Echoing Green, Poison Tree di koan_abyss (/viewuser.php?uid=1023690)
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Note:
L'impaginazione sarà un po' diversa, perchè finalmente ho scaricato un
programma per l'html. Preferisco questo, come impatto visivo della
storia, e appena avrò il tempo correggerò anche gli altri capitoli.
Spero che il cambiamento non dia troppo fastidio.
Ho anche cambiato il rating della storia: avevo idea di creare una
raccolta e variare il rating per ogni anno, ma ho poi deciso di
mantenere una narrazione unitaria. Soprattutto per non dover cercare
ogni volta un nuovo titolo!
Secondo anno
Capitolo 1
“Stai bene?” le chiese sua nonna con noncuranza.
Euriale annuì: in quel momento, al riparo dai raggi del sole di fine
luglio sulla terrazza dell’hotel non c’era niente che la turbasse. La
colazione era appena stata servita e sua nonna stava leggendo una
lettera. La vecchia strega la posò e fece apparire penna e inchiostro
per rispondere, poi ci ripensò e fece sparire tutto.
“Non c’è fretta. Tua madre deve imparare la virtù della pazienza, mia
cara.” Assaggiò il suo caffè, poi estrasse dalla borsa un mazzo di
tarocchi e cominciò a mescolarli, soprappensiero. “È sempre stata così
agitata, mia figlia. Così ansiosa, terrorizzata all’idea che tu
studiassi a Beauxbatons!”
“Lei voleva che studiassi a casa,” disse Euriale, arricciando il naso.
“A casa! E cosa ne sarebbe stato, di te? Reclusa come un elfo!” La
donna scosse il capo. “Beauxbatons era il collegio per una signorina
come te: avresti studiato le arti magiche più antiche, e musica e
arte…anche alle tue amiche non avrebbe fatto male, frequentare un
ambiente più raffinato di quella Hogwarts!”
Sua nonna diede un’occhiata a Isabel e Madeline che erano appena uscite
in terrazza e si erano affacciate alla balaustra di pietra ricoperta di
rampicanti magici per guardare il mare. Il rumore delle onde e delle
voci provenienti dalla spiaggia sotto di loro salivano fino alla
terrazza. Isabel si sporse a indicare qualcosa. Euriale osservò
divertita sua nonna sporgere in fuori le labbra: non riteneva
l’atteggiamento di Isabel molto composto. La strega diede uno sguardo
alla nipote, come per metterla a confronto con le altre bambine.
Euriale non pensava di uscirne vincitrice, nonostante fosse seduta
perfettamente composta e indossasse un vestito azzurro, il colore che
secondo sua nonna le donava di più. Era ancora pallidissima, tranne che
per il naso e le guance, che si era scottata i primi giorni. Una volta
svanito il rossore era rimasta solo qualche efelide. Madeline invece,
dopo una settimana di sole nel Sud della Francia era leggermente
abbronzata e i suoi capelli biondo cenere si erano schiariti di una o
due tonalità. Ma Isabel era un vero spettacolo: la sua pelle aveva
assunto il colore del caramello e la luce accendeva i suoi occhi
nocciola di riflessi dorati. Non c’era ragazzino all’hotel o al
villaggio che non si voltasse a guardarla, quando scrollava i capelli.
Sua nonna notò la sua espressione.
“Non c’è alcun bisogno di essere invidiose,” le disse, chinandosi un
po’ verso di lei.
Euriale la osservò, sospettosa: era certa di aver tenuto le sue
emozioni per sé. Le veniva naturale, ormai.
“Oh, non guardarmi così. È un pensiero più che naturale e non serve
avere nessun potere per capirlo. La tua amica è davvero molto bella, di
quella bellezza che impedisce agli uomini di pensare correttamente. Ma
tu, tu hai una bellezza che li costringerà a fermarsi, a pensare: non
ci sarà un pericolo, qui? La tua amica dovrà stare attenta, e scegliere
bene; tu, avrai intorno solo chi sarà in grado di riconoscere il
rischio e voglia davvero affrontarlo. Mi sembra molto più utile,”
concluse, con tono pratico. “Scegli cinque carte, avanti.”
Euriale le sorrise e scelse le carte, lasciando affiorare il suo potere
come sua nonna le aveva suggerito la prima volta che le aveva fatto i
tarocchi.
“E Madeline, nonna?” chiese.
La strega diede un’altra occhiata alle ragazzine: Isabel stava
trascinando Madeline verso il lato opposto della terrazza, parlando
fitto. Madeline sembrava scettica.
Sua nonna sospirò leggermente: “È certamente carina. Ha l’aria di una
creatura che verrà sottovalutata tutta la vita, temo.”
“Sarebbe davvero un errore, nonna,” le rispose Euriale. Lei certamente
non lo avrebbe mai commesso.
“Speriamo che sappia sfruttare gli errori degli altri a proprio
vantaggio, allora,” commentò sua nonna. Poi si alzò, spazientita.
“Signorine! Vorreste gentilmente smetterla di importunare gli altri
ospiti e venire a godervi la colazione?” disse in inglese a voce alta.
“Di sicuro a Beauxbatons avrebbero appreso un po’ più di disciplina,”
continuò in francese, riaccomodandosi.
Isabel e Madeline si affrettarono a raggiungerle. Mentre loro
chiacchieravano, sua nonna girò le carte che Euriale aveva scelto. La
ragazzina ascoltava solo con un orecchio, cercando di seguire anche la
conversazione delle due amiche.
