Demoni e Catene

di jess803
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22



Ci mise più di qualche secondo a riprendere fiato. Era a terra, piegata sulle ginocchia accanto alla bambina ancora incosciente e lo guardava dal basso verso l’alto, ancora incredula per quello che le stava accadendo. Era la stessa persona di allora, eppure era del tutto diversa. Era invecchiato, tremendamente. Dei fili grigi e bianchi brillavano tra i capelli pettinati all’indietro, le rughe si erano approfondite intorno agli occhi e sulla fronte, l’espressione era austera e inamovibile, il viso statico non lasciava trapelare alcuna emozione. I profondi occhi scuri, in cui la donna un tempo aveva visto tormento e sofferenza, ma anche arroganza e caparbietà, erano spenti e bui, come due vetri che chiudono una stanza vuota. Quando poi si mise in piedi, allontanandosi cautamente dalla sua pistola, notò quel marchio a fuoco impresso sul suo volto. La pelle, accartocciata e scura, veniva fuori dal colletto della camicia e si estendeva su quasi tutto l’orecchio destro e parte della guancia; anche la mano destra, che gli stava puntando la pistola contro, era stata inevitabilmente segnata dalle fiamme.
Hadiya scosse il capo cercando di cancellare l’immagine di quelle brutte ustioni dalla sua mente, poi lo sguardo si posò di nuovo sugli occhi freddi e bui dell’altro e sentì le gambe tremare, proprio come quando era ancora una ragazzina ingenua, troppo sprovveduta e irruenta per accorgersi di tutto il marcio che aveva intorno.
Pensò di non farcela a reggere quella situazione, pensò che avrebbe incasinato di nuovo tutto come aveva fatto molto tempo prima, pensò che non era forte abbastanza per respingere quella bufera che la stava spingendo oltre l’orlo del precipizio. Ma poi, tutt’ad un tratto, come mossa da una mano invisibile, si girò verso la parete in fondo, dove un vetro oscurato e riflettente divideva il seminterrato dalla stanzetta dove era stata tenuta prigioniera la piccola Jala.
Guardò con attenzione la sua figura riflessa nello specchio e vide i capelli cortissimi incorniciare a malapena la nuca, la placchetta metallica della Agenzia cadere sulla maglia bianca della divisa, i pantaloni larghi cingerle le cosce muscolose, i segni della stanchezza e delle notti insonni disegnarle delle violacee borse sotto agli occhi. Si passò la mano sul viso, sentendo delle piccole rughette solcarle il volto e il rasato dei capelli solleticarle dolcemente la mano; poi la passò sul petto, infilandola attraverso la scollatura della maglia a pochi millimetri dal cuore, percependo il rilievo indelebile che aveva lasciato una cicatrice. Strinse gli occhi fino a ridurli ad una fessura, stupita da ciò che aveva visto e toccato, come se fosse stata la prima volta che aveva guardato in faccia a sé stessa dopo molti anni.
Fu solo allora che capì: non era più quella ragazzina che piangeva e si disperava, quella a cui batteva forte il cuore e tremavano le gambe, quella che si emozionava per una stretta di mano o per la vista di un panorama notturno, quella che si era arresa senza neanche lottare, indirettamente responsabile della morte di migliaia di persone. Sofyane Bertrand era morta molto tempo prima, il giorno in cui il suo cuore le era stato strappato dal petto, fatto in milioni di pezzettini e poi restituito sanguinante e dolente. Lei era Hadiya De Wit e non esisteva cosa o persona al mondo che fosse in grado di farle perdere il controllo, nemmeno quell’uomo.
Si voltò di nuovo verso il suo interlocutore guardandolo fisso negli occhi, poi piegò leggermente il capo arricciando le labbra. Sorrise.
<< Pensavo fossi morto>> disse compiacente, incrociando le braccia e tenendo le gambe divaricate, ben salde sul pavimento.
