Parte seconda – Albedo
Secondo
procedimento dell’Opera, che consiste nella
purificazione tramite il Fuoco della massa informe scaturita dalla
Nigredo al fine di prepararla alla fase successiva.
Seduti
a un tavolo, von Ruchel e von Kleist stavano studiando gli
oggetti riportati dall’escursione berlinese.
“Che
ne pensi?” chiese il colonnello.
L’altro
sollevò una delle catenine e osservò il
contenitore, un
cilindretto di metallo grande come l’ultima falange di un
mignolo.
Vi fece scorrere sopra le dita, ne palpò ogni
asperità e infine
fece cenno all’amico di passargli il tagliacarte che teneva
sulla
scrivania.
Con
la lama smussata fece leva in un punto dove si vedeva una piccola
intaccatura, e il cilindro si aprì in due metà
per il lungo,
rivelando un cartiglio arrotolato.
I
due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel distese il piccolo
pezzo di carta e subito apparve una sequenza di lettere:
V.I.T.R.I.O.L.
(V.M.)
Nel
secondo contenitore c’era la stessa cosa.
Von
Kleist osservò perplesso i biglietti e chiese: “Tu
sai cosa
significa questa serie di lettere?”
L’altro
annuì. “Visita
Interiora Terrae Rectificando Invenies
Occultum Lapidem, Veram Medicinam. Ovvero,
visita le profondità
della terra e attraverso la purificazione troverai la pietra segreta,
vera medicina. È un motto dei Rosacroce attribuito a
Basilius
Valentinus, fa riferimento alla necessità di scendere nelle
viscere
della terra, ovvero negli anfratti oscuri dell’anima, per
conseguire l’iniziazione.”
L’ufficiale
aggrottò le sopracciglia. “Aspetta un attimo. Hai
detto Basilius?”
“Basilius
Valentinus, frate benedettino e alchimista vissuto nel
secolo scorso.”
“È
come si fa chiamare quello là. Dici che può
esserci un
collegamento?”
Von
Ruchel annuì. “Penso di sì. Del resto,
anche Theophrastus
proviene dallo stesso ambito, dal momento che era il nome di
Paracelso.”
Il
colonnello si alzò e fece qualche passo per la stanza.
“Tutto
questo non ha senso,” disse. Andò alla porta
finestra e per un po’
stette a guardare fuori. Infine, con voce dura riprese: “Ma
qui
niente ha più senso. Credevo di avere a che fare un nipote
un po’
eccentrico, che invece di diventare soldato voleva fare il poeta, ed
ecco che mi trovo alle prese con società segrete, frasi
incomprensibili e codici cifrati.” Tirò fuori di
tasca il pezzo di
carta su cui aveva copiato la sequenza di lettere trovata nella
camera di Konstantin e lo mostrò all’amico.
“Guarda cosa c’era
nei vetri della finestra, una lettera per ogni riquadro.”
Von
Ruchel osservò il foglio:
S S A I
M L O M
F C U R
U U B V
“Passami
la Melancolia,” disse dopo qualche secondo.
Brontolando
qualcosa di inintelligibile, von Kleist si alzò,
andò a
un tavolo ingombro di fogli, scartabellò un po’ e
infine estrasse
il disegno. “Eccola qui,” disse porgendola a von
Ruchel.
L’amico,
cui si era acceso lo sguardo come accadeva solo in
occasione delle scoperte più interessanti, disse:
“Ora proviamo a
leggere queste lettere seguendo la sequenza del quadrato magico che
c’è nell’immagine.”
Il
risultato fu:
VASUM CUM
FLORIBUS
Von
Kleist aggrottò le sopracciglia. “Vaso con fiori?
Cos’è, un
codice segreto anche questo?”
L’altro
scosse la testa. “Non direi, sembra più un
messaggio per
te.”
“Per
me?”
“Nella
lettera c’era scritto di guardare fuori dalla finestra con
melancolia, giusto? E
tu mi dici che sui vetri c’erano queste
lettere disposte a quadrato. Secondo me tuo nipote ti stava
suggerendo il modo di leggerle nella giusta sequenza.” Si
alzò con
fatica, andò alla ricerca della lettera di Konstantin che si
trovava
ancora sulla sua scrivania, la aprì e citò: allora
ciò che era manifesto sarà nascosto e
ciò che era nascosto sarà
manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il motivi del mio
turbamento.
“Sì,
ma ‘vaso con fiori’ non significa
niente,” disse von Kleist
dopo un po’.
“Che
tu sappia, c’era qualche vaso da fiori che avesse un
particolare significato per lui?”
L’ufficiale
ci pensò su. “L’unica cosa che mi viene
in mente
sono le rose di sua madre, ma non sono nei vasi. Stanno in
terra.”
“E
allora perché avrebbe parlato di un vaso?”
“Lo
chiedi a me?”
“Beh,
sì. Il messaggio è indirizzato a te, quindi
dovrebbe fare
riferimento a qualcosa che conosci.”
Von
Kleist scosse la testa. “Abbiamo sempre parlato di tante
cose,
io e lui, ma mai di fiori. Non so come possa essergli venuta in mente
una frase del genere.”
I
due si scambiarono un’occhiata delusa: la pista che avevano
cominciato con tanto entusiasmo a percorrere rischiava di rivelarsi
un vicolo cieco.
Si
udì tossicchiare. Entrambi si voltarono verso Franz, ovvero
la
provenienza del rumore. Vagamente imbarazzato da
quell’improvvisa
attenzione, il valletto disse: “Ecco, Eccellenza…
Vi chiedo
scusa. Non per mancarvi di rispetto, ma nella camera c’era un
vaso
con dei fiori. Forse era di quello che parlava il povero
signorino.”
Von
Kleist rivide la stanzetta di Konstantin: il letto, il tavolino.
Il davanzale. E sul davanzale c’era un vaso di terracotta in
cui
cresceva una piantina di rose.
“Maledizione,
è vero!” esclamò. “Il vaso
con i fiori, ecco a
cosa si riferiva.” Poi, alzandosi bruscamente:
“Torniamo a
Berlino!”
“Wilhelm,
ragiona,” intervenne von Ruchel, “tra un
po’ sarà
buio.”
“Motivo
in più per sbrigarci. Quello che sappiamo noi, lo sanno
anche loro.”
“Loro
chi?”
“Quelli
che hanno ucciso Konstantin. Gli stessi che ci hanno
assaliti sulla via per il Teufelsee. I Rosacroce, o quel che diavolo
sono. Dobbiamo arrivare prima di loro, o possiamo dire addio al
nostro unico indizio.”
†
La
signora Pfannenschmied comparve sulla soglia in camicia da notte
ma con la parrucca. In mano aveva la lorgnette, attraverso la quale
scrutava con disappunto i nuovi arrivati. “Credevo che ci
fossimo
salutati ieri mattina,” proclamò sussiegosa.
“Abbiamo
bisogno di dare un’occhiata alla camera,” disse von
Kleist per tutta risposta.
