la signora di bri.
Quando non sarai più parte di me
ritaglierò dal tuo ricordo tante piccole stelle allora il cielo sarà
così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte.
~ Romeo e Giulietta
1823
Quella fetta d'Inghilterra era come una fresca brezza in una giornata
afosa.
Gli sterminati campi, infarciti di bionde spighe mature,
rispecchiavano abbondanza e prosperità, un'apparenza in parte vera.
Il centro di Brighton, moderno per l'epoca, ospitava edifici di
addirittura quattro piani con forti fondamenta e ampie finestre,
attraverso le quali il profumo pungente della brezza marina pervadeva
strade e abitazioni.
Nel corso degli anni le strutture si erano evolute, come anche il
savoir-faire degli uomini inglesi.
La città, fondata sulla sapiente attività della pesca, era divenuta
un centro d’affari ricercato e per il clima mite del luogo che
invogliava i turisti a rifugiarvisi ogni qualvolta ne avessero avuto
l'occasione.
Attorno a quell'anno edifici audaci come il Bedford Hotel iniziavano
a vedere la luce mentre altri, come le obsolete e crepitanti
abitazioni frutto del sudore di antichi e saggi fondatori,
precipitavano nel buio.
La striscia di sabbia che proteggeva la città, simile ad una
inefficace muraglia, regrediva di anno in anno divorata dalla
costante fame del mare che, con inesorabile lentezza, erodeva la
terra circostante. Dalla costa della baia si ergeva un ponte
metallico che cominciava a somigliare sempre più ad un grosso
ammasso di ferraglia arrugginita e abbandonata in mezzo al mare per
pigrizia.
Superato l'energico centro cittadino, seguendo il tortuoso percorso
di una ristretta strada sterrata, ci si ritrovava immersi nell'area
più rurale e pacifica della regione inglese: una zona ricca, non
molto distante dalla frastornante Brighton, e puntualmente esclusa
dagli interessi degli indaffarati turisti o, più semplicemente, dal
chiacchiericcio borghese del centro.
Si trattava di un'area piuttosto estesa che ospitava antiche
costruzioni che, per puro miracolo, sembravano resistere alla
crudeltà del tempo; l’orizzonte era disseminato dalle decadenti
abitazioni degli instancabili contadini, adornate da alcune isolate
regge ed edifici trascurati per cui bisognava saldare una retta
tutt'altro che alta.
Quel giorno, una nevicata tardiva aveva ammantato di bianco i tetti
di tutta la città, che parevano dissolversi nel cielo color tapioca.
Il gelo pungente dell'inverno aleggiava nell'aria. I piedi
affondavano nella fanghiglia del cortile e Margaret, poco più che
dodicenne, nonostante la segatura sparsa sui ciottoli a formare un
sentiero improvvisato, poteva sentire l'umidità gelida infiltrarsi
nelle scarpe sporche di fango e l'orlo inzuppato delle vesti
schioccare con forza contro le caviglie umidicce. Tutta tremante, si
stringeva nella fine mantellina che portava indosso, avvolta
frettolosamente sulle spalle affusolate.
“Che freddo!” disse in tono allegro, mentre rincasava. Circondata
dalla visuale sul mare cristallino, una casupola dall’aria
malaticcia, posizionata nel bel mezzo di un rigoglioso campo, si
ergeva sopra un modesto colle con alcuni sporadici arbusti.
Al suo interno aleggiava come di consueto un retrogusto marino,
salmastro, che impregnava le tende, le lenzuola e persino i mobili.
L’aroma salino e quello erboso, quasi selvaggio, della radura
circostante che cercava di conquistare l'abitazione, si combattevano
costantemente in una battaglia senza apparente fine.
Sembrava di alloggiare su di una sporgenza divisa tra terra e mare,
unendo i loro aromi e creando un piacevole contrasto che a volte
faceva girare la testa.
Dall'esterno, il malinconico grigio torbido delle pareti attirava
sempre l’attenzione di Margaret, specialmente negli angoli in cui
il colore si era eroso, staccandosi e sbriciolandosi a terra,
denudando così l'edificio.
Nascosti in un angolo sul retro, giacevano ancora i due piccoli
cumuli scomposti di tegole che, qualche mese prima, erano
precipitate, schiantandosi al suolo in decine di cocci.