<< Potrei dire lo stesso di te>> rispose asettico l’altro.
La donna allargò le braccia facendo qualche passo nella sua direzione, << beh, come puoi ben vedere sono viva e vegeta>>. L’uomo rimase immobile nella sua posizione, senza rispondere.
<< Cosa vogliamo fare ora, prendiamo un tè con dei pasticcini?>> disse l’agente con tono quasi canzonatorio, grattandosi la punta dell’orecchio. Riuscì miracolosamente a riattivare la trasmittente con cui comunicava con la base, sperando che riuscissero a sentirla, a capire che era in pericolo e a mandarle Cox in aiuto, ma l’oggettino sembrava non dare più segni di vita: forse non c’era campo lì sotto.
L’uomo rimase ancora una volta impassibile davanti alle provocazioni di Hadiya, cominciò a camminare a passi lenti verso di lei, facendola arretrare fino a portarla con le spalle al muro; a quel punto, senza scomodarsi troppo, la sollevò da terra prendendola per la maglia e la sbatté forte contro la parete retrostante. Con la mano libera le puntò la pistola alla tempia, poi assottigliò gli occhi, cominciando a guardarla con attenzione.
<< Non pensavo che ti avrei mai rivista, Sofyane>> fece tutt’ad un tratto il tizio con la pistola, che ora sembrava mosso da un pizzico di risentimento, << ero davvero convinto che quella notte di cinque anni fa sarebbe stata l’ultima volta in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Avevi una pallottola conficcata nel cuore, eri priva di coscienza e sanguinante, non c’era nessuno che potesse aiutarti nel raggio di centinaia di metri. Eri certamente morta: non c’erano alternative, non per me>>.
L’uomo si fermò un attimo come a riflettere su ciò che stava per confessare, poi, digrignando i denti e allargando le narici, strinse ancora più forte la presa intorno al collo dell’agente, che emise un gemito soffocato.
<< Ma la sai una cosa?>> riprese con maggiore foga, << nonostante ne fossi pienamente convinto, nei gelidi e vuoti mesi che ho dovuto trascorrere in clandestinità, ferito, incapace di muovermi e privo di qualunque mezzo di sostentamento, nella mia mente continuavo a pensare in quali e quanti assurdi modi avresti potuto salvarti. Ho sperato con tutte le mie forze che quella notte non te ne fossi andata, che in qualche modo fosse accaduto un miracolo che ti avesse salvata dalle fiamme dell’inferno. Sembra una contraddizione vero? Del resto sono stato io a spararti quella notte, ma avevo davvero un buon motivo per sperare lo stesso di non averti uccisa, Sofyane. E sai qual è?>>.
La donna non rispose, fece solo un cenno di diniego col capo, spaventata dall’odio e la rabbia che le stava riversando addosso con il solo sguardo.
<< Perché la sola idea che non avrei potuto guardare la tua espressione mentre il tuo paese si sgretolava e le persone a cui tenevi morivano, mentre i tuoi sogni bruciavano e si disperdevano come cenere nel vento, la sola idea che avrei potuto rifare tutto da capo e riuscire nel mio intento, ma che tu non saresti stata lì per vederlo, che comunque saresti rimasta morta con la consapevolezza che il tuo piccolo e stupido mondo fosse rimasto in piedi, mi faceva venire una rabbia tale che avrei potuto impazzire. Sarei sceso fino agli inferi e ti avrei riportata indietro se solo avessi potuto. Ma no, non potevo farlo, non mi era concesso un tale onore. Ormai te eri andata e dovevo accettarlo. Così ho deciso di agire lo stesso e in qualche modo ho ricostruito il mio impero, in cinque lunghissimi anni, mettendolo di nuovo su, mattoncino dopo mattoncino, lavorando nell’ombra e lontano da occhi indiscreti, mentre il tuo maledetto paese, quella maledetta madrepatria per la cui sicurezza avevi donato la vita, si rimetteva in piedi più forte e dispotica di prima, tessendo la sua tela come un ragno, inglobando tutto e tutti con la sua infinita forza corruttrice >>.