Sua nonna scoprì l’Eremita: “…e seguito dalla Forza, è sicuramente una
predizione favorevole: l’esperienza di lui permette a lei di
realizzarsi sentendosi sostenuta e compresa…” La vecchia strega studiò
le carte da più vicino, dubbiosa: “Mi domando chi rappresenti
l’Eremita, se la Forza rappresenta te…tuo padre? Oh, non so, non hai
qualche idea, mia cara?”
Ma Euriale si era di nuovo distratta perché Isabel l’aveva fatta ridere
e sua nonna, sospirando esasperata per la mancanza di buone maniere nei
collegi inglesi, ripose le carte.
“Davvero non ti dispiace? Ormai è tardi per dirgli di non venire, ma
può sempre prendere un tè di sotto e tornarsene a casa,” disse Will.
Liam, in piedi con le mani in tasca al centro della camera dell’amico,
scosse la testa: “Non c’è problema. Fai pure la lezione, io posso
guardare.”
Si diede un’occhiata attorno: gli piaceva la stanza di Will. Era
circolare, dato che occupava la torre del maniero, e aveva strette
finestre a feritoia che affacciavano a Ovest. Il resto delle pareti era
tappezzato di arazzi e poster. Sopra il letto era appeso un
gagliardetto Serpeverde che sembrava piuttosto vecchio e sul comodino
c’era una foto che ritraeva Will e suo padre a cavallo sul sentiero che
portava alla scuderia. Liam era già stato a trovarlo un paio di volte,
e sapeva che quel sentiero girava attorno alla scogliera su cui era
abbarbicato il castello dei McIver; sbucava su una spiaggia scogliosa
dove erano andati a nuotare durante la sua ultima visita.
Avevano programmato l’incontro di quel pomeriggio un paio di giorni
prima, ma Will aveva dimenticato di avere la sua lezione di musica.
Liam sapeva che a Will sarebbe dispiaciuto rimandarla, dato che alla
fine delle vacanze mancavano solo tre settimane. Inoltre, era curioso
di vederlo suonare quella chitarra magica e di vedere il maestro di
musica. Chissà se somigliava a qualche cantante famoso.
“D’accordo, allora. Prendi tutto quello che ti pare, fai come se fossi
a casa tua,” rispose Will, preparando chitarra e quaderni.
Guardò di sottecchi l’amico succhiarsi il labbro gonfio mentre studiava
da vicino il suo poster delle HolyHead Harpies. Aveva trovato Liam
smagrito quando si erano rivisti, nonostante negli ultimi mesi di
scuola fosse diventato piuttosto paffuto. Poteva anche essere dovuto al
fatto che l’amico si era alzato di quasi una spanna, ma a Will pareva
comunque che ci fosse qualcosa di sbagliato. E poi, il labbro. Lui non
aveva chiesto niente e Liam non aveva offerto spiegazioni, ma Will non
poteva fare a meno di pensare alla sua unica visita alla tenuta dei
Warrington e all’incontro con il padre di Liam.
Quando era uscito dal camino, Liam lo aveva tirato in piedi, ripulito
dalla fuliggine e portato subito nello studio del padre. Will non
poteva dire che l’uomo gli avesse fatto una buona impressione.
Liam lo chiamava ‘signore’. Anche Will chiamava così suo padre, di
tanto in tanto, ma quasi per gioco, di sicuro con affetto. Non che
Damian Warrington fosse stato scortese o scontroso: al contrario si era
detto felice che il figlio avesse scelto un amico del suo livello e
aveva lodato il carattere di Thomas McIver e il suo operato. Will aveva
sorriso e ringraziato, ma sentiva sulla propria faccia lo stesso
sorriso del vecchio Warrington e di Liam: sgradevole, feroce, pieno di
sottintesi che lui non capiva. Non poteva proprio dire di avere un buon
ricordo di quella visita.
Ora gli sembrava di capire perché Liam avesse fatto di tutto per
evitare il padre, la prima volta che si erano incontrati. Lui all’epoca
non aveva notato niente di strano, probabilmente perché aveva occhi
solo per il proprio, di padre, e tutto il resto passava in secondo
piano.
Qualcuno bussò e Will si riscosse: “Avanti!”
Il maestro di musica, Otis Redbass, entrò spedito, con la sua borsa
colma di spartiti, leggii, bacchette, archetti, plettri e strumenti di
prova: “Bentrovato, William! Ma come, non sei ancora pronto?”
“Mi ero dimenticato della lezione, Mastro Redbass. C’è anche il mio
amico Liam,” fece Will.
Liam era rimasto molto deluso dal mago: aveva l’aria più che ordinaria,
era basso e rotondo come un tamburo. Lo fissò con aria scettica.
“Piacere,” bofonchiò alla fine, poco convinto.
“Nessun problema! Puoi partecipare, se vuoi,” rispose gioviale Redbass,
prima di notare il labbro di Liam. “Ragazzi, non avrete fatto a botte,
vero?” esclamò, guardandoli contrariato.
“Non vedo come la cosa ti riguardi, patetico tamburino!” scattò Liam.
Redbass sobbalzò, facendo un passo indietro. Si voltò a guardare Will,
che era rimasto a bocca aperta.
