chiese: “Che
tu sappia, tuo
nipote si interessava di alchimia?”
“Di che?”
replicò von Kleist
perplesso.
“Alchimia. Solve
et coagula, pietra
filosofale, creazione dell’oro a partire dai metalli vili. Ti
dice
nulla?”
Von Kleist scosse la testa.
Infine ripensò alla serata al Sanssouci e chiese:
“Come quella
tale von Pfuel e le sue figlie?”
“Ah, quelle.” Von
Ruchel fece
una risatina. “Ne ho sentito parlare. Non so se lo sappiano creare,
l’oro, ma di sicuro sanno come fare per
accaparrarselo.” Poi,
dopo una pausa: “Comunque, per tornare a noi, nella lettera
del
povero Konstantin ci sono chiare allusioni alchemiche.
L’incipit è
l’inizio della Tabula
Smaragdina, e anche
quella frase sulle cose nascoste che divengono manifeste è
un chiaro
riferimento all’Arte.”
“Sarebbe?”
“L’Arte, o
Ars Regia, è
l’alchimia. La Tavola di Smeraldo è uno scritto
sapienziale
attribuito a Ermete Trismegisto.”
“Ne so quanto prima.”
L’altro
sospirò. “È per
dire che tuo nipote ha citato testi basilari di questa disciplina.
Posso tenere la lettera per qualche giorno? Vorrei studiarla
meglio.”
“Fa pure.”
Von Ruchel indicò
la cartella
che Franz aveva sulle ginocchia. “E lì cosa
c’è?”
“Lettere che Konstantin
riceveva da uno che si faceva chiamare con un soprannome. E che
chiamava lui con un soprannome. Poi c’è un disegno
strano.”
Tirò fuori la
figura ricomposta.
“È la Melancolia di
Dürer,”
disse von Ruchel dopo averla osservata. “Anche questa
è
un’immagine con chiarissimi riferimenti alchemici. Vedi, ci
sono la
scala a pioli che rappresenta le tappe della sapienza, la clessidra,
gli attrezzi… e poi c’è un quadrato
magico a sedici caselle,
proprio qui sulla destra, sopra la donna alata.”
Von Kleist osservò
la figura,
poi si passò una mano fra i capelli emettendo un sospiro.
“Tu dici
che mio nipote aveva perso il senno?” chiese dopo un
po’.
L’altro scorse le
carte. “No,
ma penso che si sia trovato in una faccenda più grande di
lui.”
“Che cosa, ad
esempio?”
“Non lo so, devo studiare
meglio tutte queste lettere.” Sfogliò il contenuto
della cartella
e come parlando fra sé e sé soggiunse:
“Sembra una specie di
codice da decifrare. Questi nomi, Basilius e Theophrastus, hanno di
certo un significato.”
Ci fu qualche secondo di
silenzio. Von Kleist fece scorrere lo sguardo sugli innumerevoli
oggetti che coprivano le pareti. Si fermò a fissare
un’ampolla di
alabastro di epoca romana.
“Tu credi che si sia
ucciso?”
buttò lì.
Tirò fuori dalla
tasca il
fazzoletto nel quale aveva avviluppato la fiala di vetro, lo
spiegò
e mostrò il contenuto all’amico. “Hai
modo di controllare se qui
dentro c’è stato del veleno?”
“Certo. Ci metto dentro qualche
goccia d’acqua e poi la do a un topo. Dove l’hai
presa?”
“Era nella stanza di
Konstantin, sul pavimento vicino alla sua mano.”
Von Ruchel alzò le
sopracciglia.
“Ah, in bell’evidenza.”
“Già.”
“Molto sospetto. Beh, fammi
fare la prova in
corpore vili e poi
vediamo.”
†
Il mattino dopo, von Kleist
ricevette un biglietto che diceva: “Il topo sta
benissimo.”
A questo punto non
c’erano più
dubbi: Konstantin non aveva posto fine da solo alla propria
esistenza. Era stato ucciso.
Chiamò il valletto,
che subito
comparve sulla porta. “Eccellenza?”
“Fa preparare la carrozza,
partiamo per Berlino.”
“Sì,
Eccellenza.”