“A
quest’ora?”
“È
cosa della massima importanza. Siate così gentile da farci
strada.”
La
signora fissò l’ufficiale costernata.
“Ma sono in
déshabillé,”
protestò.
“Per
reggere un lume e accompagnarci in soffitta non
c’è bisogno
dell’abito da sera.”
La
donna sospirò. “Voi dovete ringraziare che sono
una persona di
buon cuore e che voglio essere gentile perché avete subito
un
terribile lutto,” brontolò, poi prese una candela
e cominciò a
salire le scale.
Von
Kleist mantenne il silenzio.
“Se
no vi farei tornare domattina, ecco cosa farei.”
Continuò a
ciabattare su per le rampe scricchiolanti reggendosi la gonna con la
mano della lorgnette.
Arrivarono
finalmente alla soffitta. L’ufficiale spalancò la
porta
già vedendosi davanti agli occhi il vasetto di terracotta
con dentro
la piccola rosa.
Sul
davanzale non c’era nulla.
Si
voltò costernato verso la signora Pfannenschmied e chiese:
“Dov’è
il vaso?”
“Che
vaso?”
“Quello
che era sul davanzale.”
La
donna mollò le sottane e inforcò la lorgnette,
scrutando poi
l’ambiente come se lo vedesse per la prima volta. Infine
chiese:
“Parlate forse del mio vaso di
rose, che avevo lasciato
nella camera del giovane signor Theophrastus per allietarlo nelle sue
giornate solitarie?”
Von
Kleist sospirò: ci sarebbe stato da contrattare.
“Proprio
quello,” rispose.
“Beh,
si dà il caso che io nutra una profonda affezione per quelle
rose, dal momento che le ho coltivate con le mie mani...”
“Signora
Pfannenschmied...”
“...Ed
erano quelle che crescevano sulla tomba della mia povera
madre. Le ho trapiantate io stessa un giorno di dicembre, con il gelo
che mi piagava le mani.”
“Signora
Pfannenschmied, le do un tallero per quel vaso.”
“Quanto
siete prosaico, signor ufficiale. Credete forse che l’amore
si possa comprare con i soldi?”
“Qualsiasi
soldato che sia stato in una città di guarnigione sa
che si può, signora.” La donna lo fissò
costernata, inforcando la
lorgnette per sottolineare il suo sdegno. “Due
talleri,” concluse
poi l’ufficiale, “non un Pfenning di
più. Se non accettate,
quant’è vero Iddio da domani in poi
verrò a trovarvi tutti i
giorni fino a che i due talleri non me li darete voi per convincermi
a togliermi di torno.”
†
Von
Kleist e von Ruchel rimasero a osservare per un bel po’ il
piccolo vaso posato sul tavolo. Era un semplice contenitore di
terracotta, non aveva scritte, motivi decorativi o qualsiasi altro
tratto distintivo. La pianticella era una semplice rosa rossa, senza
altre particolarità che la grazia di un piccolo fiore che si
stava
schiudendo.
“Proviamo
a guardarci dentro,” propose alla fine von Ruchel.
L’ufficiale
annuì, poi disse: “Non rovinare la pianta, se
puoi.
La voglio portare a Luise.”
“D’accordo.”
Si
spostarono in un laboratorio, andarono a un tavolo e ricavarono
uno spazio libero fra le innumerevoli cose che vi erano posate sopra,
quindi von Ruchel distese uno strofinaccio e vi rovesciò
sopra il
contenuto del vaso. Tra le radici della rosa apparvero una chiave di
bronzo decorata con elaborati ornamenti e una scatoletta non
più
grande di una tabacchiera, con il coperchio sigillato dalla pece.
I
due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel prese il piccolo
contenitore e con la lama del tagliacarte lo aprì: dentro
c’erano
una chiave più piccola e un foglio ripiegato su cui era
scritta una
frase:
Cerca
l’Ouroboros presso cui si trova il Custode delle Dodici
Chiavi. Passa attraverso le fauci del drago, cerca i Sette Sigilli di
Paracelso. V.I.T.R.I.O.L.
“Oh,
no,” si lamentò l’ufficiale,
“degli altri enigmi.”
Osservò
il foglietto: la grafia era senza dubbio quella di suo
nipote. Ma perché anche in quello che evidentemente doveva
essere un
messaggio per i suoi eventuali salvatori aveva usato quel linguaggio
incomprensibile? Emise un sospiro desolato e poi disse: “Va
bene.
Cos’è un Ouroboros? E chi è il Custode
delle Chiavi?”
“Delle
Dodici
Chiavi,” lo corresse l’altro.
“Che
siano Dodici o Ventiquattro non mi interessa. Quando
finalmente riuscirò a mettere le mani addosso a chi ha
ucciso
Konstantin, gli farò pagare anche tutto questo.”
Von
Ruchel rilesse il foglietto. “Le Dodici Chiavi hanno
sicuramente a che fare con Basilius.”
“Ah,
sì?”
“Le
Dodici Chiavi della Filosofia è il suo libro più
famoso. Non
riesco a capire cosa c’entri l’Ouroboros,
però.”
“Sarebbe?”
“Il
serpente che si morde la coda. Simbolo di eternità, indica
la
natura ciclica di tutte le cose. È uno dei simboli
più usati
nell’alchimia.”
Von
Kleist annuì assorto. Man mano che il suo amico li
enumerava,
tutti quegli elementi pian piano stavano componendo un quadro nella
sua mente. Rivide la villa con le statue misteriose, cosa
c’era
sulla facciata?
“Ci
sono!” esclamò alla fine. “So
dov’è.”
“Dove?”
“Nella
villa di quel tale Basilius. C’è anche una specie
di
grotta fatta come la bocca di un drago.”
“Hai
intenzione di andarci?”
“Si
capisce che ci andrò,” rispose l’altro,
come se fosse la
cosa più ovvia del mondo. “Questa sera
stessa.”
Von
Ruchel emise un sospiro. “Non sai cosa darei per poter venire
con te.”
L’ufficiale
si girò verso di lui e vide che aveva lo sguardo fisso
sulla propria gamba. Gli appoggiò una mano sulla spalla e
stringendola piano gli disse: “E tu non sai cosa darei per
averti
al mio fianco come ai vecchi tempi. Mi sentirei più
tranquillo
sapendo che ci sei tu a coprirmi le spalle.” Poi, dopo una
pausa:
“Come a Mollwitz, ti ricordi?”
L’altro
ebbe un lieve sorriso. “Già.”
“Lì
mi hai praticamente salvato la vita.”
“Sì,
una volta combattevo. Ora non posso fare altro che stare qui
come un povero invalido a scartabellare vecchi libri.”
Afferrò il
bracciolo del divanetto con tanta forza che lo fece scricchiolare,
poi si alzò con fatica e si allontanò con un
movimento brusco
dandogli le spalle. Von Kleist rimase in silenzio per un po’,
poi
disse: “Questi sono i casi della vita, Johannes, non possiamo
farci
niente. Non te lo meritavi di certo, ma lo sai meglio di me come
vanno le cose sul campo di battaglia.”