Il muschio rinsecchito adornava il tetto come una folta chioma,
facendo assomigliare le tegole rimanenti a vecchi volti ombrosi
puniti dagli anni.
Il comignolo da cui fuoriusciva il fumo del camino si ergeva
titubante al centro del tetto.
Nel corso degli anni alcune pietre si erano consumate fino a
staccarsi del tutto e rotolare giù, verso l'orlo della rigida
copertura, atterrando con un sonoro botto davanti alla porta
scricchiolante dell’ingresso. Quest’ultima, del resto, era stata
costruita tempo addietro, con legno di scarsa qualità che con il
passare degli anni aveva finito per sfilacciarsi, minacciando
chiunque lo toccasse con le sue legnose spine acuminate.
“Sono a casa!” Nel modesto soggiorno adibito a sala da pranzo, lo
scuro tavolo in legno screziato aveva ospitato così tanti pasti da
avere impregnate nel legno innumerevoli macchie appiccicose dalle più
disparate tonalità che, nonostante i tentativi di rimozione, non
avevano mai accennato ad andarsene. Lì, Lilith, intenta a preparare
la cena, aveva guance e naso arrossati per via del freddo. Il rossore
metteva in risalto i suoi occhi castani, rendendoli ancora più
profondi del solito. Aveva l'aria dolce e un po' sbigottita. E le
mani sporche di farina.
Lilith si occupava di Elizabeth dal giorno in cui aveva ricevuto il
dono della memoria, e se fosse stato solo per il Signor Durk sapeva
che quella bambina che era lei non sarebbe sopravvissuta una sola
settimana. Il suo viso dolce ricordava a Lilith quello di sua sorella
minore, Catherine, che sperava avrebbe rivisto un giorno, magari non
troppo lontano. La separazione era stata dura ma il padre, a cui
piaceva intrattenersi con donne di ogni rango e bivaccare al bancone
delle osterie, era stato categorico: una delle figlie doveva
allontanarsi, non poteva certo mantenerle tutte. Così lei aveva
deciso di sacrificarsi, tutto pur di non mettere in pericolo le
sorelle.
Come se le avesse appena letto nel pensiero, lo sguardo di Lilith si
fermò sulla cesta in vimini che Margaret stringeva tra le braccia.
Le fece cenno con la testa. “Poggialo lì” disse, indicando il
camino tempestato dai vasi di Margaret e un paio di rudimentali
cucchiai spezzati nella foga di preparare un impasto più compatto
del solito.
Accanto al focolare, massicci pentoloni di rame sostavano pazienti
sopra una traballante sedia di legno usurato. I mobili della cucina
erano di seconda mano e le assi di legno, incastonate tra loro nel
mobile che supportava stancamente il lavandino logoro, si erano a
poco a poco sfondate con il tempo, rientrando e incurvandosi sotto il
loro peso. Con il passare degli anni le ragazze avevano edulcorato
quell’ambiente, aggiungendo una presina con l'immagine di un campo
di lavanda fatta a maglia da Caroline, un quadretto dipinto con
colori tenui e smorti da Lilith, qualche vasetto di terracotta su cui
vi erano dipinti dei girasoli trovati da Margaret in un vecchia
cassetta di legno, ed un infantile disegno di Elizabeth realizzato
con gli unici pastelli viola e neri che possedeva.
Al lato opposto della cucina, si intravedeva la stanzetta di Caroline
ed Elizabeth. Era piuttosto ristretto come ambiente ma per due
bambine rientrava ancora nella sufficienza.
La loro cameretta di recente aveva subìto delle modifiche e da
ambiente distaccato e privo di calore umano aveva tradizionalmente
attraversato la fase che portava una stanza asettica a diventare
calda e famigliare, quel passaggio silenzioso che trasforma gli
ambienti e le persone al loro interno. Eppure, se qualcun altro si
fosse aggiunto al rumoroso gruppetto di ragazzi e bambini che in
quegli anni abitavano la casa, l'ambiente si sarebbe di certo
trasformato in un qualcosa di asfissiante.
Percorrendo le scale, Margaret raggiunse il piano superiore, quello
delle camere da letto. La prima, la stanza più grande, apparteneva
al Signor Durk, ed era da lì che proveniva il solito lezzo di
calzini puzzolenti e sudore seccato dall'aria.