La signora Pfanneschmied
accolse
il ritorno dell’ufficiale con sentimenti contrastanti: da una
parte
le dava fastidio che quel ficcanaso girasse su e giù per la
sua
pensione facendo commenti. La voce del suicidio era corsa, i suoi
ospiti ne avevano parlato, e non certo in termini positivi. Qualcuno
aveva addirittura ventilato l’ipotesi di cambiare pensione. A
meno
che non fosse rivisto il costo settimanale della stanza, ovviamente.
Qualcun altro aveva parlato di passi e lamenti ai piani superiori.
Aveva dovuto far venire il reverendo per benedire la soffitta, e le
era costato ben cinque Pfenning di donazioni alla chiesa.
C’era da dire,
però, a
proposito di donazioni, che l’ufficiale le aveva
già elargito fra
una cosa e l’altra due talleri e mezzo, e quello era
sicuramente un
argomento a suo favore.
Si aggiustò la
parrucca
incipriata, si accertò che il finto neo fosse al suo posto
all’angolo esterno dell’occhio, nella posizione che
veniva
definita La
Passionnée,
e andò incontro a von Kleist.
“Caro signor ufficiale, che
magnifica sorpresa!” esclamò, omaggiandolo di una
riverenza.
L’uomo rispose al
saluto,
quindi senza preamboli disse: “Signora Pfannenschmied, ho
bisogno
di tornare nella camera del signor Theophrastus. Mandatemi
lassù
anche Sepp, per favore, ho delle domande da rivolgergli.”
La signora tirò
fuori la
lorgnette e lo squadrò dall’altro in basso, cosa
che lasciò von
Kleist perfettamente impassibile.
L’ufficiale
tornò alla
soffitta. Lo precedeva un garzone di circa sedici anni, con una
zazzera scomposta di capelli color paglia e una pipa che spuntava
dalla tasca della giacca.
Questi prese una chiave e
aprì
la piccola stanza. A parte il fatto che il corpo e gli effetti
personali erano stati rimossi, tutto era rimasto esattamente come la
prima volta che l’aveva vista. Von Kleist vi entrò
e si guardò
intorno, palpò le pareti e infine andò alla
piccola finestra, la
aprì e guardò fuori. Dabbasso, quattro piani
più sotto, c’era un
cortile lastricato nel quale stava passando un carretto. A parte le
finestre dei piani sottostanti, da quella parte la parete non offriva
appigli, ma a destra e a sinistra c’era il prolungamento del
tetto.
Una persona con una buona agilità avrebbe anche potuto
camminarci
sopra.
“Vossignoria era parente di
quel giovane, vero?” lo distrasse la voce del ragazzo alle
sue
spalle.
Von Kleist rientrò.
“Sì.”
“La signora ha detto che
Vossignoria deve farmi delle domande.”
Il colonnello
annuì. “Voglio
sapere se è possibile andare sul tetto”.
“Sul tetto?” fece eco
il
ragazzo, “E che ci va a fare Vossignoria sul tetto? A
rompersi
l’osso del collo?”
“Tu dimmi solo se è
possibile.” Gli mostrò una moneta.
“Oh, beh...” Il
ragazzo si
grattò la testa. “La padrona mi ammazza se sa che
ho portato
Vossignoria in quel posto pericoloso.”
“Sono stato sotto il fuoco
nemico, le cose pericolose non mi spaventano.” Le monete
divennero
due.
Il ragazzo guardò
rapido verso
la porta, come se temesse di veder spuntare la signora Pfannenschmied
all’improvviso, poi disse: “D’accordo.
Accompagnerò
Vossignoria dove vado sempre con Gretchen, ma non oltre.”
Lucido per le recenti piogge,
spruzzato qua e là da qualche chiazza di muschio, il tetto
ricordava
la groppa squamosa di qualche animale mitologico, e di certo il suo
andamento irregolare e i suoi fianchi ripidi non invitavano alla
scoperta dei suoi anfratti.
“Io l’avevo detto a
Vossignoria,” disse Sepp notando l’espressione di
von Kleist.
