I'm not a princess

di Beauty
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Capitolo IV
 
Poor, Unfortunate Souls
 
( mattina di lunedì 9 settembre)
 
 
I. [Ariela]
 
Il temporale del giorno prima si era lasciato dietro un'aria fredda e pregna di umidità, ma alle sette e mezza del mattino le nuvole si erano in parte diradate permettendo ai raggi del sole di risplendere debolmente sulla città.
Vedendo che il tempo si era ristabilito, Ariela inaugurò la giornata spalancando le finestre.
Il clima della Danimarca era tutto meno il clima che la maggior parte delle persone avrebbe voluto avere trencentosessantacinque giorni all'anno – di certo se abitavi a Copenhagen non avevi la sensazione di essere su un'isola caraibica –, ma a lei mancava già. Le era sempre piaciuto stare all'aria aperta, anche quando pioveva.
La prima volta che era stata in USA – aveva sedici anni, mamma aveva ricevuto un incarico di collaborazione con la NBC di Miami per tre mesi e ne aveva approfittato per portare in vacanza il marito e le figlie – aveva trascorso l'estate in Florida, sempre in spiaggia, con il sole che scaldava le membra e il mare cristallino. Un giorno era scoppiato un acquazzone all'improvviso, ma mentre le sue sorelle e le altre persone prendevano armi e bagagli e tornavano di corsa alle loro auto e alle camere d'albergo, lei si era fermata a correre e a ballare sotto la pioggia cercando di berne un po'. Suo padre aveva dovuto caricarsela in spalla e portarla via di peso.
Era stata l'ultima vacanza che lei e la sua famiglia avevano fatto. Dopo, papà aveva sempre avuto troppi scrupoli nel portarla all'estero o anche solo a permetterle di lasciare Copenhagen. Sua madre aveva cercato di resistere alle sue proclamazioni riguardanti il tutelare le loro figlie e prendersi cura della piccola, ma poi anche lei aveva convenuto che fosse meglio così.
Ariela aveva sempre avuto un rapporto migliore con sua madre, ma c'era una cosa di lei che non aveva mai tollerato: il suo negare l'evidenza per il timore di ferire qualcuno che amava. Preferiva raccontare bugie su bugie alle sue figlie piuttosto che pronunciare un brutale quel vestito che ti piace tanto ti sta di merda o sì, Adella, anche se non te lo dico penso che studiando Biologia Marina farai la fame o sebbene io faccia finta di nulla, non credo che tu, Ariela, te la sappia cavare da sola, adesso che hai perso l'udito.
Il tutto ovviamente era andato peggiorando dopo che Ariela era diventata sordomuta: se Triton non si faceva problemi a lasciarle intendere che lei, per lui, adesso era una creaturina fragile e bisognosa di essere protetta, Athena ancora millantava idee in cui non credeva secondo cui anche in quelle condizioni Ariela avrebbe potuto fare tutto ciò che facevano le sue sorelle e le altre ragazze.
Il suo comportamento naturalmente contraddiceva le sue parole: Athena, ancora adesso a distanza di otto anni, tendeva a rifiutare incarichi quando si accorgeva che le avrebbero sottratto del tempo per dedicarsi alla sua più piccola, la chiamava almeno dieci volte al giorno per sapere dov'era e come stava – e con le sue sorelle si stufava subito al secondo SMS –, le sue prime parole quando rientrava a casa erano spese per sapere dove fosse Ariela, come stesse Ariela, se Ariela avesse mangiato/bevuto/dormito, se ad Ariela servisse qualcosa quando usciva a fare la spesa...
Fino a un paio d'anni prima pretendeva di accompagnarla in Università prendendo l'autobus con lei.
Ariela era arrivata a chiedersi, al momento della sua fuga verso Everbrooke, se quello che la stava spingendo a fare quel viaggio – di fatto a scappare di casa – fosse veramente la volontà di giustizia, oppure la smania di far vedere a mamma e papà che anche con un apparecchio acustico lei era in grado di fare da sé. Per fortuna era certa che si trattasse della prima opzione, ma si era detta che, se dalla prima fosse derivata anche la seconda...tutto di guadagnato.
Qualcuno stava bussando alla porta da un paio di minuti, ma Ariela se ne accorse solo quando si voltò e vide vibrare la maniglia. L'apparecchio acustico era ancora abbandonato sul comodino dalla sera prima, quando aveva svuotato borsa e valigia. Ariela corse ad aprire.
A bussare era stata la proprietaria dell'albergo. Era una signora anziana con i capelli grigi raccolti in una crocchia e che indossava sempre abiti casalinghi – un vestito a quadri lungo fino a metà del polpaccio e un grembiule.
Le sorrise mentre le porgeva un vassoio.
- La colazione - scandì; quando aveva scoperto che Ariela era sordomuta, aveva preso a parlarle a gesti e a scandire brevi parole e frasi ad alta voce come se stesse parlando a una persona un po' dura d'orecchi. Per Ariela era un vantaggio, perché così riusciva a leggerle bene le labbra.
Le sorrise di rimando e la ringraziò, prendendo il vassoio fra le mani.
Richiuse la porta con il gomito e posò il vassoio sul letto.