Accanto, c'era la stanza di Lilith e Margaret, dalle dimensioni
piuttosto ridotte, completa di un'ampia finestra sotto la quale era
stato disposto orizzontalmente un baule tarlato. Margaret era solita
sedercisi sopra e restava ad ammirare abbagliata le suggestive
visioni di un acqua marina non troppo lontana.
Una lampada di ottone mezza rotta stava ancora nella nicchia
annerita, in una delle pareti, e sull'altra uno stretto scaffale era
macchiato di tracce di cera.
D'un tratto Margaret diresse lo sguardo su una serie di impronte,
alcune di scarpe, alcune di calze. Si fermò a studiare le impronte
sulla polvere che copriva il pavimento. "Caroline!" pensò,
e giunta nella camera che divideva con la compagna, la trovò seduta
alla finestra, lo sguardo perso in lontananza.
Caroline era particolarmente bella, aveva un viso grazioso e due
occhi penetranti color del cielo. Quel giorno indossava un'ampia
gonna marrone, quella che le aveva regalato Lilith il giorno in cui
arrivò tra quelle quattro spoglie e rigide mura. Pareva abituata a
camminare scalza, e le sue impronte erano presenti ovunque nella
casa.
"Così ti prenderai un malanno!" disse Margaret,
preoccupata. Non potevano permettersi di ammalarsi, altrimenti il
Signor Durk le avrebbe sbattute fuori.
"Io non mi ammalo mai" Aveva compiuto da poco dieci anni
quando un giorno Caroline, con sua sorella Elizabeth ancora in fasce,
aveva bussato al portone, giù in cortile. La bambina, stremata e
affamata, le aveva rivelato di essere fuggita di casa dopo la morte
della madre. Non aveva voluto assistere ai luridi giochi di potere
che si erano innescati in famiglia dopo la scomparsa della donna, il
pensiero infido del voler lucrare su un qualcosa di così indefinito
come la morte, così era scappata.
Caroline era una ragazza di poche parole a cui piaceva rifugiarsi in
camera da letto e sostare lì per ore, in un silenzio quasi sacrale.
Margaret da questo punto di vista, non le assomigliava affatto,
girava come una trottola canticchiando instancabilmente, come pervasa
da una costante allegria molte volte immotivata. Era una bambina
felice per natura, la maggior parte del tempo lo trascorreva evitando
di pensare a quello che aveva affrontato negli ultimi anni, il
percorso che l'aveva portata lì, assieme a quelli che ora
considerava suoi fratelli. Era dotata di quel tipo di personalità
che nei momenti di tensione, creati sopratutto da Durk, riportava la
quiete con una battuta sagace o un morbido e caldo sorriso.
Qualche giorno dopo il suo arrivo, ricordava ancora come, a causa di
una lite sorta sul riuscire a scrostare nel migliore dei modi la più
larga delle padelle di rame, avesse ricevuto un sonoro schiaffo a
mano aperta da un Durk più alterato del solito.
La faccenda era terminata con lei che, ritrovatasi in ginocchio sul
pavimento usurato, si era rialzata ordinatamente e avvicinatasi di
soppiatto a Durk, gli aveva scagliato un calcio con tutta la forza
che possedeva. Dopo di chè aveva preso a correre, fuori dalla porta,
poi in mezzo ai campi rincorsa da un Durk quasi del tutto ripiegato
su se stesso. Anche quella volta, Margaret era stata in città per
qualche ora, aveva girovagato come un randagio poi, con il sonno che
incombeva minaccioso, si era diretta a casa dove, aiutata da Lilith,
si era coricata a letto come un sasso si corica sul letto di un lago.
"Tieni, copriti almeno le spalle" fece Margaret, cedendole
lo scialle che portava sulle spalle affusolate. Il ricordo degli
ultimi avvenimenti bruciava ancora in Margaret, come un ferita
sanguinolenta su cui si getta sale e allora riprende a dolere,
infuocata come i tizzi dei carboni ardenti. E rimirando, con lo
sguardo assorto, la dolce e piccola Caroline, i suoi boccoli biondi e
il suo naso dritto, Margaret si rendeva conto di quanto il tempo
volasse. Persino quella neonata che era la piccola Elizabeth era
cresciuta, e sembrava che fosse successo tutto così in fretta.