“Io non c’entro niente,” rispose lui al maestro, “ma Liam non ha
problemi a trovare qualcuno con cui fare a botte, come vede.”
Liam diede uno sbuffo di risa e voltò loro le spalle. Ma Will rimase a
fissarlo serio, tenendo la chitarra per il manico, stringendo le corde.
Liam si voltò di nuovo e lo guardò, mordendosi una guancia. Will
accennò al maestro.
“Mi dispiace,” capitolò Liam, guardando appena l’uomo, “tasto dolente.”
“Oh, io…va bene, scuse accettate. Cominciamo allora?” rispose Redbass,
concentrandosi poi su Will.
Liam si sedette sul letto e li guardò, sghignazzando senza ritegno
durante gli esercizi di solfeggio (“Sei proprio stronzo!” gli
sibilò Will, facendolo ridere ancora di più).
Quando l’amico incominciò a strimpellare dovette ammettere che sembrava
divertente.
“Ti piacerebbe provare?” fece Redbass.
“Sarebbe bello suonare insieme!” esclamò Will. “Ma devi scegliere un
altro strumento.”
“Uhm, che cosa?” chiese Liam, stringendosi nelle spalle.
“Be’, c’è il basso a quattro corde, il flauto…” elencò il maestro. Liam
gli lanciò un’occhiataccia. “O le percussioni! Per cominciare vanno
sempre bene.”
Will annuì: “Anche io ho fatto tanti esercizi per sentire il ritmo.”
Liam prese riluttante le due bacchette e una specie di mattone di legno
che Redbass gli passò e restò a fissarlo.
“Ehm, sì, cominciamo,” fece l’uomo, un po’ in imbarazzo.
Mise i bambini al lavoro e ringraziò la sorte che Liam non fosse un
completo disastro: niente può scatenare la collera di un ragazzino come
il sentirsi inferiore a un coetaneo!
“È stato divertente,” ammise Liam mezz’ora dopo, punzecchiato da Will.
“Lo sapevo! Dovresti fare lezione anche tu.”
Redbass cominciò a riordinare le sue cose: “Se ti interessa, posso dare
lezioni anche a te.”
Liam distolse lo sguardo: “Ma dove?”
“A domicilio, ovvio!”
Il ragazzino lo guardò come se fosse più stupido di un troll: “Nessuno
entra in casa nostra senza essere invitato da mio padre. E lui non
inviterebbe mai…” Squadrò Redbass come cercando un termine adatto.
“Sono una persona rispettabile!” disse il maestro di musica, asciutto.
“Desolato di essere al di sotto degli standard della tua famiglia.”
Chiuse la borsa.
“Potrebbe far lezione con me!” intervenne Will. “Qui, da noi. Che ne
dici?” chiese all’amico.
“Potrebbe essere un’idea…” cominciò Liam, “A tua madre starebbe bene?”
“Dovrete entrambi chiedere il permesso alle vostre madri,” li redarguì
Redbass.
“Mia madre sarà contenta!” sentenziò Will.
“Allora va bene. Grazie,” fece Liam, guardando ora l’amico ora Redbass.
“D’accordo…arrivederci a giovedì, allora, ragazzi,” rispose l’uomo.
In fin dei conti, quel ragazzino non aveva colpe se i suoi erano ricchi
e snob.
Rimasti soli, i ragazzi si guardarono.
“Ottimo!” esultò Will. “Hai fame?”
“Non mi è ancora chiaro il perché di questo invito,” sbuffò Marvin
Heartilly, studiando la moglie prepararsi ad accogliere il loro ospite
per il tè.
“Tua figlia ha insistito tanto…dice che è importante,” rispose lei,
cambiando posto ai cuscini decorativi del divano con un colpo di
bacchetta.
In realtà, Euriale aveva esposto la sua richiesta solo una volta, e lei
non aveva opposto che poche e blande obiezioni.
“Ma, amore, sarà molto occupato…Gli abbiamo già dato tanti pensieri
l’anno scorso…Non credo sia il caso di invitare il professor Piton a
casa…”
A quel punto, si era intromessa sua madre, in visita da loro: “Chi è
questo professor Piton?”
“È il Direttore di Serpeverde, il dormitorio a cui è stata assegnata
Euriale. È stato lui a insegnarle a gestire il suo potere in mezzo a
tutti quegli studenti.”
“Ah! E tu non ritieni sia il caso invitarlo in casa vostra per
ringraziarlo?” aveva esclamato sua madre, con finto tono leggero.
“Non è questo,” aveva ribattuto Amélie Heartilly, “è che non mi dà
l’idea di essere una persona espansiva…”
“Ma, mia cara, certo che no. È inglese! Ma nessuno dice di invitarlo
per il fine settimana: un tè sarà sufficiente. E poi, io non ho avuto
ancora l’occasione di incontrare l’uomo che si occupa dell’educazione
di mia nipote, ti pare giusto?”
I signori Heartilly avevano dovuto capitolare, anche se entrambi
avrebbero preferito non dover pensare alla Casa di Serpeverde almeno
fino alla fine delle vacanze. Non avevano niente in contrario che la
loro bambina fosse stata ritenuta ambiziosa: anche a Beauxbatons era
considerata una caratteristica importante, e a Marvin Heartilly era
sembrato di buon auspicio per una futura carriera al Ministero.