Von
Ruchel emise un altro lungo sospiro, sembrò ricomporsi.
“Già.
È successo e non serve a niente lamentarsi. Ora dammi un
pezzo di
carta, sii gentile, così ti disegno quei sigilli di
Paracelso che
dovresti cercare.”
“Sì,
è meglio, perché io non li riconoscerei nemmeno
se ci fosse
scritto sotto che cosa sono.”
L’altro
tracciò su un foglio dei segni che a von Kleist parvero
scarabocchi di bambini, poi sotto a ognuno si essi scrisse il nome di
un metallo: oro, argento, rame, piombo, stagno, ferro e mercurio.
†
La
notte stessa, a cavallo, in borghese e armato, Wilhelm von Kleist
si diresse alla misteriosa abitazione. Lo accompagnava
l’immancabile
Franz, anche lui armato fino ai denti.
Si
fermarono a circa un quarto di miglio dalla villa e
l’ufficiale
disse: “Tu aspetta qui con i cavalli. Se fra un paio
d’ore non
sono di ritorno, corri ad avvisare il signor von Ruchel.”
“Eccellenza!
Non vorrete andare da solo!” esclamò il valletto
allarmato.
“In
due ci faremmo notare troppo, e poi ci vuole qualcuno che
faccia la guardia ai cavalli.”
“Ma
Eccellenza...”
“Non
discutere, Franz.” Il tono era di quelli che non ammettevano
repliche. “Sai cosa devi fare. Mi aspetto che tu lo
faccia.”
Il
ragazzo chinò il capo. “Sì,
Eccellenza.”
“Molto
bene. Ricorda: due ore.” disse l’ufficiale, poi
prese
dalla sella una lanterna cieca, l’accese e si
incamminò.
Per
evitare di essere visto abbandonò la via battuta dopo la
prima
curva e si addentrò nella macchia.
Avanzò
per un po’ in mezzo a un fitto sottobosco, poi la
vegetazione cominciò a diradarsi per lasciare spazio alle
vestigia
di aiuole e siepi. Si imbatté in una stele di pietra
consumata dalle
intemperie, sulla quale si riconoscevano al tatto delle antiche
incisioni.
Schermò
completamente la lanterna e procedette affidandosi alla luce
delle stelle. Ben presto distinse nel buio la sagoma delle quattro
donne con le ampolle sulla testa.
Si
acquattò nel buio e rimase in ascolto per lunghi minuti, ma
a
parte i rumori degli animali notturni e il lieve frusciare del vento
sull’erba incolta, il luogo era perfettamente silenzioso. Si
avvicinò piano e subito riconobbe la voragine nera della
bocca di
drago.
Strisciò
in avanti un altro po’, rimase ancora in ascolto, ma
l’ambiente di nuovo gli rimandò un messaggio del
tutto
rassicurante. I suoni della natura gli parlavano di
tranquillità, il
che significava che non c’erano presenze umane. Si
arrischiò a
produrre un piccolo pennello di luce, col quale ispezionò
l’interno
della grotta.
Quello
che trovò lo lasciò piuttosto perplesso. Si era
aspettato di
vedere da qualche parte dei sigilli, fra i quali magari anche quelli
di Paracelso, invece si trovava in una piccola stanza di pietra nuda,
senza alcun ornamento, dalla quale partiva una scala che conduceva
verso il basso.
Rimase
in ascolto, ma da sotto non proveniva alcun rumore.
Cominciò
a scendere. La scala era di pietra, ricoperta di una
leggera patina di umidità. Sulle pareti c’erano
delle nicchie a
intervalli regolari, probabilmente per metterci dei lumi. La fine
della scala si perdeva nel buio.
Dopo
parecchi gradini arrivò a una seconda stanza, sulla quale
questa volta si affacciavano tre porte. Da una di esse partiva un
corridoio, le altre due invece davano su scale, una che andava verso
l’alto e una verso il basso.
Von
Kleist ripensò alle parole del motto alchemico, Visita
Interiora Terrae, e scelse
quella che andava verso il basso.
Ancora una volta si mise in ascolto, ma da essa non sembrava
provenire alcun rumore.
Percorse
di nuovo una quantità interminabile di gradini, poi
finalmente arrivò a un vestibolo con una porta chiusa.
Trasse di
tasca la più grande delle chiavi e la provò nella
serratura. La
porta si aprì senza nemmeno un cigolio, rivelando una stanza
che si
intuiva molto grande, con la volta sostenuta da colonne. Decise di
arrischiare un po’ più di luce e aprì
completamente il diaframma
della lanterna: si trovava in effetti in un locale che rammentava la
navata di una chiesa. In fondo c’era una specie di altare
sormontato da un’immagine di una rosa sovrapposta a una
croce. Ai
lati c’erano due statue che rappresentavano un pellicano e
un’aquila.
Lungo
le pareti laterali si aprivano delle porte sormontate da archi
variamente decorati. Von Kleist si avvicinò alla prima e
sollevando
la lanterna guardò dentro. Illuminò una piccola
stanza quadrata,
che aveva le due pareti laterali occupate da librerie cariche di tomi
antichi e quella di fondo affrescata. Ancora una volta rimpianse che
Johannes non fosse lì con lui, perché non era in
grado di dare un
senso a quello che stava vedendo: c’era uno scheletro in
piedi su
un sole nero, con un corvo appollaiato su una mano e due angeli ai
lati, poi c’era un’ampolla tutta nera nella quale
giacevano un
uomo e una donna nudi.
Scosse
la testa perplesso e passò oltre.
Nella
stanza successiva c’erano di nuovo due librerie e la parete
di fondo dipinta. L’affresco rappresentava un re e una regina
che
si davano la mano. Ai loro piedi c’era un leone con due corpi
e una
testa sola, con una specie di torrente che gli usciva dalla bocca.
Andò
avanti per un po’ a controllare, tutte le stanze erano
strutturate nello stesso modo, suggerendo che quel luogo fosse una
specie di biblioteca. Alla fine, proprio nella stanza più
vicina
all’altare, trovò un affresco che rappresentava un
vecchio re con
la corona e la barba bianca assiso sul trono e dinnanzi a lui sei
giovani uomini in atteggiamento di postulanti. Ognuna delle figure
era sormontata da uno dei simboli che stava cercando.
Si
guardò intorno. A questo punto, ci sarebbe dovuto essere da
qualche parte un buco dove infilare la chiave piccola.
Osservò
dapprima con attenzione l’affresco, ma nulla sembrava
suggerire la presenza di una serratura. I simboli non erano mobili
né
in rilievo, non c’erano asperità di sorta sulla
superficie della
pittura, e in definitiva, a parte il soggetto, sembrava in tutto e
per tutto un normalissimo dipinto.