Hadiya serrò forte le mascelle davanti a quelle parole, sentendo una moto di disgusto nascere dal profondo delle viscere. Erano a pochi centimetri di distanza, poteva guardarlo dritto negli occhi, poteva vedere le fossette che si creavano intorno alla bocca quando parlava, sentire il suo respiro posarsi sulle labbra, così come era avvenuto tante volte tanti anni prima, con la sola differenza che tutte quelle cose ora le davano nausea, al punto che avrebbe potuto vomitare da un momento all’altro.
<< Ma ora>> riprese l’uomo col suo tono freddo e impassibile, facendo un sorriso malinconico << ora che ti guardo dopo tutto questo tempo, ora che ti ho davvero davanti a me, viva e vegeta, come avevo sognato per mesi e mesi in quel triste esilio forzato, sai cosa provo?>>.
Ancora una volta la donna rimase in silenzio.
<< Nulla. Pura e semplice indifferenza. Non mi importa più nulla di te, Sofyane>>.
La rimise giù tenendola ancora attaccata al muro con la mano, con l’altra, invece, impugnò la pistola e senza alcun preavviso sparò un colpo in pieno addome alla bambina, ancora priva di sensi e accasciata a terra a poca distanza.
Rumore, eco, silenzio.
Hadiya sentì lo stomaco contorcersi e i polmoni lacerarsi, emanò un sospirò mozzato che si bloccò a metà strada come un pugno. Jala Essid era morta. Il nome della piccola si era aggiunto alla già lunghissima lista di persone che non era riuscita a salvare, di figli, amici, fratelli che si sarebbe portata sulla coscienza per il resto dei suoi giorni.
Ancora confusa e frastornata, si rese conto che l’uomo si era girato di nuovo verso di lei e le stava puntando la pistola alla tempia.
<< Arrenditi ora e ti prometto che la tua sarà una morte rapida e indolore, ragazzina>> bisbigliò con gli occhi socchiusi l’altro.
Lasciò cadere le braccia lungo il corpo: non le sarebbe importato nulla se fosse morta lì, in quel preciso istante, sotto le sue mani. Poi, d’improvviso, come il flashback di un film, le passarono davanti agli occhi i volti dei suoi genitori, quelli sorridenti di Mark e Natasha, l’espressione severa del capitano Huber e di Misha, quella imbarazzata di Cox, la mano tesa e sempre pronta ad aiutarla di Eeki. E le parve di rivedere anche il viso di tutte le persone che erano morte in quegli anni bui, le facce di migliaia e migliaia di sconosciuti che non aveva mai visto, ma che ormai era convinta di conoscere una per una. Guardò di nuovo negli occhi quell’uomo dall’espressione indifferente, quel mostro che non si era fatto scrupoli ad uccidere a sangue freddo una ragazzina e si chiese com’era stato possibile amarlo così disperatamente, al punto da sentire il fiato mancare quando lo vedeva ridere, il cuore battere anche quando la sfiorava con un dito, lo stomaco attorcigliarsi quando si accorgeva che la stava guardando da lontano, si chiese come avesse potuto farsi crollare il mondo addosso quando aveva scoperto chi era davvero, come avesse potuto permettergli di renderla a sua volta quel mostro in cui si era trasformata dopo la sua finta morte, come avesse potuto permettergli di portarsi il suo cuore e la sua anima con sé, nella tomba.
<< Addio Sofyane>> fece a quel punto l’altro, interrompendo il suo flusso di pensieri, mentre si preparava a premere il grilletto.