Addirittura, lo zio di Euriale, il marito di sua sorella, si era spinto
a definirla sulla buona strada per seguire le sue orme fino alla
poltrona di Ministro! Se solo…be’, se solo Serpeverde non fosse stata
così cupa, ecco.
Non che Euriale fosse mai stata una bambina molto solare, ma da quando
era tornata da scuola aveva una serie di manie a dir poco bizzarre:
tranne per rarissime eccezioni, indossava solo più il verde, il nero e
il grigio; a parte per i dieci giorni trascorsi in Francia con la nonna
e le sue amiche aveva passato l’estate a studiare il suo libro di
Pozioni; aveva voluto tagliarsi i capelli corti perché le davano noia
quando preparava qualche distillato. E non ultima, ma particolarmente
strana, era l’improvvisa passione per le macedonie di frutta: ne
preparava in continuazione, passando interi pomeriggi a sbucciare e
affettare i frutti più strani. Ne aveva preparata una anche quel
pomeriggio, con religiosa concentrazione, mentre Azazelo, l’elfo
domestico, preparava pasticcini e paste da servire con il tè.
Marvin e Amélie Heartilly non avevano potuto fare a meno di diventare
sempre più nervosi a mano a mano che l’ora del tè si avvicinava, mentre
Euriale se ne stava sul divano tranquilla, e probabilmente a mente
chiusa, ignorandoli. Sua nonna osservava divertita la figlia e il
genero: “Oh, cielo, quale mostro sta per suonare alla porta!”
Marvin Heartilly strinse le labbra per impedirsi di risponderle a
dovere, e Amélie Heartilly rifletté che forse avrebbe dovuto far
leggere alla madre la lettera di risposta di Piton al suo (supplicante)
invito: mezza pagina di vaghe insinuazioni sul fatto che loro non
considerassero il suo tempo meglio impiegato in una qualsiasi
altra attività rispetto ad ascoltare i loro angosciati ringraziamenti;
una serie di ragioni per cui avrebbe preferito soprassedere al quel pur
piacevole incontro (e qui Amélie Heartilly avrebbe giurato che la
calligrafia dell’uomo si era fatta ancora più sarcastica), ma a cui si
sarebbe presentato, se la questione non poteva essere chiusa altrimenti.
A dirla tutta, Amélie Heartilly non era stata certa che il professore
avesse accettato fino a che non sentì suonare e Azazelo non entrò in
soggiorno annunciando il professor Piton.
La padrona di casa gli si fece incontro, cercando di non pensare che le
sembrava ancora più arcigno e untuoso di quanto non ricordasse.
Aveva appena fatto le presentazioni che sua madre la spinse da parte:
“Ah, voici l’Hermite! Era stato predetto e atteso, professore!”
“Lo spero. Non è mia abitudine presentarmi senza invito,” rispose Piton
con un breve inchino. “In effetti, eremita è un termine adatto a
descrivermi.”
Euriale osservò sua nonna elargire a Piton il sorriso che riservava
agli scettici (a suo padre, in primo luogo) e si fece avanti:
“Bentrovato, professore. Vuole accomodarsi?”
“Signorina Heartilly.”
Euriale gli si accostò e sfiorandogli appena il braccio lo guidò al
divano. Anche se bruciava dal desiderio di sondare le emozioni di Piton
si trattenne, continuando a tenere sigillata la mente.
“Fai progressi,” le disse lui.
Euriale sorrise.
“Direi che possiamo servire il tè,” intervenne sua madre, mentre gli
adulti si accomodavano.
“Faccio io,” si offrì Euriale.
Marvin Heartilly studiò la figlia lasciare la stanza soddisfatta come
un ragno della sua tela e notò quel Piton che faceva altrettanto. Sua
suocera prese il controllo della situazione, chiedendo ragguagli
sull’educazione della nipote in Occlumanzia. Marvin Heartilly notò con
piacere che il professore non gradiva essere trattato come un
precettore privato e ne gioì segretamente.
“Non ritengo che Euriale abbia più bisogno delle mie lezioni,” stava
dicendo Piton.
“Ma la perfezione è sempre lontana. Se mia nipote dovesse incontrare
nuove difficoltà?”
“Sua nipote sa che può sempre rivolgersi a me…”
“…per le cose importanti,” finì per lui Euriale, rientrando con il
vassoio del tè.
L’elfo portava quello delle paste. Posato il vassoio, Azazelo servì
tutti i maghi.
Euriale posò di fronte a Piton una coppetta della sua macedonia
tagliata alla perfezione, poi si sedette composta. Piton osservò
incuriosito la frutta.
“Questa l’ha preparata nostra figlia…espressamente per lei,” spiegò
Amélie Heartilly.
Euriale non aveva portato coppe per nessun altro. Le sfuggiva sempre di
più il senso di quel pomeriggio.
Piton guardò Euriale, sollevando un angolo della bocca. Lei gli mostrò
le mani, con le dita ben aperte: nessun taglio. Si era esercitata per
settimane con il coltello d’argento a pelare, tagliare, sminuzzare,
spremere, scavare. I primi tempi Azazelo aveva dovuto curare
un’infinità di piccoli tagli, ma ormai Euriale poteva dire di aver
quasi raggiunto la precisione chirurgica di Liam e Isabel. Con il
vantaggio che le sue capacità di concentrazione erano molto più
allenate.