Guardò
l’orologio: erano già passati tre quarti
d’ora. Si
augurò che Franz fosse ancora dove lo aveva lasciato.
Capacissimo di
decidere che aveva bisogno di aiuto e correre al suo salvataggio,
creando più problemi che altro.
Estrasse
un libro e lo sfogliò: di nuovo figure strane, qualche
chiosa in latino. Lo rimise via.
Con
un sospiro di frustrazione si guardò intorno. Aveva studiato
l’arte della guerra, la tattica e la logistica. Nessuno
l’aveva
mai preparato ad affrontare enigmi e templi sotterranei.
Cercò
di ragionare: se il luogo era quello – e lo era, dal momento
che la prima chiave aveva funzionato perfettamente – ci
doveva
essere in quella stanzetta qualcosa che stava trascurando.
Come
farei per nascondere qualcosa qui dentro?, si
chiese. Gli
unici mobili presenti erano gli scaffali. Tenendo in mano la
lanterna, cominciò a estrarre libri e a controllare cosa
c’era
dietro. Trovò per parecchio tempo solo muro grezzo, poi
finalmente
si imbatté in una fenditura verticale. Tolse un altro libro,
la
fenditura piegava in alto e in basso ad angolo retto, suggerendo la
presenza di uno sportello.
Impilò
libri sul pavimento fino a che non mise a nudo una specie di
rozzo tabernacolo munito di serratura. Infilò la chiave
più piccola
nella toppa e anche quella girò senza sforzo, rivelando una
cavità
nella quale si trovava un quaderno rilegato in pelle.
Von
Kleist lo estrasse e lo sfogliò: la grafia di Konstantin.
Se
lo infilò in tasca, richiuse lo sportello e rimise i libri
al
loro posto, quindi schermò la lanterna fino ad avere solo un
sottilissimo fascio di luce e tornò sui suoi passi.
Quando
arrivò alla stanza con le quattro porte si fermò.
Tirò
fuori l’orologio e controllò l’ora:
aveva ancora tempo.
Sollevò
la lanterna illuminando il corridoio pianeggiante.
Considerata la posizione della bocca del drago e
l’orientamento
della prima scala che aveva disceso, calcolò che portava
alla villa.
Probabilmente era un passaggio per raggiungere il tempio
dall’interno.
Secondo
il principio che più informazioni si raccolgono sul nemico,
più efficacemente viene condotta l’offensiva, vi
si inoltrò.
Percorse
un tratto che nel buio gli riuscì difficile valutare, ma
che gli parve abbastanza lungo, tanto che ad un certo punto si chiese
se per caso non avesse già oltrepassato la villa.
Poi
finalmente il sottile pennello di luce della lanterna gli
rimandò
l’immagine di un panneggio rosso scuro.
Si
avvicinò. Il corridoio era chiuso da una pesante tenda di
velluto.
Di
nuovo schermò completamente la lanterna e rimase in ascolto,
cogliendo dopo un po’ un lieve ribollire come di acqua sul
fuoco.
Spostò
la stoffa producendo una piccola fessura: al di là
l’aria
era calda e umida, gravata di odori che gli ricordavano la bottega di
un farmacista. C’era una debole luce.
Si
affacciò cauto. Oltre la tenda c’era una stanza
così grande
che la scarsa luce non permetteva di apprezzarne i confini. Il
soffitto era altissimo, e da esso pendevano tre lampadari di ferro
battuto, uno solo dei quali parzialmente dotato di candele accese.
Nel
centro del locale troneggiava una struttura tronco-conica a
più
piani, alta più di un uomo, dotata di vari sportelli di
ferro, al
cui interno rombava di sicuro un fuoco, perché emanava un
intenso
calore. Da essa si dipartivano dei tubi. Sui ripiani c’erano
ampolle che ribollivano e riversavano il vapore all’interno
di tubi
di vetro serpentiformi.
Tutt’intorno
a quell’immensa fornace c’erano tavoli, strumenti
e scaffali carichi di vasi e libri.
Sembrava
che non ci fosse nessuno, ma l’ufficiale non fu per nulla
rassicurato da quella constatazione: il forno doveva essere
alimentato, non funzionava da solo. E qualcuno di certo doveva
occuparsi di tutti quegli alambicchi pieni di roba che bolliva.
Quindi
qualcuno in realtà doveva esserci, in quel posto.
Scivolò
oltre la tenda, si appiattì contro una parete. Di nuovo si
guardò intorno, ma non vide anima viva.
Cominciò
a esplorare il posto alla ricerca di un passaggio che
portasse all’interno della villa. Il caldo nel frattempo si
era
fatto opprimente, tanto che dovette allentarsi il colletto. Si terse
il sudore dalla fronte. Anche l’odore era malsano: prendeva
alla
gola, rendeva addirittura difficile respirare.
Si
aggirò per qualche tempo nel misterioso laboratorio, poi si
imbatté in una porta chiusa. Abbassò la maniglia
ed essa cedette
senza sforzo.
Si
affacciò e si trovò davanti un’enorme
cisterna di vetro nella
quale guizzavano dei pesci di una specie che non aveva mai visto
prima. Contro la parete c’era un retino. Al suo apparire, i
misteriosi animali si gonfiarono diventando delle palle irte di
aculei. L’ufficiale aggrottò le sopracciglia.
Rimase a osservarli
perplesso per qualche secondo, di nuovo pensando a quanto gli avrebbe
fatto comodo avere Johannes con sé, poi uscì e
richiuse la porta.
Guardò
di nuovo l’orologio: avrebbe fatto meglio a ritirarsi in
buon ordine.
In
quel momento sentì dei passi. Subito si nascose sotto un
tavolo
in un angolo particolarmente buio. Da lì vide sopraggiungere
Rainer
Brandt, come al solito pallido e vestito di nero. L’uomo
andò alla
fornace, spalancò uno sportello e ci buttò dentro
numerosi pezzi di
legno, facendosi indietro ogni volta per evitare le lingue di fiamma
che ne uscivano. Poi aggiunse qualcosa nelle ampolle che stavano
bollendo, raddrizzò un tubo un po’ storto e infine
controllò un
vaso che si trovava ad un’estremità di un tubicino
di vetro dal
quale un liquido denso e trasparente stava colando goccia a goccia.
Si
mise un paio di spessi guanti di pelle, sostituì il
recipiente
mezzo pieno con uno vuoto, tappò quello che aveva tolto e
fece per
andarsene, ma qualcosa sembrò attirare la sua attenzione.
Scrutò
in giro per un po’, poi fissò lo sguardo sulla
porta della
stanza con i pesci. Von Kleist represse un’imprecazione: era
rimasta socchiusa.
Brandt
si sfilò i guanti e andò a controllare, si
affacciò
all’interno, quindi richiuse accuratamente, con un movimento
che
avrebbe potuto fare solo chi sapeva di doverlo fare. Si udì
uno
scatto metallico e la porta rimase bloccata al suo posto.