Ma lei non poteva arrendersi. Non ora, non così. Doveva lottare e liberarsi, lo doveva a tutte le persone che le volevano bene, a tutti quelli che sarebbe ancora morti se non avesse fermato quel pazzo. Così come aveva già fatto in precedenza, allora, Hadiya raccolse tutta la forza che le era rimasta in corpo e si liberò dalla stretta dell’uomo dandogli una forte testata in fronte, facendogli perdere per un attimo i sensi, poi disse con aria di sfida: << Preferisco morire tra le peggiori sofferenze del mondo piuttosto che arrendermi>>.
Gli tirò un pugno sullo zigomo, poi gli diede un calcio negli stinchi e ancora un altro nell’addome. Allontanò la sua pistola scaraventandola dall’altra parte del seminterrato con un calcio. L’uomo cercò di rispondere utilizzando la sua tecnica precisa e raffinata, ma Hadiya non gliene diede modo e prese a picchiarlo ancora più forte, ancora più duramente. Riconosceva di non essere più fine ed elegante come lo era un tempo, quando i suoi incontri assomigliavano più ad un passo a due che a una vera battaglia, ma tutti quegli anni di terribili allenamenti e missioni estreme sotto copertura, l’avevano resa molto più efficiente.
<< Devo dire che il suo stile è molto peggiorato Bertrand>> bofonchiò l’uomo sputando sangue, dopo essersi divincolato dalla sua stretta ed essere rimasto in ginocchio a poca distanza da lei <>. La caricò afferrandola per la gambe, poi la fece cadere a terra e sbattere la testa contro il pavimento. Hadiya si alzò immediatamente, gli diede un altro calcio facendolo cadere di schiena sul pavimento, poi si mise a cavalcioni su di lui, impedendogli di muoversi.
<< Probabilmente ha ragione, ma sa cosa le dico funzionario Lee?>> domandò la donna con aria di sfida, pulendosi il labbro pieno di sangue con il bordo della maglia, lasciandogli intravedere l’addome e la sua biancheria intima <>. Tirò fuori una piccola semi automatica da una tasca del pantalone e gliela punto contro, caricando il grilletto.
<< Tanto per cominciare, porto sempre con me due pistole>> disse, leccandosi il labbro con soddisfazione << in secondo luogo, per lei non mi chiamo più Sofyane Bertrand, ma Hadiya De Wit>>.
L’uomo accennò un sorriso alzando le mani, poi indicò l’ingresso del seminterrato con le sopracciglia. Hadiya rivolse lo sguardo nella direzione indicata dall’asiatico e vide uno squadrone di uomini, capitanato da Huseynov, correrle incontro, per poi prenderla per le braccia e scaraventarla contro il muro, liberando l’ex-funzionario dalla sua morsa letale.
<< Tutto perfetto, peccato si sia dimenticata che gioca in terreno nemico… signorina De Wit>> le disse ironicamente l’altro ponendo l’accento sul suo nome, mentre si puliva la giacca e il viso con un fazzoletto prestatogli dal rosso.
Hadiya si morse forte il labbro inferiore, fino a farsi uscire il sangue. Aveva perso troppo tempo in chiacchiere, troppo tempo a riflettere e a rimuginare sul suo passato, sui suoi sentimenti; se si fosse mossa prima, se non fosse stata così debole, probabilmente se la sarebbe cavata e sarebbe uscita da quell’edificio indenne insieme alla piccola Jala. Continuava a darsi della stupida per aver aspettato il momento meno adatto per farsi venire una crisi esistenziale, mentre cercava di divincolarsi dalla stretta degli scimmioni di Lee, che le impedivano anche di respirare.
<< Siamo pronti ad andare via signore, basta solo che dia l’ordine>> disse Huseynov al capo, facendo un gesto di riverenza. L’asiatico annuì e gli restituì il fazzoletto ormai sporco di sangue.
<< Cosa ne facciamo di lei, capo? La uccidiamo?>> chiese poi un uomo castano dall’aspetto anonimo, che entrò dall’ingresso principale con molta calma.
