1.
A prima vista
I personaggi di questa storia non mi
appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Stephenie Meyer.
Viaggio con mia madre verso
l’aeroporto per una destinazione bislacca. È l’unica che posso permettermi,
perciò mi sono riguardata dal fare storie quando mi è stata proposta. Tre mesi lontano
da tutto e da tutti: non chiedo di meglio in questo particolare periodo della
mia vita.
Mia madre ha ritrovato la stabilità,
non solo economica, grazie a Phil, il giocatore di baseball per il quale ha
perso la testa. Per permetterle di seguirlo nelle sue trasferte, ho preso la
decisione di andare a vivere con mio padre Charlie, ispettore capo della
cittadina di Forks. E questo nonostante la mia avversione per il luogo più
piovoso del pianeta.
«Vedrai che sarà un’esperienza
interessante, Bella» cerca di rassicurarmi mia madre mentre mi abbraccia, poco
prima che chiamino il mio volo. «La Transilvania è un bel posto e comunque,
come ti ho detto più volte, non sei obbligata. Puoi sempre rimanere a Phoenix e
partire per Forks una volta finita la scuola».
«Voglio andarci» e in
parte è vero. M’incuriosisce la prospettiva di studiare in Romania, dove terminerò
l’anno scolastico. È una possibilità che la mia scuola dà agli studenti più
meritevoli.
Meno allettante è invece il
seguito. Dopo i tre mesi all’estero tornerò negli Stati Uniti per trasferirmi a
Forks, da Charlie. Tuttavia mi sono ripromessa di farmi coraggio e di non
tornare sui miei passi.
È la prima volta che viaggio da
sola e l’adrenalina ha fatto presto a impossessarsi di me. Il mio posto in
aereo è vicino all’oblò e sono intenta a fantasticare su come sarà osservare il
mondo dalle nuvole, quando mi si avvicina un ragazzo dal fisico asciutto e i capelli
rossicci e spettinati. Dal cenno spazientito che fa con la testa capisco che il
mio bagaglio a mano sta occupando il suo posto, quello alla mia destra, così
sposto lo zaino per permettergli di sedersi. Non mi rivolge la parola per tutto
il viaggio, né mi degna mai di uno sguardo. Anzi, a dirla tutta non mangia o
beve niente e, sospetto, non dorme affatto (a meno che non si sia appisolato
durante il mio sonnellino). Probabilmente ha interesse a rimanere vigile per
proteggere l’anello che porta alla mano sinistra, un anello dorato con al
centro una pietra liscia di colore verde smeraldo. Ha tutta l’aria di essere
molto prezioso, oltre che antico.
Ad ogni modo, sta di fatto che
per tutto il volo si comporta come se non esistessi. Se ne sta rigido su se
stesso, i muscoli del corpo in tensione come se non fosse in grado di
rilassarsi. Un atteggiamento che mi lascerebbe del tutto indifferente, se non
fosse per una cosa che mi ha dato fastidio. Un paio di volte – la prima quando
mi sono alzata per andare alla toilette, la seconda quando mi sono allungata
verso la hostess per prendere il vassoio del pranzo – ho avuto l’impressione
che si scansasse. Non nel modo classico che si usa per permettere a un’altra
persona di spostarsi con maggiore facilità o per aiutare qualcuno ad afferrare
qualcosa, nel momento in cui questi si sporge in direzione di qualcun altro. Lui
l’ha fatto con disgusto, come se avesse trattenuto il respiro per evitare di
sentire l’odore sgradevole che emano. Mi sono annusata la maglietta e la punta
dei capelli più volte, ma non ho notato nessun olezzo sospetto.
Di certo è un sollievo per lui
quando l’aereo atterra, visto il modo in cui se ne scapicolla verso l’uscita.
Poco male, non ci rivedremo mica!