Si morse un angolo del labbro mentre il professore sollevava lo sguardo
dalle sue mani al suo viso. Piton non stava proprio
sorridendo, ma…
“Non…non l’assaggia?” si intromise Amélie Heartilly, scambiando
un’occhiata perplessa col marito.
“Non è da mangiare,” le risposero contemporaneamente sua figlia e il
professore, e la sua confusione fu completa.
Il loro ospite non si era trattenuto a lungo. Aveva bevuto il tè senza
mangiare nulla, aveva irritato la madre di Amélie e si era congedato.
“Ci vedremo a Hogwarts,” aveva detto a Euriale.
Non appena era andato via, Euriale si era ritirata in camera sua.
“Non sono sicuro che mi piaccia, quell’uomo,” aveva detto Marvin
Heartilly a nessuno in particolare.
Sua suocera però gli rispose: “Non è particolarmente gradevole, ma ha
un’ottima relazione con Euriale, secondo le carte.”
Marvin Heartilly la guardò con tanto d’occhi: “Non voglio che
quell’uomo abbia nessunissima relazione, con mia figlia!”
“Oh, non essere ridicolo, Marvin. Si parla di una relazione accademica,
di studio e scoperta. E come puoi pretendere che tua figlia non sia
legata al suo professore, che l’ha salvata dagli aspetti difficoltosi
del suo potere?” rispose ancora la vecchia strega.
Marvin Heartilly abbandonò il soggiorno per non dire cose di cui, dopo
ore di discussioni, si sarebbe pentito. Raggiunse la camera della
figlia e bussò leggermente.
“Avanti, papà.”
Euriale era distesa sul suo letto, appoggiata al suo cuscino di rose.
Era un cuscino magico, fatto di rose recise che non appassivano mai e
continuavano a profumare come boccioli appena schiusi. Quando Euriale
aveva i capelli più lunghi, appoggiata su quel giaciglio sembrava una
principessa addormentata in attesa di un principe.
“Posso entrare un momento?” le chiese.
Euriale si sollevò a sedere e allungò una mano. Marvin Heartilly si
sedette sul letto e prese la mano della figlia, senza sapere da dove
cominciare. Che poteva dirle? Che non gli piaceva com’era sembrata in
sintonia con quel Piton, come completava le sue frasi e come sembravano
capirsi con uno sguardo, mentre per lui e sua madre era diventata un
mistero ancora più fitto, da quando era partita per Hogwarts?
Euriale osservò suo padre lasciar vagare lo sguardo per la stanza e
ricordò, come lui, di quando l’uomo l’aveva risistemata e ridipinta.
Era un brutto periodo, per loro. Euriale non riusciva a controllare la
sua empatia ed era preda di emozioni oscure e tristi che non capiva.
Non avendo altri suggerimenti, Marvin Heartilly aveva provato a rendere
più allegro l’ambiente che la circondava: aveva ridipinto tutto di
bianco, pareti e mobili e persino le travi di legno del
soffitto. Sopra la testiera del letto aveva appeso un cuore
fatto di rami intrecciati, sbiancati dalle onde del mare, e al centro
aveva appeso la foto di un roseto che ondeggiava nel vento e nel sole
di maggio, una foto del luogo dove lui e Amélie si erano sposati. Per
settimane le aveva portati fiori nuovi ogni giorno e aveva incantato il
cuscino di rose. Più che a Euriale, era servito a lui e ad Amélie per
togliersi di dosso la depressione, e ciò naturalmente aveva giovato
anche alla figlia.
Marvin Heartilly si schiarì la voce. “Ti…ti piace molto, il professor
Piton? Vuoi che sia orgoglioso di te?” le chiese.
Euriale gli sorrise: “Non ti preoccupare, papà. Sei il mio solo e unico
papà. Non ho bisogno di averne altri.”
L’uomo le strinse più forte la mano: “Oh, oh, bene…Non so cosa
stavo…sono uno sciocco, bambina, scusami.” Si girò, perché si sentiva
pizzicare il naso.
“Al massimo,” continuò Euriale, “posso avere una cotta per il professor
Piton.”
Marvin Heartilly si rigirò di scatto, gli occhi sgranati.
Euriale gli rivolse un sorriso da folletto: “Ti prendo in giro.”
“Euriale!” esclamò lui, alzandosi. “Non sono cose da dire…”
Euriale balzò in piedi sul letto e lo strattonò per una spalla:
“Scusami, papà! Dai!”
“Non puoi scherzare così, giocare con le altre persone, Euriale,” le
disse, serio.
“No,” convenne lei, con aria pentita.
Se solo non glielo rendessero sempre così facile.
“Foxy!” chiamò Liam entrando in casa.
L’elfa arrivò di corsa.
“Il signorino ha chiamato?” chiese, facendoglisi incontro.
“Dove sono tutti?” domandò Liam attraversando l’ingresso e guardandosi
attorno.
“Le signore sono uscite, invitate dalla signorina Vance, di…”
“Ah, già! Me lo sono ricordato,” la interruppe il ragazzino.
“Il padrone,” continuò Foxy, torcendosi le lunghe dita nodose, “era
nello studio, poi ha annunciato che si ritirava nella sua biblioteca.”
“Uhm, d’accordo. Vai,” rispose Liam, pensando a come occupare quel
pomeriggio di libertà.
Quella mattina aveva già volato e dopo pranzo aveva ripulito
meticolosamente la sua scopa, una Falcon 8, prima di riporla. Lui, sua
madre e sua zia avevano pranzato all’aperto, dato che gli elfi avevano
riferito che il padrone non si sarebbe unito a loro.