<< Passami la tua pistola, Nicholas>> rispose Lee, allungando la mano verso il sottoposto, che gli porse la sua calibro nove come se fosse un gioiello prezioso. L’uomo quindi si piegò sulle gambe, mettendosi di fronte ad Hadiya, tenuta ferma da due uomini con le mani dietro alla schiena, in ginocchio.
La ragazza chiuse forte gli occhi, sicura che sarebbe morta da lì a pochi secondi, cercando di figurarsi una scena felice da imprimere nella mente come ultimo ricordo, magari una giornata trascorsa al parco giochi con i suoi genitori o una delle chiacchierate notturne con Eeki, anche l’immagine di una riunione alla base con Huber e Nikolaidis le sarebbe andata bene; qualunque cosa, ma non il viso dell’uomo che odiava di più al mondo che le puntava contro, soddisfatto, una calibro nove.
<< Io mantengo sempre le mie promesse>> le disse l’ex funzionario a bassa voce.
Un attimo dopo, avvertì un dolore atroce alla tempia e il solletico del sangue che le colava lungo la guancia. Cominciò a vedere la stanza intorno girare vorticosamente, fino a diventare completamente nera e gli occhi di Lee, che la guardavano fisso, farsi sempre più piccoli, fino a scomparire nella totale oscurità.

Quando Cox e la squadra di agenti speciali finalmente riuscirono ad arrivare al seminterrato, i terroristi erano già spariti. Kieren si avvicinò al corpo della bambina, riversa in una pozza di sangue al centro della stanza, e le tastò il polso. Avvertito ancora un flebile battito, la fece portare via dall’ambulanza, che era stata chiamata in precedenza dagli operai, allertati dal rumore dello sparo, insieme alla polizia locale. Pregò con tutto se stesso che la ragazzina, per quanto esangue e priva di conoscenza, potesse in qualche modo salvarsi, uscire da quell’incubo e tornare finalmente a casa ad abbracciare la sua famiglia. Si guardò poi attorno con fare circospetto, cercando di capire dove potesse essere finita la collega. Era spaventato ed inquieto: ad ogni passo che faceva, ispezionando le stanze di quel seminterrato buio e insonorizzato, sentiva sempre di più crescere la paura di trovare qualche residuo biologico che potesse far temere per la vita della donna. Avanzava cauto tra gli androni vuoti, puntando la pistola contro un ipotetico nemico invisibile che ancora si poteva annidare fra quelle quattro mura, coadiuvato e coperto dagli agenti della squadra speciale. Nulla. Oltre al sangue della piccola e qualche altra macchiolina in giro, non trovò nulla: Hadiya era scomparsa e non aveva lasciato alcuna traccia dietro di sé, eccetto i resti di una sedia distrutta e qualche striscia sul pavimento, segni di una possibile colluttazione. Solo dopo aver fatto un altro giro e prestando maggiore attenzione ai dettagli, Cox ritrovò la trasmittente della collega, ormai rotta e calpestata.
<< Nulla da fare capitano>> comunicò una volta risalito in superficie al capitano Huber << nessuna traccia di De Wit. Anche la sua trasmittente è stata abbandonata e distrutta; non abbiamo alcuna pista da seguire>>. Dall’altra parte ci fu solo un mesto ed eloquente silenzio. La sala riunioni era diventata simile ad un cimitero.
<< Cosa faccio ora?>> mormorò quasi sul punto di piangere Cox, che per la rabbia diede un calcio forte ad una lattina, che si andò a conficcare nella portiera di un’auto dell’Agenzia.
Ormai la fabbrica era stata evacuata dalla polizia e dagli agenti dei servizi segreti africani, il cortile era stato invaso dai fuoristrada neri dell’intelligence della confederazione e dagli uomini della scientifica, che, con le loro valigette bianche, erano pronti a passare al setaccio l’edificio.
<< Torna a casa Cox>> sentì la voce del generale Marchand attraverso la trasmittente, << sei troppo sconvolto ora per poter fare qualcosa di utile>>.
