La via

di Vesnyaa
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La prima cosa che guardavo e che tutt’ora guardo quando esco di casa è il cielo: non importa di che colore sia, quante nuvole ci sono a ricoprirlo o quante stelle più o meno morte sono comodamente adagiate sul quel manto dai vari colori. Per me guardare il cielo era liberatorio, lo guardavo in ogni circostanza e con qualsiasi stato d’animo pervadesse il mio spirito; nei giorni in cui andavo a scuola alzavo lo sguardo al cielo e davo un gran sospiro di pena, non so se il cielo rendesse tutto più triste o semplicemente più deprimente, fatto sta che prima di affrontare ogni situazione o persona, io lo guardavo e in un certo senso mi sentivo subito meglio, sollevata per usare un termine esatto.

Crescendo ho imparato che guardarlo non faceva che rafforzare una mia idea, una mia ossessione, ovvero che non potevo essere libera come avrei voluto, e che avrei dovuto lottare per affrontare ogni circostanza della vita mi si presentasse.
Non sono mai stata la classica ragazza, con sogni e desideri normali, se penso alla mia vita tutto ciò che mi viene in mente è sofferenza e disperazione, e come il cielo, ogni tanto un raggio di gioia entrava nel mio mondo, fatto di colori freddi e opachi, mai brillanti. E crescendo ho smesso di guardare il cielo, e mi sono soffermata sulla vita reale, su ciò che mi circondava. L’ultima volta che ho visto il cielo è stata una sera di Novembre, in una via poco illuminata e ricoperta dal bagnato della pioggia, che lentamente cadeva, senza fermarsi mai.

Ero in compagnia di mia sorella, forse qualche altra ragazza e una signora. Mi ero iscritta ad un corso di ballo e anche aerobica, e mentre loro parlavano del più e del meno durante la camminata, io guardavo il cielo, con la sensazione che da lì a poco, e certo non sapevo quanto poco fosse, sarebbe tutto cambiato; tutta la mia poca spensieratezza sarebbe svanita nel nulla, distrutta da qualcosa che era troppo grande e difficile per me affrontare, comprendere e sopportare.





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