A
questo punto, l’uomo andò verso la tenda e la
scostò, rivelando
un cancello di ferro. Lo chiuse sul corridoio e diede due giri con
una chiave che poi si fece scivolare in tasca, quindi uscì
da dove
era entrato.
Von
Kleist rimase per un po’ immobile nel suo nascondiglio.
Non
era del tutto certo che l’uomo si fosse accorto che
c’era
qualcuno. La chiusura del cancello dava più l’idea
di una
precauzione. In ogni caso, di lì non sarebbe più
potuto passare, a
meno di non lasciare chiare tracce della sua presenza scardinando la
serratura.
Si
voltò nella direzione in cui Brandt si era allontanato: si
trattava di entrare nella villa e uscire da quella parte.
Ponderò
che se per caso Brandt aveva chiuso il cancello perché
immaginava che nel laboratorio ci fosse qualcuno, probabilmente
sarebbe stato da qualche parte ad aspettarlo.
Riguardò
l’orologio: poteva fare tutti i ragionamenti del mondo,
ma come aveva imparato sul campo, la sorte delle battaglie non si
decide a tavolino. Doveva uscire di lì e doveva farlo in
fretta: le
due ore stavano per scadere, ed era sicuro che Franz non sarebbe
affatto andato da von Ruchel come gli aveva ordinato, ma si sarebbe
messo sulle sue tracce con l’intento di salvarlo.
Guardò
un po’ in giro alla ricerca di un’altra uscita, ma
trovò
solo la porta da cui era passato Brandt. Vi appoggiò contro
l’orecchio: non sentì alcun rumore, ma la cosa non
lo rassicurò.
Abbassò
comunque la maniglia e spinse l’anta, che cedette con un
lieve cigolio. Al di là era buio.
Von
Kleist andò a prendere la lanterna e di nuovo si
affacciò con
cautela. C’era un vestibolo senza mobilio, con le pareti di
pietra
grezza. Da esso una scala conduceva verso l’alto.
Estrasse
dalla cintura la pistola che si era portato dietro, e
tenendo quella nella destra e il lume nella sinistra,
cominciò a
salire i gradini.
Ancora
una volta, non incontrò nessuno. Non c’era un
rumore, se
non avesse visto con i suoi occhi Rainer Brandt giungere a
sorvegliare le preparazioni alchemiche, avrebbe giurato che la casa
era disabitata.
Arrivò
a un’altra porta. Di nuovo rimase in ascolto, poi la
aprì,
la varcò e si guardò intorno: era sbucato in una
specie di
salottino con le pareti dipinte a scene pastorali. Constatò
che la
porta che aveva appena chiuso alle proprie spalle era stata fatta in
modo da confondersi con le pitture e gli stucchi del muro.
Non
sapendo che c’era, sarebbe stato piuttosto difficile trovarla.
Continuò
a camminare nella casa buia. Due o tre volte si voltò di
scatto convinto di aver udito un rumore, ma invariabilmente non
trovò
nessuno alle sue spalle.
Dopo
un po’ che girava ritrovò l’ingresso con
i mobili neri e le
stampe misteriose. Da lì fu facile aprire il portone di
ingresso e
uscire.
†
Mentre camminava svelto nel
sottobosco augurandosi che Franz fosse ancora dove l’aveva
lasciato, von Kleist ragionava fra sé e sé sulla
propria fuga.
Sembrava quasi che qualcuno gli avesse indicato la via per
allontanarsi, come si fa nella foresta per far arrivare gli animali
da cacciare esattamente dove è stata allestita la postazione
dei
tiratori.
Si guardò intorno,
anche se nel
buio sarebbe stato impossibile scorgere eventuali nemici. A parte lui
il bosco sembrava immobile, addirittura disabitato: le quinte di un
teatro, esattamente come la misteriosa villa.
Raggiunse finalmente il punto
in
cui aveva lasciato il valletto con i cavalli, Franz era dritto in
piedi e teneva in mano le redini degli animali. Von Kleist poteva
immaginare l’espressione ansiosa con cui scrutava il buio
aspettando di vederlo ricomparire.
“Franz!”
chiamò.
Il ragazzo si voltò
di scatto.
“Eccellenza!”
“Tutto tranquillo
qui?”
“Sì, Eccellenza.
“Allora andiamo.” Si
palpò
la tasca della giacca controllando che il prezioso contenuto fosse
ancora al suo posto. “Dobbiamo arrivare alla residenza prima
possibile.”
Quando giunsero a
destinazione,
il cielo stava cominciando a schiarirsi. I due smontarono da cavallo,
il ragazzo prese in consegna gli animali e si mosse per portarli alle
scuderie, ma von Kleist gli fece cenno di immobilizzarsi. Estrasse la
pistola.
“Vieni fuori con le mani
alzate,” ordinò puntando l’arma verso
una macchia di
vegetazione.
Una giovane voce maschile
implorò: “Non fatemi del male, per
favore.”
“Vieni fuori,”
ripeté
l’ufficiale senza abbassare l’arma.
Si udì un fruscio
di foglie e
una figura smilza si alzò lentamente. “Vossignoria
non mi faccia
del male, per favore,” ripeté.
Von Kleist fece un passo nella
sua direzione. “Sepp?”
“Sissignore, sono io.”
Azzardò un passo
avanti,
entrando nel cerchio di luce dei lampioni che si trovavano ai due
lati della porta d’ingresso. Aveva gli abiti insanguinati e
strappati, il volto pesto e una fasciatura di fortuna a una mano.
“Che ti è
successo?” gli
chiese l’ufficiale.
Zoppicando lievemente, il
ragazzo
fece qualche altro passo. “Sono arrivate delle persone,
Vossignoria. Erano tre uomini e una giovane donna.” Represse
un
brivido.
Von Kleist lo prese per le
spalle, lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Sono arrivate,
dove?
Chi erano?”
“Dalla signora Pfannenschmied.
Non lo so chi erano, Vossignoria.”
“Che cosa volevano?”
Il ragazzo deglutì.
“Chiedevano
del signorino. Volevano sapere dov’era la sua roba.”
“A chi lo hanno chiesto? A
te?”
“A me e anche alla signora
Pfannenschmied.” Deglutì di nuovo, e dopo qualche
secondo
soggiunse: “Chiedo perdono a Vossignoria, ma ho detto tutto
quello
che sapevo, che voi eravate venuto, che avevate voluto vedere il
tetto, che avevate chiesto l’acqua calda. Ogni volta che non
rispondevo a una domanda, mi...” s’interruppe
scosso da un
brivido.
“Sono stati loro a procurarti
queste ferite?”
Il ragazzo annuì.
“Sissignore.
La donna.”
“Com’era fatta questa
donna?”
“Alta e magra, con i capelli e
gli occhi neri. Vestiva come un uomo.”
L’ufficiale lo
scrutò pensoso.
“Perché ti hanno lasciato andare?” gli
chiese.
“Non mi hanno lasciato andare,
Vossignoria. Sono scappato. Mi avevano chiuso nella conserva, ma io
sono abbastanza magro da passare per lo scolo della neve, e
così
sono andato via prima che mi ammazzassero.”
