Sulla sedia

di look_sono_io
(/viewuser.php?uid=901878)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Un nuovo giorno iniziò, ma a Spock questo non importava. Si sentiva staccato, lontano, solo, diverso. Era tornato ai tempi della scuola, quando in lui balenava l’idea di essere un’esistenza inutile di cui vergognarsi. Era seduto di fianco al suo letto. Più immobile di lei. Guardava il suo ventre. Poi il volto. Ventre. Volto. Ventre. Volto. Ventre. Volto. Non riusciva a darsi alcuna spiegazione. Vicino a lui la culla era silenziosa e vuota. Il piccolo Tiberius era rannicchiato in un’incubatrice. Il respiro incostante era costantemente controllato dall’ufficiale medico. Ogni quarto d’ora Bones si girava per controllare il vulcaniano. Aveva paura di parlargli, di farlo uscire dai suoi pensieri, anche se non avrebbe potuto fare cosa migliore. Spock stava affogando fra i sensi di colpa. Aveva dimenticato ogni usanza vulcaniana e aveva permesso che le sue emozioni prendessero il controllo. Da 37 ore era seduto su quella sedia. Non aveva toccato cibo, acqua, non aveva chiuso occhio. Jim voleva scollarlo da lì, ma Leonard pensava sarebbe stato peggio impedirgli di vederla. Non aveva ancora buttato un occhio sul bambino, neanche per sbaglio. Bones gli aveva detto di sedersi e lasciargli fare il suo lavoro, e così aveva fatto… per quelle che ora erano diventate 39 ore consecutive. Non aveva pianto, ma le mani gli tremavano. Il suo sguardo poteva sembrare perso, ma così non era. Aveva paura, ma faticava a riconoscerlo. Avrebbe potuto cercare un contatto mentale per capire se c’erano speranze di guarigione o no, ma era troppo spaventato dalla possibilità che il dottore fosse arrivato troppo tardi, e che il suo cervello fosse già morto. Sarek aveva condiviso con lui ciò che aveva provato nel momento della morte della moglie. Sapeva cosa avrebbe dovuto sentire nel momento in cui la mente di Nyota si fosse spenta, ma non riusciva comunque a darsi una sicurezza logica. Ricordava il loro incontro, il primo contatto, poi i baci, le litigate, i suoi scherzi, l’incontro con Amanda, le serate nascosti in un parco fuori dal campus, l’Enterprise, le loro pause e altre situazioni che avevano passato. L’incontro con Amanda era in lui l’immagine più impressa, molto più della loro prima fusione mentale. Quello sguardo che Nyota avrebbe poi definito “complice”, Le sue domande fuori da ogni circostanza, il sorriso che non aveva trattenuto dopo avergli sussurrato la sua approvazione. Riconosceva molto di sua madre nella sua compagna, e ora le aveva perse entrambe. Continuò a scavare nella sua mente. Passava da sua madre a Nyota senza un senso logico. Pensava a casa sua, alla vita a cui era abituato, e subito si riportava alle lunghe giornate su vulcano. Il dolore lo stava consumando: la razionalità stava scomparendo dalla sua mente. Iniziò a scambiare il volto di sua madre con quello della moglie. Vide Nyota strappare un bacio a Sarek e, con un sorriso a trenta due denti, prendere l’immagine di Spock da bambino in braccio per allattarlo. Poi, concentrandosi sulla sua immagine da bambino, si ritrovò a pensare a suo figlio. Aveva più volte pensato a ciò che il piccolo avrebbe dovuto provare, ma ora gli sembrava tutto troppo pesante per quella creatura. Si ricordò di come suo padre fosse distaccato, dei pomeriggi passati a zittire ogni emozione negativa o positiva che fosse, di come si sentisse solo, unico, diverso. Si rese conto di non sapere neanche il sesso del bambino. Di non aver visto i suoi occhi, la forma delle sue orecchie, la carnagione della sua pelle. Poi pensò di aver fatto uno scambio terribile. La vita di sua moglie per quella di un bambino che neanche riusciva a riconoscere come figlio. Tutto ciò che lo faceva stare bene per una creatura che sarebbe stata peggio. La loro felicità per la tristezza di un terzo. Si vergognò subito. Cercò di cancellare il pensiero dalla mente, ma ormai si stava già chiedendo se suo padre avesse mai pensato questo di lui. Cercò di capire se fosse mai stato un peso per la sua famiglia ed iniziò a pensare di essere stato la rovina di suo padre. Pensò a come sarebbe stata la vita di Nyota se non fosse mai nato. La immaginò sdraiata fra le braccia di un uomo in grado di dimostrarle il suo amore. La immaginò fra i suoi figli mentre giocava e li coccolava. La immaginò più in carne, con delle ruche intorno alla bocca per il suo sorridere in ogni momento, come sua madre. Poi la sua mente degenerò. Fra sensi di colpa, ricordi sbagliati e rimorsi ne perse il completo controllo. Con una mano stringeva con grande forza la sedia, l’altra, appoggiata sulla gamba, tremava. Gli occhi erano verdi ed umidi, le labbra erano strette fra i denti. Tutto il suo corpo era in tensione, e a quel punto Jim non ci vide più. Erano passate 42 ore da quando si era seduto su quella sedia. Quasi due giorni completamente passati ad esplorare la sua mente. Non gli interessava più se quello che stava facendo era meditazione o un qualche rituale vulcaniano per parlare con le persone incoscienti. Entrò nell’infermeria e, senza occuparsi di svegliare Leonard, si fiondò dal comandante. 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3682065