<< Non posso andarmene ora, maledizione! Non posso generale!>> gridò ancora una volta, in preda alla disperazione, << organizzate dei posti di blocco, ordinate alle teste di cuoio di sfondare le porte di tutte le case del circondario, chiudete l’aeroporto, la stazione ferroviaria, il molo… fate qualcosa per l’amor di Dio!>>.
<< Certo Cox, certo che lo faremo, cercheremo in ogni fosso, ogni pozzo, ogni maledetto angolo di quella città. Se la ragazza è ancora viva, allora…>> Marchand non ebbe tempo di finire la frase, interrotto dalla voce rabbiosa del suo pupillo.
<< Certo che è viva! E’ viva! Dovete cercare un essere umano dannazione, non un cadavere!>>.
Il capitano Huber prese dalle mani del generale il microfono, poi disse con voce calma e allo stesso tempo autoritaria: << ascoltami bene Cox. So quanto sei sconvolto ora, lo siamo tutti. Ma Hadiya era… è un’agente dell’Agenzia da più di quindici anni, sapeva benissimo a quali rischi andava incontro infilandosi in quel seminterrato da sola, senza copertura, e sapeva benissimo che non avremmo potuto organizzare un’estesa caccia all’uomo così su due piedi, per di più in terra straniera…>>
Il capitano Huber si interruppe per un attimo; sentì la gola bruciare per le parole ciniche e distaccate che erano uscite dalla sua bocca, per aver parlato di colei che considerava una vera e propria figlia come di una qualunque altra persona scomparsa, una delle tante il cui fascicolo arrivava sulla sua scrivania un giorno sì e l’altro no. Era distrutto per quanto era successo; si sentiva impotente ed arrabbiato, colpevole di non aver capito, o meglio, di aver deliberatamente ignorato tutti gli indizi che dimostravano quanto fosse grave la situazione, quanto tutto ciò che stava accadendo negli ultimi mesi in Africa fosse collegato con quella terribile storia di diversi anni prima e quali pesanti implicazioni questo avesse per la sua agente prediletta, la donna che aveva giurato di proteggere con la sua vita. Ma sapeva anche che quello era il suo lavoro: doveva essere razionale e ponderato, non poteva lasciarsi sopraffare dai sentimenti se voleva sperare di salvarla.
Riprese a parlare nel microfono, dopo aver bevuto un sorso d’acqua: << Te lo giuro sul mio onore e sulla promessa che ho fatto venticinque anni fa ai suoi genitori: la cercheremo con tutte le nostre risorse e tutti i nostri mezzi, la cercheremo fino in capo al mondo se dovesse essere necessario e la troveremo, viva e pronta a tornare a casa; ma lo faremo con raziocinio e cognizione di causa. Ora smettila di dare di matto e torna immediatamente alla base con l’agente Nikolaidis. Siete stanchi, avete lavorato troppo e abbiamo bisogno di entrambi al massimo del vostro potenziale per trovare l’agente De Wit>>.
Cox scosse il capo, ancora incerto e deluso per la freddezza mostrata dai suoi colleghi, poi sentì la mano forte di Misha dargli una pacca sulla spalla. Kieren si voltò nella sua direzione e vide per la prima volta gli occhi del greco arrossati, lucidi di pianto, sconvolti. Capì che nessuno più di Huber, Nikolaidis ed Eeki -che si immaginava in profonda pena, rannicchiata e muta, là, nel suo angolino buio della sala riunioni- volesse ritrovare Hadiya e riportarla a casa sana e salva, nemmeno lui. Seguì le istruzioni del capitano, uscì dal cancello principale della fabbrica, entrò nell’auto insieme al collega greco e si diresse verso il porto, pronto a prendere la prima nave diretta alla base sottomarina dell’Agenzia, che si aggirava inquieta tra le acque del Mediterraneo.



*FINE PRIMA PARTE*




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