Forse poteva fare un po’ di pratica con le percussioni, in vista della
successiva lezione di musica con Will, rifletté, diretto al piano
superiore.
Notò, sulla console del corridoio, un oggetto posato sullo scialle di
sua madre: il sigillo di famiglia, che il giorno prima la donna gli
aveva chiesto di prendere dallo studio del padre. Probabilmente sua
madre aveva scritto qualche lettera sulla terrazza, la sera prima, e
poi aveva dimenticato il sigillo dove aveva riposto le altre cose. Liam
lo prese per rimetterlo a posto, sapendo che si trattava di un oggetto
prezioso, di marmo rosso con incisi una elaborata W e il drago gallese.
Liam scosse la testa, all’idea che sua madre l’avesse lasciato in giro.
Lui non si sarebbe mai arrischiato a farlo. Né l’avrebbe mai più preso
per giocare a stampigliare draghi sui suoi disegni, come aveva
incautamente fatto a cinque anni: quando suo padre se n’era accorto
l’aveva preso a schiaffi finché lui non aveva più avuto il fiato per
piangere.
Liam pensò che almeno quella volta si era trattato di un castigo per
qualcosa di sbagliato che lui aveva fatto. Sua padre era severo e
poteva essere odioso, quando qualcuno, e di solito si trattava di suo
figlio, lo deludeva o lo contrariava. A Liam non dispiaceva più di
tanto, essere picchiato o castigato per aver commesso un errore, c’era
un senso, un perché. Erano tutte le altre volte che gli mettevano
addosso una paura nera di suo padre.
Bussò alla porta dello studio per scrupolo, dato che Foxy aveva detto
che il padrone era nella biblioteca. Entrò senza far rumore e posò il
sigillo sullo scrittoio, nella scatola di ottone lavorato che conteneva
le barre di ceralacca. Si girò e fece per ritornare alla porta,
accorgendosi di star trattenendo il fiato.
Era in centro alla stanza quando il pannello di legno che collegava
studio e biblioteca si aprì. Liam si immobilizzò, guardandolo scorrere
e rivelare il bastone di suo padre e poi i suoi piedi.
Damian Warrington fissò il figlio con occhi spenti come il suo
colorito: “Che cosa ci fai qui dentro, inutile mostriciattolo?”
“Sono venuto a riporre il sigillo di famiglia, signore. Mia madre l’ha
utilizzato ieri sera,” rispose Liam, sapendo che l’uomo non lo
ascoltava.
Poteva dirlo dal suo sguardo, dal modo in cui aveva parlato: era come
se non avesse davanti lui, il figlio a cui raccomandava di difendere
l’onore della famiglia, ma un estraneo, un intruso, qualcosa di alieno
e ripugnante.
Damian Warrington avanzò verso di lui e Liam dovette sforzarsi per non
girarsi e fuggire. Si aspettò di essere colpito.
Qualche settimana prima l’uomo gli aveva spaccato il labbro con un
pugno. Aveva perso il conto delle volte che un’esplosione immotivata di
violenza lo aveva lasciato con il naso sanguinante o un occhio pesto.
Sua madre curava le sue ferite ripetendogli che non era colpa sua, che
non aveva fatto nulla di male, senza capire che era proprio quello che
lo faceva impazzire: perché se la prendeva con lui senza motivo? E dopo
un anno a Hogwarts, tutto era molto peggio, perché in un certo senso
l’abitudine aveva sempre mitigato i contorni di quelle esperienze. Ma
ripiombarci in mezzo, dopo quasi un anno di pace…
Damian Warrington era quasi di fronte a lui.
“Cosa ci fai…non voglio vederti, vai via!” gli gridò tra i denti.
“Padre…” provò Liam, ma l’uomo sollevò il bastone e lo colpì alla
tempia. “Aaah!”
Il ragazzino rovinò a terra, coprendosi la testa con le mani.
“Non voglio vederti! Non qui! Non qui!” continuava a gridare suo padre,
colpendolo ancora.
“No! Padre, no! Sono io!” strillò Liam, mentre il bastone calava sui
suoi avambracci e sulle sue spalle.
Cominciò a singhiozzare, cercando di spingersi via, di strisciare sul
tappeto.
Suo padre si fermò e Liam sentì il bastone cadere sul tappeto con un
suono ovattato. Si arrischiò ad aprire gli occhi e vide il vecchio
chinarsi su di lui. Mentre l’uomo lo afferrava per i polsi pensò per un
istante che volesse aiutarlo ad alzarsi.
Ma l’espressione di Damian Warrington era folle come non mai: “Una
volta per tutte…imparerai…” ringhiò.
Lo strattonò in piedi e lo spinse sulla poltrona davanti allo
scrittoio. Liam si ritrovò con una gamba incastrata tra il bracciolo
della poltrona e suo padre, con il ginocchio dell’altra gamba piegato
sulla seduta e il viso premuto contro lo schienale.
“Padre, vi prego…” supplicò, cercando di liberare i polsi dalla stretta
dell’uomo.
Bloccandogli le braccia con una mano, Damian Warrington si sfilò la
cintura, borbottando tra sé, sordo alle implorazioni del figlio.
“Per favore, no, no, no!”
L’uomo fece scattare il braccio all’indietro e lo frustò con forza.