"A breve sarà pronta la cena, vedi di non farti aspettare,
intesi?"
Improvvisamente, un tonfo familiare ridestò Margaret dal torpore dei
primi freddi. Il corridoio era scuro, illuminato soltanto da una luce
fioca che saliva dalle scale. Quando le raggiunse, udì un altro
tonfo provenire da sotto, poi un soffio di aria fredda.
"C'è qualcuno alla porta" La voce di Lilith risuonò in un
eco limpido e forte, su per le scale. “Vado io” disse Margaret ,
sistemandosi il corpetto, lanciò un'ultima occhiata verso Caroline e
si diresse giù in giardino. “Chi è?” Margaret si lanciò a
capofitto, giù lungo la scricchiolante rampa di all'incirca nove
scalini, così velocemente da rischiare di inciampare sull’unico
scalino che, un anno prima aveva ceduto. Prima di ripararlo Durk
aveva iniziato a sbattere martello e chiodi sul pavimento, infuriato,
inveendo contro l'industria del legno che si divertiva a truffare gli
onesti compratori sostituendolo con prodotti sempre più scadenti.
Si sentiva in diritto di criticare le industrie, non che le avesse
acquistate lui quelle assi, perché una decina di anni prima era
stato assunto come operaio nella nuova falegnameria salvo poi essere
stato liquidato sgarbatamente dal titolare in seguito ad un’azzuffata
che era costata un naso rotto allo sfidante.
Attraversando a grandi falcate il soggiorno, arredato dai mobili
recuperati dal Signor Durk durante le sue esplorazioni clandestine in
qualche mobilificio abbandonato o in qualche sperduta casa di
campagna, Margaret raggiunse la porta sul retro. Improvvisamente, un
rumore sordo, proveniente dalla cantina adiacente il sotto scala, la
fece trasalire. Si voltò, cauta e assorbì un odore aspro e
pungente, un'essenza familiare. “Hayden?" Margaret infilò le
mani nelle maniche del mantello, mentre un ricciolo corposo le
ricadeva dolcemente sul naso alla parigina. “Sei tu, Hayden?”
aggiunse pigramente, allungando il palmo della mano destra in segno
di pace.
Margaret non si era ancora accorta della figura incappucciata che,
nascosta dietro l’alta credenza, stava saggiando con malizia la sua
silhouette da donna. Stretta tra le spalle spigolose e la morsa del
freddo pungente di Gennaio, Margaret vestiva di un abito semplice, ma
soprattutto umile, come lo era anche lei del resto. Un’ampia gonna
sbiadita e rattoppata metteva in risalto le curve acerbe del suo
corpicino esile, l’ancora poco procace seno che, sotto l’esile
stoffa logora, si muoveva libero dalla costrizione del reggiseno che,
puntualmente, Margaret toglieva la sera prima di andare a letto per
poi dimenticare di indossarlo l’indomani.
Hayden, sedici anni e un futuro da vendere, la guardava, ammaliato
dalla sua beltà celestiale, i capelli fulvi color delle albicocche
mature, il profumo della sua carne tenera, l’essenza del suo
sguardo caldo come miele.
Mark, qualche anno in meno di Hayden, si vantava di conoscere ogni
centimetro di quella casa come il palmo della propria mano, ed era da
lui che aveva appreso a nascondersi così bene, come una volpe.
Da bambini gironzolavano sempre per i campi attorno all'abitazione
facendo visita ai contadini, rimanevano da loro per ore e ogni volta
che Hayden gli domandava cosa ci trovasse nel passasse il tempo con
quei vecchi signori lui rispondeva: “Hai idea di quante avventure
hanno vissuto? E' affascinante!” A Mark piacevano le storie,
ascoltava tutto e tutti, rimaneva in silenzio anche per ore se era
necessario, non interrompeva mai un racconto e se gli sorgevano
spontanee alcune domande le riservava per dopo, appuntandole
accuratamente in un angolo della sua memoria.