“Come fai a sapere che volevano
ammazzarti?”
“La signora l’hanno
ammazzata.”
Von Kleist si
scambiò
un’occhiata con il suo valletto e poi disse:
“Franz, porta questo
ragazzo da Gertrud. Dille che medichi le sue ferite e gli dia
mangiare. Io devo andare subito dal signor von Ruchel.”
“Come ordinate,
Eccellenza,”
disse Franz. Mise una mano sulla spalla del nuovo arrivato, che in
piedi accanto a lui sembrava ancora più magro e
più piccolo di
quanto non fosse.
L’ufficiale prese il
cavallo e
montò in sella. “Tieni gli occhi
aperti,” raccomandò al
valletto. “Se lo stanno cercando, non ci metteranno molto a
capire
dov’è scappato.”
“Non dubitate,
Eccellenza.”
†
Mentre galoppava a briglia
sciolta verso l’abitazione dell’amico, von Kleist
rifletteva
sulle parole del giovane Sepp.
Posto che fosse tutto vero, la
misteriosa organizzazione contro cui si stavano misurando sembrava
essere sulle tracce del diario di Konstantin.
Sicuramente il tale che si
faceva
chiamare Basilius sapeva della sua esistenza, e aveva riferito
quell’informazione a chi di dovere.
Di nuovo la mano
andò alla tasca
e attraverso la stoffa ripercorse la forma del piccolo quaderno.
Se quei tizi avevano
interrogato
la signora Pfannenschmied con gli stessi sistemi che avevano usato
con il ragazzo, senza dubbio erano riusciti a sapere di lui e del
vaso di fiori.
Arrivò alla villa
di von Ruchel,
percorse il parco lasciandosi alle spalle le serre di piante rare e
le voliere di uccelli esotici. Ormai albeggiava, ma in giro non
c’era
nessuno. Neppure il vecchio giardiniere di nome Michael, quello che
di solito si alzava quando era ancora buio.
Si diresse verso la parte
posteriore dell’edificio, ai quartieri della
servitù. Anche lì,
silenzio.
Una porta era socchiusa.
Von Kleist smontò
da cavallo ed
estrasse la pistola. Si avvicinò adagio, tenendosi rasente
al muro,
e con la canna dell’arma spinse l’anta della porta
in modo da
poter guardare dentro.
Il locale era una lavanderia,
c’erano lenzuola e abiti stesi ad asciugare, e vasche piene
d’acqua. L’aria era umida e aveva odore di liscivia.
Una cameriera giaceva a terra
supina. L’ufficiale si avvicinò cauto e pur nella
scarsa luce notò
che la ragazza aveva sul collo una macchia grigiastra come quelle che
aveva già visto su Konstantin e sull’aggressore
del Teufelsee.
Proseguì verso
l’interno del
palazzo. Tutto era silenzioso, nelle cucine i fuochi erano spenti,
non si udiva da nessuna parte l’usuale cicaleccio delle
ragazze
della servitù.
Arrivò nella parte
nobile
dell’edificio, si diresse verso la camera da letto
dell’amico.
Non appena vi si affacciò, notò i segni di una
furiosa
colluttazione: c’erano soprammobili rovesciati, le coperte
erano
sparse a terra e spruzzate di sangue. La spada di von Ruchel,
inconfondibile per la lama damascata, spuntava da sotto il letto. Un
pesante candelabro di bronzo doveva essere stato gettato contro
qualcuno e aveva esaurito la sua inerzia sulla parete, si vedeva
l’intaccatura che aveva prodotto nella tappezzeria.
Il tutore che
l’amico doveva
portare per poter usare la gamba destra era per terra, così
come il
suo bastone con l’impugnatura a forma di testa di levriero.
Si avvicinò al
letto. Sul
cuscino c’era un foglio arrotolato e chiuso con un sigillo
che
rappresentava una croce con sopra una rosa.
Lo aprì e lesse:
Se volete rivedere
vivo il
vostro amico Johannes von Ruchel, tornate senza indugio a casa vostra
e attendete. Un nostro emissario verrà a recuperare un
oggetto di
nostro interesse. Dopodiché non dovrete uscire di casa e non
dovrete
comunicare con nessuno fino a domani al tramonto.
Se allo scadere di
questo
tempo avrete fatto ciò che vi chiediamo, all’alba
successiva un
nostro emissario vi farà sapere dove potrete trovare von
Ruchel. Se
non lo avrete fatto, ritroverete ugualmente von Ruchel, ma un pezzo
per volta, a partire dalla gamba che per colpa vostra non
può più
utilizzare.
Non c’era firma.
Si costrinse a rileggere la
lettera con lo stesso spirito scientifico che avrebbe animato
Johannes. Primo, la stoccata finale lasciava capire che qualcuno
aveva raccolto informazioni su di lui, sulla sua amicizia con
Johannes e sulle battaglie che avevano combattuto insieme. E che
volesse far leva, oltre che sul suo affetto per lui, anche sul suo
senso di colpa nei suoi confronti.
Era vero, infatti, che von
Ruchel
era rimasto ferito a causa sua: nel corso della battaglia di
Chotusitz un eccessivo entusiasmo lo aveva portato a farsi troppo
avanti, e se non fosse stato per il suo più saggio amico,
che
l’aveva afferrato e buttato al coperto, avrebbe trovato una
prematura morte tagliato in due da una palla di cannone.
L’ordigno
però aveva rovinato
per sempre la gamba destra del maggiore Johannes von Ruchel,
costringendolo ad abbandonare una carriera che si preannunciava delle
più brillanti.
Rammentò che
all’epoca Sua
Maestà in persona aveva espresso il proprio rammarico per
una tale
perdita.
Abbandonò i ricordi
per tornare
alla realtà contingente.
L’oggetto che quella
gente
stava cercando non poteva essere che il diario di Konstantin. Si
chiese cosa potesse contenere di così importante da
giustificare
tutto quello che stava succedendo.
Andò al laboratorio
di Johannes,
a soqquadro al pari della camera. La pianta di rose giaceva sul
pavimento in mezzo a cocci e terra sparsa. L’ufficiale
dapprima la
raccolse e la avvolse in uno straccio bagnato, poi si sedette alla
scrivania, trasse di tasca il quaderno e lo aprì.
Le prime annotazioni erano
vecchie di circa un anno, ed erano piuttosto generiche. Il ragazzo
enumerava i motivi per cui aveva deciso di andarsene dalla dimora
avita, ove conduceva un’esistenza di agi e
tranquillità, per
vivere dei proventi delle sue poesie a Berlino.
Von Kleist sospirò:
se
Konstantin fosse stato suo figlio, gli avrebbe fatto passare lui
certe ubbie. Invece Luise era sempre stata troppo buona con lui,
troppo permissiva. Forse perché era così bello, e
di aspetto così
delicato. Magari, con atteggiamento del tutto materno,
l’aveva
assecondato perché inconsapevolmente temeva che la dura vita
militare sarebbe risultata troppo pesante per quell’efebico
fanciullo.