L’ufficiale
considerò che il
ragazzo aveva parlato di una certa Gretchen, quindi di qualcuno che
andava in giro con scarpette e sottane lunghe. “Tu come ti
muovi
qui sopra?”
“C’è un
percorso. Per andare
alla torre.” Indicò una torretta al centro del
tetto.
“È lì che
vai con Gretchen?”
Il ragazzo si strinse nelle
spalle. “Lì non ci disturba nessuno.”
“Lo credo bene. Ora fammi
vedere questo percorso. E avvisami quando passiamo sopra la finestra
della stanza di Konstantin.”
“Di chi, Vossignoria?”
“Del Signor
Theophrastus.”
A ben guardare,
c’era in
effetti un passaggio, più che altro uno scolo un
po’ più largo
degli altri con il fondo di rame verdastro, che serpeggiava lungo il
tetto. Da quello era possibile, con una buona dose di coraggio e
agilità, raggiungere gli abbaini che si affacciavano ai due
lati.
Presso la finestra della
stanza
di Konstantin il muschio era raschiato via in qualche punto,
esattamente come sarebbe successo se una suola avesse per un attimo
perso la presa.
“Ho visto
abbastanza,” disse
von Kleist, “ora torniamo dentro.”
Rientrò nella
cameretta e andò
al davanzale della piccola finestra, che controllò alla
ricerca di
tracce. Gli tornò in mente la frase della lettera: guardate
con melancolia fuori dalla finestra.
All’inizio aveva
pensato che
‘con melancolia’ si riferisse a un atteggiamento di
mestizia, ma
dopo aver scoperto che la stampa con la donna alata si chiamava in
quel modo, era certo che ci fosse una correlazione fra le due cose.
Cercò donne alate,
angeli,
clessidre, scale, cani accucciati. Provò addirittura a
mettersi
nella postura torva e ingobbita della donna dell’immagine, ma
non
vide nulla di interessante.
Poi gli tornò in
mente il
quadrato magico: sedici riquadri, esattamente come quelli in cui
erano suddivise le due ante della finestra.
Si avvicinò e
notò che negli
angoli della parte fissa c’era ancora un residuo
dell’umidità
della notte.
“Sepp, vammi a prendere una
tinozza di acqua bollente,” ordinò.
“Vossignoria?” gli
rispose la
voce stupefatta del ragazzo.
“Una tinozza d’acqua
bollente, scattare!” ripeté con tono duro von
Kleist, che non era
abituato ai tentennamenti quando impartiva un ordine.
Il ragazzo scomparve
giù per le
scale e tornò poco dopo reggendo con precauzione una pentola
fumante. Dietro di lui, la signora Pfannenschmied si lamentava a gran
voce del pranzo mandato a monte.
L’ufficiale dovette
faticare
per reprimere un moto di fastidio. “Forza con
quell’acqua,”
disse soltanto, ignorando le proteste della donna.
Pose il recipiente sotto la
finestra dopo averla chiusa. Subito i vetri si appannarono e nella
parte fissa apparve in ognuno dei riquadri una lettera tracciata con
le dita.
“Carta e penna!”
ordinò
secco von Kleist.
“Ma Eccellenza!”
piagnucolò
la signora Pfanneschmied.
“Carta e penna, presto. Devo
copiare quelle lettere.”
Riprodusse la sequenza e la
posizione delle lettere disegnando anche la griglia nella quale erano
inserite, poi tirò fuori il fazzoletto e sotto gli occhi
stupiti del
ragazzo cancellò dai vetri ogni traccia di scrittura.
†
La tappa successiva fu la
villa
misteriosa.
Questa volta fu von Kleist in
persona a scendere dalla carrozza per bussare.
Dopo alcune serie di colpi
sempre
più energici, l’anta si schiuse lentamente e il
volto pallido di
Brandt fece capolino. “Ah, siete voi,” disse
aggrottando le
sopracciglia.
“Noi dobbiamo parlare,
Basilius,”
replicò l’ufficiale per tutta risposta.
L’altro scosse la
testa. “No,
non c’è proprio niente di cui dobbiamo
parlare.” Fece per
richiudere la porta, ma von Kleist infilò il piede tra
l’anta e il
battente. “Non così in fretta.”