Hayden era simile a lui per certi aspetti, quando voleva rimanere
solo pensando a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Al tramonto
raggiungeva la spiaggia di Brighton e correva da un lato all'altro
fino a quando iniziava a sentire le ginocchia cedere e i polmoni
scoppiargli nelle tempie. Aveva sedici anni e il futuro incombeva
come un'ombra nerastra su un muro bianco: le settimane passavano
monotone e lui raggiungeva il posto di lavoro, giorno dopo giorno,
con l'impressione che quell'ombra si facesse sempre più grande,
pronta ad inghiottirlo. A volte sentiva il bisogno di stare solo
anche se rinunciare alla compagnia di Margaret era un'impresa
piuttosto ardua.
Era certo che l’avrebbe guardata per ore, giorni forse, se non
fosse stato per via del lavoro che lo teneva lontano da casa intere
settimane. E ogni volta che lei era lontana, altri erano i passatempi
per tenersi impegnati dopo una lunga sessione onirica su di lei.
Margaret. La bella e dolce Margaret. La sua Margaret.
Hayden intrufolava piano un mano lungo l’apertura dei pantaloni,
scioglieva il laccio di corda che usava al posto della cintura e
abbassava la cerniera. Infilava le dita lungo il tessuto grezzo delle
mutande di cotone e, con dovuta gentilezza, strusciava i polpastrelli
contro la pelle calda e umida, quella pelle che tante, troppe volte
gli aveva procurato piacere e desiderio immensi. I suoi palmi callosi
navigavano tra le lussuriose cosce e il suo petto scarno e glabro.
Iniziava piano, dolcemente, poi qualcosa nel suo petto lo riportava a
Margaret e la sua mano si muoveva frenetica, come impazzita. Poi,
quando si sentiva svuotato di ogni possibile pensiero o memoria, una
strana e melanconica depressione finiva di prendersi Hayden e quel
poco di lucidità che gli restava. Quando avrebbe voluto che fossero
le mani di Margaret a fargli tutto quello.
Bastava un suo solo sguardo, per mandare in cortocircuito l’intero
sistema nervoso di Hayden. Un solo istante, e quegli occhi verdi e
burrosi lo avrebbero inghiottito, trangugiandosi lui e la sua
tremenda ingordigia.
Anche allora, da dietro la siepe, Hayden la guardava. Sembrava come
immobilizzato, intento a studiare ogni sua movenza, ogni suo gesto
così gentile. L’aveva sempre guardava a quel modo, e non si era
mai chiesto il perché di tutto quel casino che gli fracassava i
timpani e quel turbinio di farfalle, o forse falene, che gli
attanagliavano lo stomaco vuoto.
La prima volta che l’aveva incontrata, Hayden pensò di aver visto
un angelo di fronte a sé: rosso e buono. Un angelo femmina. Eppure
Hayden non era poi così certo che esistessero angeli donna in
Paradiso.
Ora che la guardava meglio, si accorgeva e si stupiva per l’ennesima
volta della pelle candida e profumato di Margaret, che sembrava
indossare un manto fatto di latte e vene. La sua Margaret era sempre
stata una bambina di salute cagionevole, dalla carnagione pallida ma
dai pensieri rivoluzioni. Gli anni avevano forgiato il suo carattere
e all’arrivo dei fatidici undici anni, Margaret si era trasformata,
sbocciando come un fiore in festa per via della Primavera. Le sue
forme, sterili e innocenti, si erano gonfiate e ingrossate, fino a
diventare un bel paio di cosce sode e fianchi larghi e duri. “Fianchi
larghi, da donna. Fianchi da madre.” Aveva detto una volta la
moglie del farmacista. I suoi capelli, color caramello, rilucevano
degli sporadici raggi di sole nascosti negli anfratti della città.
Il vento sembrava danzare, giocoso, con quella chioma animalina.
Anche quel giorno, Margaret era bella. Aveva gli occhi caldi, come
miele, e la bocca corrucciata in una smorfia bambinesca. Le guance,
piene malgrado la scarsa alimentazione, tradivano una parlantina
loquace e scaltra.