Il padre non era stato in
grado
di opporsi a quel comportamento protettivo, forse perché
anche lui
in realtà considerava Konstatin come una specie di statuetta
di
ceramica incapace di reggere gli urti della vita.
E quelli erano stati i
risultati.
Con un sospiro,
continuò a
leggere.
Ecco che comparivano i
Rosacroce.
Konstantin ne parlava come di un gruppo di studiosi dediti alla
poesia ermetica e alla ricerca. Trovò per la prima volta
l’acronimo
V.I.T.R.I.O.L., al quale il ragazzo attribuiva un significato del
tutto simbolico ed introspettivo.
Lesse poi
dell’arrivo dalla
Sassonia di una donna che a quanto pareva era un personaggio di
spicco nell’ambito dei Rosacroce. Il linguaggio di Konstantin
non
sempre era chiaro, spesso era inquinato da ermetismo o figure
retoriche, ma in generale il ragazzo faceva allusione a lei
chiamandola di volta in volta la Luna, l’Argento o la Regina.
La donna era sempre
accompagnata
da due misteriose figure, che nel diario venivano chiamate Atalanta
Fugiens e Aurora
Consurgens.
Non riuscì a capire
se si
trattava di persone reali o se anche quei nomi erano espressioni
ermetiche per indicare qualcos’altro.
Il ragazzo scriveva poi di
Rainer
Brandt. Ne parlava come di una specie di mentore che avrebbe dovuto
accompagnarlo nel suo percorso all’interno della setta dei
Rosacroce. Spiegava che era stato lui ad attribuirgli in nome di
Theophrastus, in omaggio a Paracelso e al suo homunculus, in quanto
anche lui era un homunculus, un piccolo essere frutto
dell’ingegno
e non della procreazione, che avrebbe dovuto crescere e apprendere
grazie a un maestro.
Di nuovo,
l’ufficiale scosse la
testa come di fronte a qualcosa di incomprensibile e fondamentalmente
stupido.
“Ach,
Konstantin, Konstantin,” mormorò fra sé
e sé, “se tuo padre ti
avesse raddrizzato quando era il momento...”
Tornò alla lettura.
Seguivano, nei giorni
successivi,
varie considerazioni sulla bellezza dell’ermetismo e
dell’alchimia,
e sul loro valore come simbolo della ricerca interiore.
Scorse rapidamente le pagine
imponendosi di ignorare il fastidio che il panegirico di quella
sottospecie di filosofia gli suscitava.
Si imbatté in un
foglio bianco.
Poi Konstantin scriveva:
Mea culpa, mea culpa,
mea
maxima culpa!
L’Opus
Magnum che vogliono
portare a compimento non è certo la realizzazione della
Pietra
Filosofale, reale o simbolica che sia, come ingenuamente credevo.
Basilius lo nega, ma io ho messo le mani su alcune delle lettere che
la Regina nasconde nella sua casa, ovvero quella villa nascosta sulle
rive del Templiner See che tutti credono essere solo il salotto
più
alla moda di Potsdam.
Solo Iddio, o forse
il
Diavolo, sa che cosa succede nei suoi sotterranei.
Io però ho
capito che la Luna
intende divorare il Sole, e lo farà in occasione del
concerto. E ho
capito che la donna di nome Maria che la istiga è ben altri
che la
Profetessa[1].
Devo avvertire lo zio
prima
che succeda l’irreparabile.
L’ufficiale rimase
pensoso.
Visto così, quel diario gli sembrava troppo poco per
giustificare un
omicidio e un rapimento. Era solo una raccolta di frasi senza senso,
messe su carta da un nobilotto adolescente fuggito di casa. Nessuno
avrebbe dato importanza a dichiarazioni del genere.
Ci doveva essere qualcosa di
più.
Sfogliò
di nuovo il quaderno pagina per pagina, lo scosse, osservò
ogni
foglio controluce alla ricerca di segni o fori in posizioni
particolari. Poi palpò la copertina: sembrava piuttosto grossa.
Andò alla ricerca
di una lente
di ingrandimento e controllò le cuciture, notando subito che
avevano
un’aria recente, che non si adattava alla generale patina di
tempo
che rendeva la pelle della rilegatura lucida per l’uso.
Prese una lama, la
infilò in una
cucitura e fece saltare qualche punto: l’anima rigida della
copertina era stata tolta, e al suo posto c’erano dei fogli
ripiegati.
Finì di scucire la
pelle, tirò
fuori tutto e quando ebbe visto che cosa c’era nei fogli
sollevò
le sopracciglia stupefatto.
“Non
è possibile,” disse a mezza voce.
Si trattava di lettere. Un
carteggio tra due donne, la destinataria delle missive era una certa
Diana, mentre l’autrice si firmava Maria.
Una frase lo colpì
particolarmente:
Voi lo ucciderete,
mia cara,
con quel veleno del quale conservate il segreto. Vi consiglio di
metterlo sul suo flauto, è un oggetto dal quale non si
separa mai.
Alla prova della sua morte io verserò in una banca di vostra
fiducia
diecimila dei miei talleri.
L’allusione al
flauto lo fece
riflettere. Sua Maestà suonava il flauto. E Konstantin nel
diario
parlava di un concerto.
E, neanche a farlo apposta,
Sua
Maestà dava concerti per flauto al Sanssouci.
Cominciò a sentire
una specie di formicolio addosso, come gli succedeva ogni tanto alla
viglia di battaglie dall’esito incerto.
Il veleno, i talleri...
Diana, rimaneva da scoprire
chi
fosse quella Diana.
Pensò a cosa
avrebbe fatto
Johannes al posto suo ed emise un sospiro sconsolato. Probabilmente
gli sarebbe bastato attingere alle sue immense conoscenze per citare
senza alcuna difficoltà almeno dieci personaggi della storia
e della
mitologia di nome Diana.
Fece girare lo sguardo sulla
stanza, letteralmente tappezzata di libri. Si alzò e scorse
rapidamente i titoli, senza trovare altro che trattati di scienze
naturali, astronomia e geologia.
Si trasferì in
biblioteca alla
ricerca di libri di storia e mitologia, ed ebbe un attimo di sgomento
nel contemplare l’immensa raccolta di volumi, disposta su tre
piani
di scaffali in un locale che da solo era grande quasi quanto la sala
di marmo del Sanssouci.
Dopo
qualche ricerca, trovò fra i libri di più
frequente consultazione
una copia del Lexicon
Universale
di Hofmann. Lo aprì, lo sfogliò febbrilmente fino
alla sezione
dedicata alla mitologia. Alla voce ‘Diana’ lesse: Artemide-Diana,
dea della caccia, della verginità, del tiro con l'arco, dei
boschi e
della Luna.
Posò il libro.