Liam urlò forte, una volta, due, tre, ad ogni colpo. Sentiva il sangue
che gli colava lungo la schiena e un dolore bruciante.
Riuscì a divincolare un polso dalla presa dell’uomo e a spingersi
all’indietro, staccandosi dallo schienale della poltrona. Damian
Warrington barcollò e si addossò allo scrittoio, per recuperare
equilibrio e fiato.
Sentendosi lasciare l’altro braccio, Liam schizzò via, correndo alla
porta. Arrivato nell’atrio, alla base delle scale, scivolò sulle
ginocchia, ma si rialzò di scatto. Corse al piano di sopra e si barricò
in camera sua. Si accasciò sul pavimento, piangendo.
Cosa diavolo era successo? Voleva ucciderlo? Non riusciva a respirare.
Si pulì la faccia dalle lacrime e dal muco con la manica della camicia.
C’era anche del sangue. Poteva venire dalla sua tempia o dalle
escoriazioni sui suoi polsi e avambracci. Che cosa avrebbe detto, sua
madre, questa volta? Come le avrebbe raccontato quello che era
successo? Provò a muoversi e subito gemette per il dolore alla schiena.
Ricominciò a singhiozzare. Non poteva restare in quelle condizioni
tutto il pomeriggio.
Provò a parlare e la voce gli uscì gracchiante e incomprensibile.
Dovette aspettare di calmarsi un po’.
“Foxy!” chiamò, quando ne fu in grado.
L’elfa apparve all’istante accanto a lui.
Strillò inorridita e si coprì la bocca con le mani: “Oh, padrone non
doveva, padrone non doveva!” Poi si zittì colpendosi la fronte con il
pugno.
“Aiutami,” ansimò Liam, cominciando a sbottonarsi la camicia.
Foxy lo aiutò a sfilarla, ma alla vista della sua schiena cominciò a
piagnucolare.
“Zitta! Fa qualcosa…” le ordinò Liam.
“Oh, Foxy non è abbastanza brava, padroncino, non è abbastanza brava,
serve un mago!”
“Provaci!” insistette lui. “Poi ci penserà mia madre, ma non puoi
lasciarmi così, fa male!”
Foxy diede un singhiozzo e annuì. Allungò le manine verso di lui e Liam
sentì il dolore scemare un po’. Il sangue non scorreva più a
inzuppargli l’orlo dei pantaloni.
Foxy gli prese i polsi e curò completamente quelle ferite, meno gravi,
poi lo guardò con pena.
Liam ritrasse le mani: fare pena a un elfo domestico! Masticò la sua
umiliazione, cercando di alzarsi. Le ferite appena rimarginate sulla
sua schiena e sulle spalle lo costrinsero a muoversi come un vecchio,
come suo padre. Al pensiero contrasse la mandibola fino a farsi male.
La tempia zampillò sangue fresco.
“Signorino, hai ancora una ferita,” disse Foxy, allungando una mano
verso il suo volto.
“Non mi toccare!” strillò Liam, schiaffeggiando la manina.
“Signorino, permetti…”
“No!” fece lui, sentendo di nuovo le lacrime scendere. “Ti ho detto di
non toccarmi. Vattene!”
Foxy mosse qualche passetto riluttante verso la porta, senza smettere
di fissarlo.
Liam raggiunse il letto, si sdraiò cautamente sulla pancia e abbracciò
il cuscino.
Isabel non vedeva l’ora che la scuola ricominciasse. Si era goduta le
vacanze e il tempo trascorso con i genitori, le colazioni all’aperto,
le feste in giardino, i pomeriggi in piscina. Era stata contenta di
andare in Francia dalla nonna di Euriale insieme a Madeline: era la
prima volta che viaggiava senza i genitori. Poi, essere solo tra
ragazze era stato divertente: la nonna di Euriale le chiamava ‘le mie
signorine’ e le trattava da ragazze, non da bimbette. Al contrario di
quello che accadeva a casa sua, nelle ultime settimane.
La famiglia di sua madre era in visita, e con loro tutte le sue cugine
più grandi. Isabel ricordava che da bambina aveva adorato la visita
delle cugine, ma ora non ne poteva proprio più: da quando loro erano
arrivate, gli amici di Olivier praticamente campeggiavano a casa loro.
Venivano a nuotare e a mettersi in mostra in piscina, si offrivano di
accompagnare le ragazze a fare passeggiate in campagna o a visitare
Londra. Ogni sera si riunivano sulla terrazza. Qualcuno ballava, ma era
più frequente sentire sussurri all’ombra del pergolato, o vedere una
delle sue cugine allontanarsi in giardino verso il labirinto di siepi,
seguita poi discretamente da uno dei ragazzi.
Tecnicamente, suo fratello avrebbe dovuto fare da chaperon alle
signorine, ma Isabel aveva l’impressione che lo divertisse molto di più
organizzare sotterfugi e inventare complesse menzogne per coprire le
cugine. Addirittura, una sera Isabel era certa di aver visto Morgan
Throckmorton arrampicarsi fino alla finestra di Monica. Era corsa a
dirlo a Olivier, che stava bevendo qualcosa in terrazza con Ophelia.
“Oh, no!” aveva esclamato lei, tra il disgustato e il divertito, “Vuoi
dire che dovremo sopportare Morgan che…”
Olivier aveva riso di gusto: “Temo proprio di sì!”