Hayden non sopportava il pensiero che ogni volta che si trovava fuori
casa Durk avrebbe potuto mettere le mani addosso a lei, o alle altre
ragazze. Portava ancora il segno violaceo di un livido piuttosto
ampio sul fianco sinistro, l'ultima azzuffata con Durk aveva prodotto
risultati orribili e se lo avesse beccato lì, a bighellonare
piuttosto che lavorare, le conseguenze sarebbero state di gran lunga
peggiori. Una volta, aveva perso il controllo dopo aver visto
Margaret in un angolo della cucina che, rannicchiata su se stessa,
premeva con forza la guancia sinistra, dipinta di un rosso lancinante
che somigliava a lava. Seduto sulla poltrona sfondata del soggiorno
Durk stringeva nel palmo una bottiglia di vetro del suo whisky
preferito, di un color cuoio intenso, lo sorseggiava con furia, la
bocca stretta e gli occhi macchiati dalle vene rossastre ed evidenti.
Il ragazzo era corso a grandi passi da Margaret, stringendole la
spalla e domandandole in modo concitato cosa fosse successo prima del
suo arrivo. Lei aveva alzato lo sguardo pregno di disprezzo e aveva
urlato: "Quel porco ubriacone mi ha messo le mani addosso perché
pensava avessi buttato il suo alcool marcio!"
Durk non si era mosso e di un millimetro, continuando a sorseggiare
il forte liquore avvertendo la pungente stretta alla gola ogni volta
che deglutiva.
Hayden si era alzato in direzione del salotto, si era frapposto fra
l'uomo e il muro che quest'ultimo stava fissando e si mise a
sbraitare: "Cosa lei ha fatto!?"
Mentre pronunciava quelle parole iniziò a toccare Durk, dandogli
delle leggere spinte sul braccio, quello occupato a sorreggere il
whisky.
L'uomo, dopo aver bevuto più del solito, somigliava ad un essere
bizzarro, una creatura dalle fattezze innaturali che al secondo
bicchiere già farfugliava di paesi che non esistevano sulle cartine
geografiche e di persone che esistevano solo nella sua fantasia.
Con la sua camicia color nocciola tartassata di fori, Durk si era
alzato di scatto, barcollando leggermente, con lo sguardo fisso, gli
occhi vacui e incoscienti.
Non disse una parola ma scagliò la bottiglia mezza vuota sul volto
del giovane che d'istinto si spostò di lato evitando per una
frazione di secondo i vetri della bottiglia.
Grazie ai riflessi pronti e decisamente più reattivi di quelli
dell'uomo, Hayden si ricompose subito per poi scagliarsi con violenza
addosso a Durk che, ancora confuso dal rumore dei vetri rotti sparsi
sul pavimento, non si era accorto di come il giovane scapestrato si
fosse scaraventato su di lui colpendolo sull’addome, sempre più
forte.
Durk, malgrado la testa gli girasse vorticosamente e gli arti
reagissero in ritardo, rispose a quell'assalto colpendolo di rimando
sulla schiena e sul fianco. L’azzuffata continuò fino a quando
Lilith irruppe nella stanza con Elizabeth per mano. Corse dai due e
afferrò per le spalle Hayden supplicandolo di fermarsi. Dal canto
suo il giovane, stremato, non voleva far assistere alla piccola
Elizabeth tutta quella violenza, così decise di mettere fine
all’ennesima baruffa. L'uomo, d'altronde, era già stato ripagato
per quello che aveva fatto: Durk giaceva a terra, svenuto e con il
viso piegato, la bocca socchiusa e un taglio sullo zigomo destro. Il
suo grasso corpo ne era risultato martoriato e i segni sarebbero
comparsi solo qualche giorno dopo, lo stesso valeva per Hayden che si
trascinò fino alla porta principale per poi uscire e dirigersi
chissà dove. Avrebbe voluto proteggerle da tutto quello ma ancora
una volta era arrivato tardi e con il corpo pervaso dal dolore non
era riuscito a perdonarsi.
Sommerso da quella ingente quantità di pensieri vorticanti, Hayden
si sporse lentamente da dietro l'odoroso legno della credenza e,
senza rendersene conto, le sue gambe muscolose e agili lo avevano
portato al capezzale della sua dolce musa. La volle cogliere di
sorpresa, afferrandola da dietro, stringendola per i fianchi e
costringendola tra le sue braccia, forti a forza di alzare carbone
nella miniera. La prese con facilità e Margaret sembrò in un primo
momento lasciarsi stropicciare da quel paio di mani callose e così
familiari.