Ripensò alla donna
di cui
parlava Konstantin, quella che di volta in volta il ragazzo chiamava
la Luna, l’Argento o la Regina.
Diana poteva essere la Luna?
“Diamo
per scontato che lo sia,” disse a voce alta, imitando il modo
di
ragionare dell’amico. “Questo a cosa ci
porterebbe?”
Ci pensò su, quindi
si diede
anche la risposta: “Alla conclusione che la donna alla quale
sono
indirizzate le lettere e la Regina di cui parla Konstantin sono la
stessa persona.” Annuì soddisfatto, poi
però fece una pausa e
soggiunse: “Il che comunque ci riporta all’inizio
del gioco. Se
non riesco a sapere chi si nasconde dietro questa Regina, e chi
è la
donna di nome Maria che le scrive, la partita finisce prima di
cominciare.”
†
Incapace di dare ulteriori
spiegazioni al criptico contenuto del diario, von Kleist si risolse a
rientrare alla propria abitazione, anche solo per rimanere in attesa
del misterioso emissario che avrebbe dovuto contattarlo.
Cosa
fare, poi, con il suddetto, era un altro problema che sembrava non
avere soluzioni. Aspettarlo
e obbedire ai suoi ordini senza creare problemi, o catturarlo e
cercare di ottenere in qualche modo delle informazioni?
Non voleva rischiare di
mettere
in pericolo Johannes. Gli aveva già distrutto
l’esistenza, sebbene
non volontariamente, e per quanto fosse certo che l’amico
avrebbe
preferito mille volte vedere salva la vita del Re piuttosto che la
propria, quel pensiero lo faceva esitare.
Si sistemò il
diario, la
richiesta di riscatto e le lettere in tasca, tornò in
cortile,
rimontò in sella e fece la strada a ritroso.
Sulla porta delle scuderie
c’era
Franz che lo aspettava.
“Tutto
bene?” chiese l’ufficiale.
“Sì,
Eccellenza. Tutto come avete detto. Il ragazzo è in cucina
con
Gertrud.” Poi, dopo una pausa: “Quella signora
Pfannenschmied non
doveva dargli molto da mangiare. È da quando siete andato
via che
sta divorando di tutto e non ha ancora smesso!”
Von Kleist sorrise.
“Buon pro
gli faccia. Se si comporterà come si deve lo
raccomanderò a qualche
mio collega come valletto.”
“Penso
che ne sarebbe felice, Eccellenza, anche perché adesso
è senza
lavoro.”
“Vedremo.
È venuto nessuno mentre ero via?”
“No,
Eccellenza.”
Von Kleist non
replicò. Qualcuno
lo stava evidentemente tenendo d’occhio e si sarebbe
presentato una
volta sicuro di trovarlo.
Rientrò in casa
immerso in cupi
pensieri, indeciso sul da farsi. Andò nel suo studio e gli
cadde
l’occhio sul bastone da passeggio con l’impugnatura
d’argento.
Dopo la serata al Sanssouci era ancora sulla scrivania, mobile dal
quale la servitù aveva l’ordine di non rimuovere
mai nulla.
Vederlo e rievocare
l’episodio
in cui la ragazza von Pfuel l’aveva raccolto e
gliel’aveva
restituito fu tutt’uno.
Gli
tornarono in mente le parole del suo collega von Bissing:
L’alchimista
e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.
Fu come se di colpo gli
cadesse
una benda dagli occhi: ecco chi era la Regina, e chi erano Atalanta
Fugiens e Aurora Consurgens.
Invece di cacciarla
come tutti
si sarebbero aspettati, le ha concesso una rendita e una villa sul
Templiner See.
Tutto corrispondeva.
In quel momento, qualcuno
bussò
alla porta.
Ma ora von Kleist sapeva anche
cosa fare.
Spostò la pistola
in modo che
fosse coperta dalla marsina, poi ordinò a Franz di aprire.
Sulla soglia c’era
Basilius.
Portava un manto nero e un tricorno dello stesso colore. Il volto era
talmente pallido da apparire quasi diafano.
“Le
parti si invertono, vedo,” lo salutò il colonnello.
L’altro non rispose.
Si limitò
a fissarlo serio, poi si tolse il tricorno e con uno scatto del capo
spostò all’indietro le ciocche corvine che gli
ricadevano sulla
fronte. “Avete ciò che vi chiediamo?”
domandò freddo.
Von Kleist annuì.
“Ovviamente.
Ma non lo tengo certo qui.”
“E
dove, allora?”
“Nel
mio studio. Venite, vi accompagno.”
“No,
portatelo qui voi.”
L’ufficiale lo
fissò beffardo.
“Pensate che metterei a rischio la vita del mio migliore
amico per
quella cosa?”
“Io
non penso nulla. Sono qui per prendere ciò che ci dovete e
andarmene. Quindi ora portatelo qui.”
Von Kleist alzò le
spalle.
“D’accordo, se proprio ci tenete.”
Andò nello studio,
strappò la
copertina dal diario e la mise su un fascio di fogli bianchi, poi
prese altri fogli e li piegò come per imitare le lettere. Le
carte
originali le ficcò in una cartella di giornali vecchi e
fogli
d’ordini del Reggimento, poi tornò dal suo ospite.
“Eccolo qui,”
disse mostrando il simulacro che aveva costruito.
Basilius lo stava aspettando
con
una mano in tasca. “Bene. Datemelo.”
“Prima
voglio una prova che Johannes stia bene.”
L’uomo rispose con
un ghigno.
“Nessuna prova. Dovete fidarvi di noi.”
“Che
sarebbe come dire che devo infilare la mano in un nido di serpi e
confidare sul fatto che non mi morderanno.”
Di nuovo calò fra i
due un
silenzio teso, poi Brandt si avvicinò e ripeté:
“Il diario.”
“Certo.”
Von Kleist allungò l’oggetto verso di lui, ma non
appena questi
estrasse la mano di tasca per prenderlo, egli sfilò la
pistola che
si era nascosto dietro la schiena, la puntò e fece fuoco.
L’uomo cadde a terra
e vi
rimase immobile. Nella mano che aveva allungato verso di lui
stringeva ancora un tampone di stoffa.
Ci fu qualche secondo di
silenzio, poi von Kleist ordinò: “Franz,
dì a Rudolph di
attaccare immediatamente, ci servirà la carrozza. E poi
chiama
Jürgen e digli di mandare gente a casa di von Ruchel, ci sono
alcune
cose da sistemare.”
Il valletto, che aveva sentito
fischiare le pallottole più di una volta assistendo il suo
padrone
sul campo di battaglia, tranquillamente rispose:
“Sì, Eccellenza.
Devo far pulire il pavimento, Eccellenza?”
“Buona
idea. Porta con te
le pistole e la spada, ci sarà da combattere.”
“Sì,
Eccellenza.”
[1] Maria la Profetessa, detta
anche Maria Prophetissima o Maria d’Alessandria, è
stata una
filosofa e alchimista vissuta nel terzo secolo d.C.
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