Il padrone di casa
tentò di
nuovo di serrare la porta, ma a questo punto subentrò Franz,
che
gliela strappò letteralmente dalle mani, mandandola a
sbattere
contro la parete.
Rainer Brandt si fece
indietro,
gli altri due lo seguirono all’interno
dell’abitazione e il
valletto riuscì ad afferrarlo per un braccio. Von Kleist si
avvicinò.
Il padrone di casa diede
qualche
strattone nel vano tentativo di liberarsi. Ansava leggermente,
continuava a guardarsi intorno. “Ho cercato di farvelo
capire,”
disse, “ma dovevo immaginare che il mio fosse un linguaggio
troppo
ermetico per un militare. Lasciate perdere, è meglio per
voi.
Dimenticate ogni cosa, nulla di ciò che avete in animo di
fare
riporterà in vita il ragazzo.”
L’ufficiale scosse
la testa.
Fissandolo negli occhi, lentamente gli disse: “Riportare in
vita i
morti non è in mio potere, purtroppo, ma assicurare alla
giustizia
gli assassini, sì. Farete meglio a dirmi quello che sapete
con le
buone, signor Brandt.”
Passarono lunghi secondi di
silenzio.
Infine, l’altro
emise un
sospiro. “D’accordo, ma non qui.” Si
guardò intorno con fare
significativo. “I muri hanno orecchie.”
Von Kleist fece girare a sua
volta lo sguardo nell’ingresso: una stanza oscura, dove la
poca
luce filtrava da tende di velluto mostrando una tappezzeria color
sangue e pesanti mobili neri. C’erano varie porte, tutte
chiuse, e
strani dipinti alle pareti. Tra essi notò draghi a tre
teste,
creature di forma umana ma con ali di pipistrello, che sembravano
l’unione di una metà maschile e una femminile,
rappresentazioni
del pio pellicano in atto di nutrire la prole e alberi che al posto
dei frutti avevano dei dischi solari.
“Lasciate stare, non
è cosa
per voi,” gli disse Brandt notando la direzione del suo
sguardo.
“Ci troveremo a mezzanotte presso il Teufelsee nel
Grünewald,
lontano da occhi e orecchie indiscreti. Poi però non voglio
mai più
sentir parlare di voi. E ora andate, siete già rimasto anche
troppo
tempo.”
Von Kleist fece cenno a Franz
di
lasciare il braccio di Basilius, quindi i due tornarono alla
carrozza.
†
La notte era scura e senza
stelle. Coperto da una spessa coltre di nubi, il cielo brontolava
promettendo tempesta.
La carrozza procedeva lenta,
preceduta dal chiarore tremulo delle lanterne. Sopra di essa, i rami
degli alberi secolari si intrecciavano formando una coltre
impenetrabile, che frusciava agitata dal vento.
All’interno
dell’abitacolo,
von Kleist sedeva poggiando il mento sull’impugnatura della
spada.
Di fianco a sé aveva le due pistole cariche. Quel Brandt non
gli
piaceva, e ancora meno gli piaceva il luogo
dell’appuntamento.
Cercò di
ricapitolare quello che
aveva scoperto fino a quel momento: Konstantin era stato ucciso, ma
qualcuno aveva allestito una messinscena per far credere che si fosse
suicidato. Prima di morire, il ragazzo gli aveva mandato una lettera
nella quale gli aveva lasciato delle informazioni in codice, quindi
evidentemente sapeva di essere in pericolo.
Chi lo minacciava? E
perché?
In quel momento
echeggiò un
colpo di pistola.
Un attimo dopo, i cavalli si
fermarono nitrendo di fronte a un tronco buttato attraverso la
strada.
Ci fu un secondo sparo, Franz
rispose al fuoco, poi lui e il cocchiere saltarono giù dal
veicolo.
Von Kleist scaricò
la prima
pistola dalla carrozza, poi scese con la spada sguainata e la seconda
pistola nella mano libera.
Nel cono di luce delle
lanterne,
reso corposo dai fumi degli spari, saettò una sagoma scura.
L’ufficiale sparò, si udirono un urlo e il rumore
di un corpo che
cadeva.