“Hayden!” Il sussulto che scosse il corpo di Margaret, mando su
di giri il giovane che, distrattamente, la afferrò per il bavero del
colletto bianco. Se lo rigirava tra le dita, sfiorando appena con
l’avambraccio il tessuto liscio e scuro dell’abito di Margaret.
Con una gamba, spingeva verso il suo fondo schiena, imprimendo la
durezza del suo corpo rigido su quello di lei che, sgomenta, si
agitava e si contorceva come una biscia.
“Beh, che c’è? Non si usa più neanche salutare?!” Hayden la
costrinse a voltarsi, mentre con le braccia si stringeva su di lei,
stritolandola per sentirla più vicina, per sentire l’odore
fruttato dei suoi capelli fondersi con quello speziato e pungente
dell’aria invernale. Era stata fuori, lo sapeva.
“È questo il modo di salutare una Signora?” Lentamente, Hayden
scoprì il volto che teneva nascosto nella sciarpa e le sorrise con
gratitudine. Alzò gli occhi al cielo, oltre la massiccia porta e i
suoi cardini arruggini, sbuffando. Un alito di vapore s'innalzò
nell'aria fredda di Novembre.
La giovane gli si accoccolò accanto, investendo il giovane
dell'odore acre di taverna e neve. Quando gli fu vicina, Margaret
notò con stupore che Hayden stava crescendo davvero, non era molto
più grande di lui, con quel suo viso affusolato, il naso all'insù e
la bocca ben fatta.
La ragazza battè il tacco dello stivale sporco di terra e avvicinò
talmente il viso a quello di Hayden che riuscì a distinguere il
colore dei suoi occhi, verdi, e le radici dei suoi capelli, lunghi e
del colore della corteccia degli alberi maturati al sole.
“Piuttosto, non dovresti essere a lavorare?” mormorò Margaret.
Le sue labbra carnose e rosate si distesero e si arricciarono su loro
stesse, scoprendo una dozzina di denti bianchi e lucenti. Così
splendenti che Hayden avrebbe potuto intravedere il suo riflesso su
quella superficie liscia e cangiante.
“E da quando in qua, tu saresti diventata una Signora?” Hayden le
strinse i polsi, alzandoglieli all’altezza delle orecchie. La
spinse contro il muro adiacente la porta d’ingresso. Per via degli
spifferi di aria gelida, i loro sbuffi vaporosi si mescolarono
nell’aria, in una nuvoletta di condensa biancastra.
Hayden le rubò un bacio a fior di labbra, strappandole una smorfia
di dissenso seguita da un lungo gemito sommesso. Le mordicchiò il
labbro inferiore, corposo e screpolato, chiedendosi perché le labbra
di una donna, le labbra di Margaret, fossero così dannatamente
morbide e succulente. Simili a due enormi pesche dorate e mature.
Mentre la baciava, lui la guardava teneramente, poteva sentire la sua
pelle, ispida e bruciata dal sole, infrangersi contro quella candida
e liscia di Margaret, solleticato da un paio di ciuffi sbarazzini che
erano scivolati fuori dalla cuffietta bianca in cui teneva racchiusi
i lunghi capelli.
“Hayden!” Uno sbuffo accennato riportò Hayden alla realtà. “Se
qualcuno ci vedesse…”
Il ragazzo, alto e di bell'aspetto, la teneva ancora stretta stretta
a sé, come si tiene tra le mani un passerotto gracile, che potrebbe
rompersi o volare via da un momento all’altro. “Vieni, devo
mostrarti una cosa...” Hayden afferrò Margaret per la mano, in
procinto di trascinarsela dietro per tutta la città, ma la voce
illibata e soave di Margaret gli pervase la mente. “Sai che non è
ammesso uscire di casa dopo il coprifuoco!” I suoi occhi si
riversarono in quelli di lei, minuta come un topolino. “Se il
Signor Durk lo venisse a sapere...”
“Non lo verrà mai a sapere.” Il tono canzonante di Hayden sembrò
più un modo per convincersi, piuttosto che una vera affermazione. “E
tu, ora, vieni con me!” Hayden la attirò a sé con un movimento
deciso seppur brusco. La tirava per le mani, euforico per via del
piccolo gesto sconsiderato: se il Signor Durk li avesse scoperti,
sarebbero rimasti senza cibo né acqua per giorni.
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