Da Bucarest per arrivare a
Bistrita, la città che mi ospiterà durante la trasferta, devo prendere un
secondo volo. Appena il taxi mi ferma davanti alla scuola, vengo indirizzata
nell’ufficio della preside, la signorina Dumitrescu, una donna di mezza età
smilza e bassina che mi accoglie in maniera cordiale e affabile. «Prima di lei
è arrivato un altro studente americano. Ne stiamo aspettando ancora quattro, giungeranno
in serata» m’informa, mentre mi accompagna ai dormitori dell’ultimo piano, dove
c’è la stanza che occuperò per i prossimi tre mesi. «So che molti di voi
trovino strano il fatto che ospitiamo gli studenti del Progetto di Scambio
all’interno dell’istituto, ma noi qui abbiamo una lunga tradizione in questo
senso e ci piace farvi sentire a casa. Certo, qualora alcuni desiderino
affittare un appartamento, sono liberi di farlo».
«Comprendo bene, signorina
Dumitrescu» mi costringo ad affermare. La verità è che non capisco come si
possa rinunciare alla comodità di abitare nello stesso posto dove si
svolgeranno le lezioni. Ho letto il regolamento e, al di fuori degli orari di
scuola, siamo praticamente liberi di uscire e rientrare quando ci pare.
«Benvenuta al Liceu Mihai
Eminescu, Isabella Swan» mi augura infine, prima di sparire per permettermi di
sistemarmi in camera.
La stanza non è molto grande, a
occhio calcolerei una quindicina di metri quadrati. Ha tutto quello che mi
occorre: un letto, un armadio, una scrivania e una sedia. L’arredamento è
piuttosto spartano, niente tendine alle finestre o tappeto ai piedi del letto,
né fronzoli che pendono qua e là.
Sto mettendo sotto carica lo
smartphone per telefonare a mia madre, quando sento sbattere la porta
dirimpetto alla mia. Socchiudo leggermente l’uscio per dare una sbirciatina e
mi paralizzo nel rivedere il ragazzo dai capelli rossicci, quello poco cordiale
che sedeva vicino a me in aereo.
Lui pare sbiancare alla mia
vista e mi rivolge la stessa espressione che farei io se vedessi un fantasma. Infastidito,
attraversa il corridoio ad ampie falcate e, prima che raggiunga la scalinata,
lo sento mormorare un distinto: «Non ci voleva proprio!».
È un comportamento
inammissibile, senza alcuna giustificazione. Sono così indignata che tento di
seguirlo per chiedergli che problema ha, ma non riesco a incrociarlo in nessuno
dei tre piani inferiori. Pare essersi volatilizzato. Arrivo sfinita al piano
terra e, proprio quando sono davanti all’ufficio di presidenza, sento la
signorina Dumitrescu parlare con qualcuno: «Doveva pensarci prima di arrivare
qui, ora le sarà difficile trovare una casa d’affitto entro domani. Per il
momento le conviene restare da noi e intanto cerchi. Appena avrà trovato, potrà
andarsene».
«Molte grazie lo stesso» dice
il suo interlocutore.
Vedo la maniglia della porta
abbassarsi e faccio per girarmi e tornarmene svelta in camera mia. Va a finire
che inciampo su me stessa e, nel tentativo di rimanere in equilibrio, perdo del
tempo prezioso. Succede così che vedo uscire fuori dall’ufficio il ragazzo
scorbutico. Mi fulmina con uno sguardo assassino e io mi sento raggelare il
sangue nelle vene.
D’istinto, l’occhio mi cade
sulla mano con cui sta chiudendo la porta, attratta dal brillio della pietruzza
verde incastonata in quel suo antico anello. La cosa non gli sfugge e con un
gesto repentino nasconde la mano nella tasca dei pantaloni, come un bambino
sorpreso con le mani nel barattolo della marmellata.
Gira i tacchi e si dilegua.
Io me ne torno in camera,
stanca e delusa che la mia avventura sia iniziata con il piede sbagliato.
NOTE
·
A Bistrita non
figura nessun Liceu Mihai Eminescu. Ci sono delle scuole dedicate al poeta
rumeno qua e là in Romania, tra cui il Mihai Eminescu National College a
Bucarest, ma non a Bistrita. Questo istituto scolastico è una mia invenzione.
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Se siete arrivati
fino alla fine del capitolo, GRAZIE! Se ve la sentite di lasciare un
commentino, una critica, un saluto, DOPPIAMENTE GRAZIE! Posterò il secondo
capitolo sabato 26 agosto.