“Non dovresti fare qualcosa?” gli aveva chiesto Isabel, incrociando la
braccia.
“E che dovrei fare, Isa? Senza contare che Monica mi caverebbe gli
occhi!”
Isabel se n’era andata disgustata.
Dopo quasi due settimane di quella storia, cominciava davvero ad essere
stufa. Oltretutto si sentiva un po’ trasparente, assieme alle altre:
avevano fatto una foto di gruppo e lei si distingueva appena, in quel
mare di testa brune. Questo le aveva dato un’idea da sperimentare
durante gli ultimi giorni di vacanza, così si era messa a sfogliare
qualche libro.
Si era seduta all’ombra di uno dei faggi del viale di accesso alla
casa, abbastanza lontano dagli schiamazzi provenienti dall’acqua. Era
vicino all’imponente cancello d’ingresso e vide Tyrell Plimmswood
atterrare con la sua scopa davanti a uno dei due scudi con gli stemmi
dei Gascoyne e dei De Atienza. Qualcuno gli lanciò un saluto squillante
e gli venne incontro.
“Potevi almeno portare Madeline con te!” lo apostrofò Isabel,
sollevando lo sguardo dal suo libro.
Tyrell si girò di scatto.
“Oh, ciao Isabel. Mi dispiace, non ci ho pensato,” le rispose con un
sorriso.
“Chi è Madeline? Non sarà la tua fidanzata?” intervenne Jacinta De
Atienza.
Era lei che aveva salutato Tyrell da lontano.
“Ciao Jojo. È la mia cuginetta, va a scuola con Isabel…” le rispose lui.
Jacinta si fece avanti e lo prese sottobraccio, cominciando a
chiacchierare.
Tyrell rivolse a Isabel uno sguardo perplesso e lei lo ricambiò con
sufficienza.
“Isabel? Perché non vieni anche tu? Che cosa fai tutta sola?” le chiese
sua cugina in spagnolo, in un inusuale momento di interessamento.
Isabel non cambiò espressione: “Ho da fare.”
Madeline salutò l’ultimo giorno delle vacanze con assoluto sollievo.
Non ne poteva più, dei suoi genitori. Da quando aveva ricevuto l’invito
di Euriale loro non avevano fatto altro che analizzare la situazione,
cercando di stabilire cosa avrebbe potuto significare per Madeline e
per loro.
“Un invito dalla nipote del Ministro! Oh, Maddie, devi essere
orgogliosa!”
“Dovrai comportarti bene, e cerca di non litigare con la tua amica,
chiaro?”
“Ho scritto ai genitori per ringraziarli, ma forse dovremmo
approfittarne e invitarli, non credi?”
La famiglia AshenHurst non era ricchissima di mezzi, ma aveva sempre
saputo coltivare amicizie vantaggiose, approfittare delle influenze
giuste e appoggiare il partito vincente. Madeline aveva capito che non
era dovuto solo ai casi della vita, il fatto che sua madre avesse perso
i contatti con la sua vecchia compagna di scuola Andromaca, la madre di
Will: aveva a che fare con la fine della Guerra.
“Ma ormai, Thomas McIver è morto, la Guerra è finita da anni…quasi
tutto è tornato come prima. Guarda i Malfoy: lui entra ed esce dal
Ministero come crede, e non c’è assemblea o consiglio d’amministrazione
di cui non faccia parte…” l’aveva sentita dire una volta, poco prima
che lei e Will si conoscessero a quella festa di primavera.
Dopo il caso di stato che era diventata la sua vacanza in Francia con
Euriale e Isabel, i suoi avevano sollevato altre infinite questioni
sulle sue visite a Will.
“Sarebbe meglio se frequentasse Liam Warrington, ad essere
onesti…qualcuna delle tue amiche è mai stata invitata dai Warrington?”
aveva chiesto suo padre.
“Non che io sappia,” aveva risposto lei, esasperata.
“È presto, per quel genere di inviti!” aveva chiocciato sua madre.
Madeline avrebbe tanto voluto che la smettessero di farsi i fatti suoi.
Che cosa contava un invito per il tè, quando tutti e cinque erano
entrati nella Foresta Proibita ed erano sfuggiti ai demoni
Pogrebin? Quando avevano deciso di restare assieme, perché
tutti gli altri o erano delle piaghe o li trattavano da nemici? Loro
erano alleati.
Quella sera preparò il suo baule con attenzione, ripensando a quando
aveva compiuto lo stesso gesto l’anno prima. Non erano cambiati solo i
libri: c’era la sua sciarpa Serpeverde, ora, vestiti e fermagli per
capelli un anno fa non avrebbe degnato di uno sguardo. Riconobbe
l’influenza di Isabel e si chiese se all’amica avrebbe fatto piacere o
se le avrebbe dato fastidio. Si chiese se qualcuno avrebbe notato che
stava cambiando. Difficile che lo notassero i ragazzi. Euriale, forse.
Prese il manuale di Incantesimi dal suo comodino, dove era rimasto da
quando lo aveva acquistato perché le piaceva sfogliarlo ogni sera,
giochicchiando con la sua bacchetta. Ripose il manuale nel baule, poi
sistemò la sua bacchetta, di legno di pioppo e crini di unicorno,
vicino agli abiti che avrebbe indossato il giorno dopo.
‘Presto,’ si disse, felice.
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