Si fece sotto un assalitore
dal
volto coperto, lo ingaggiò con una punta
dall’alto, von Kleist
parò e rispose con un tondo dritto. L’altro si
fece indietro
evitando il colpo, poi attaccò di nuovo con un fendente.
L’ufficiale
parò e rispose con un altro tondo dritto al corpo, riuscendo
a
tagliare la giubba del suo avversario.
Franz nel frattempo stava
duellando con altri due uomini dal volto coperto. Un groppo di
briglie girato intorno a un braccio, il cocchiere faceva del suo
meglio per trattenere i cavalli, e intanto ricaricava un moschetto.
Von Kleist abbatté
il proprio
avversario, quindi si mosse per aiutare il valletto, ma vedendolo
avvicinarsi i due assalitori abbandonarono la lotta e scomparvero nel
buio, facendo perdere in breve le loro tracce. Il cocchiere
puntò il
moschetto nella direzione in cui si erano allontanati e fece fuoco,
ma la palla si perse nella foresta.
L’ufficiale si
scambiò
un’occhiata col giovane servitore, poi rinfoderò
la spada e si
diresse verso il ferito, che era rimasto a terra ai margini del
cerchio di luce. Quando l’uomo lo vide arrivare, trasse di
tasca
una scatoletta tonda che conteneva una specie di tampone, si
strappò
la camicia mettendo a nudo il petto e prima che chiunque riuscisse a
fermarlo si premette sulla pelle il misterioso oggetto. Subito si
contrasse, ebbe due sussulti e poi si accasciò immobile.
Von Kleist andò a
prendere una
delle lanterne e si chinò per controllare le sue condizioni,
ma
dovette constatare che era deceduto. Notò che dove il
tampone
l’aveva toccato gli era rimasta una traccia grigia simile a
quella
che aveva visto sul petto di Konstantin.
“Dannazione!” ringhiò.
Poi, rivolto a Franz: “L’altro è
morto?”
“Sì, Eccellenza. Mi
dispiace.”
“Lascia, tu e Rudolph avete
fatto il vostro dovere. Aiutami a perquisirli, piuttosto, vediamo se
troviamo qualcosa.”
Raccolse con un bastoncino il
misterioso tampone e lo rimise nella sua scatola, che poi avvolse in
un fazzoletto e ripose nella tasca della marsina.
Successivamente si
infilò i
guanti di capretto e con quelli addosso cominciò a
inventariare le
tasche del cadavere.
Non trovò
assolutamente niente,
nemmeno un Pfenning, un fazzoletto o altro. Era come se il suo
aggressore avesse voluto deliberatamente presentare una tabula
rasa a un’eventuale
ispezione dei suoi effetti personali.
Gli aprì meglio la
camicia,
stando attento a non toccare l’alone grigio lasciato dal
veleno, e
vide che l’uomo aveva al collo una catenina da cui pendeva un
piccolo contenitore di metallo. La staccò con cura e disse:
“Va a
vedere se ce l’ha anche l’altro, Franz.”
Il ragazzo fece un controllo e
disse: “Si, Eccellenza. Ce l’ha anche
questo.”
“Bene, prendila. Controlla
anche le tasche.”
“C’è una
scatoletta tonda,
Eccellenza.”
“Non aprirla. Non
c’è
altro?”
“No, Eccellenza.”
“Porta tutto qui e
andiamo.”
[1] Grado intermedio fra
cadetto
e sottotenente.
[2] Battaglia della seconda
guerra di Slesia che vide la vittoria prussiana.
[3] Altra battaglia della
stessa
campagna, di nuovo a vittoria prussiana.
[4] La ventiquattresima parte
del
tallero prussiano.
[5] Canzone infantile.
[6] La dodicesima parte di un
Groschen.
[7]
Letteralmente ‘Stanza delle Meraviglie’, da noi
prende il
nome di Gabinetto delle Curiosità: una stanza dove si
raccoglievano
oggetti strani come conchiglie, rettili impagliati, manufatti di
altre culture e cose del genere. La pratica cominciò nel
Rinascimento ma si diffuse particolarmente in epoca barocca.
[8]
Battaglia della prima guerra di Slesia.
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