Quand'era arrivata a Everbrooke, nel primo pomeriggio del giorno prima, aveva presto scoperto tramite Google che in città c'era un solo albergo. La sua prima preoccupazione era stata quella che non ci fossero camere libere – era l'8 settembre e dunque ancora stagione balneare, sebbene tardiva – e lei non voleva allontanarsi da Everbrooke per nessuna ragione; poi, però, aveva altrettanto presto realizzato che quella non era esattamente la classica località dove i turisti spendono le loro vacanze.
L'albergo – l'insegna un po' sbiadita al suo esterno recava la scritta Under the Sea su uno sfondo di legno bianco circondato da una cornice blu ai lati della quale spuntavano alcune decorazioni “marine”, come un salvagente, una stella marina e dei pesciolini – era stato chiaramente pensato per essere un luogo la cui principale clientela era composta da turisti e bagnanti – le porte di vetro scorrevoli ricalcavano quelle degli hotel a cinque stelle in cui Ariela aveva soggiornato durante i suoi viaggi con i genitori, la tappezzeria nella hall era in tema oceanico, e anche l'unico quadro della sua stanza mostrava un'istantanea del mare; senza contare che bastava attraversare la strada per essere in spiaggia –, ma subito Ariela si era accorta che, con l'andare degli anni – e il diminuire della clientela –, era stato ridotto a pensione per persone di passaggio a Everbrooke. Gente che si fermava per una notte e ripartiva la mattina seguente.
La proprietaria l'aveva accolta da dietro un bancone di legno un po' scheggiato posizionato sulla destra di quella che fungeva da hall e sala d'attesa insieme. Di fronte a esso c'erano due divani di pelle marrone separati da un tavolino di vetro decorato con un centrino di alghe finte e stelle marine essiccate, e appeso alla parete torreggiava un salvagente bianco e rosso; dietro al bancone, al campanello dorato e al registro polveroso, si apriva la porta della cucina.
Ariela si era aiutata con il block-notes per spiegare alla donna che le occorreva una stanza per un paio di settimane e che no, non la stava prendendo in giro, era sordomuta. La proprietaria prima era avvampata, poi aveva preso a gesticolare per farle firmare il registro e per condurla nella sua stanza.
Lo scroscio delle onde del mare arrivava fino alla finestra della camera 107, e l'aria salmastra era ancora più accentuata dal temporale del giorno prima. Ariela chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Casa sua le mancava: anche la stanza che divideva con sua sorella Alana si affacciava sul mare, e da quella posizione si poteva vedere la statua della Sirenetta.
Ariela si era già fatta la doccia e indossava ancora l'accappatoio, e i capelli bagnati erano appiccicati al collo e al cranio; se li stava strofinando con l'asciugamano, quando il PC portatile aperto sul letto mandò un bagliore. La ragazza si avvicinò e vide che c'era una videochiamata in attesa.
Si sedette sul letto e l'attivò.
Il volto di sua sorella Andrina le apparve sullo schermo, e la salutò usando il linguaggio dei segni danese. Ariela decise che avrebbe potuto fare a meno dell'apparecchio acustico.
- Come va, stamattina? Mamma e papà?
- Non dico che si siano dati una calmata, ma va meglio di ieri. Sono giusto un po' incazzati perché non hai detto a loro direttamente che andavi da una compagna di Università in vacanza.
- L'importante è che abbiano creduto alla balla.
- Papà però vuole il numero di casa di questa compagna. Dice che vuole parlare con te al telefono.
- E tu che hai detto?
- Che te lo avrei chiesto. Che m'invento, adesso?
- Dagli il numero dell'ufficio di Simon - Simon era il fidanzato di Andrina, lavorava come contabile al Den Bla Planet National Aquarium e Triton non lo poteva soffrire, tanto che non voleva sapere niente di lui, nemmeno il numero di cellulare.
- E che gli dico? Di parlare in falsetto e fingersi una donna? E poi io non gli ho raccontato quello che hai fatto!
- Digli...inventati qualcosa, non lo so...digli di spacciarsi per il padre della mia amica e dirgli che sono da loro e sto bene.
- E se chiede di parlare con te?
- Sono in bagno.
- Ogni volta che chiama, sei sempre in bagno?!
- Si possono fare tante cose, in un bagno. Oppure, sono in Università, o sono uscita con la mia amica a fare shopping. Gli hai detto che volevo staccare la spina?
- Sì.
- Beh, allora capiranno se non ho voglia di parlare. Spero.
- Non è che puoi basarti sulla speranza e risolvere tutto a tarallucci e vino!- sbottò Andrina.
- Non lo faccio. Senti, al massimo, tienimeli buoni per queste due settimane...un mese, se ci riesci. E poi, di' loro la verità.
- Per farmi ammazzare ancora più dolorosamente?
- Inventa che ho raggirato anche te e che non sai dove sono. Prima che mi rintraccino ci vorrà del tempo, e per allora avrò trovato tutto ciò che ci serve.
- Sto meditando di spifferare tutto subito e porre fine alle mie sofferenze...
- Piuttosto, aggiornami.
- La Strega del Mare ha rilasciato un'intervista al TV Avisen ieri. Non lo vedi DR1, lì dove sei?
- Credimi, se vedessi il posto in cui sto ti passerebbe qualsiasi fantasia. Hanno ancora le vecchie televisioni a scatola, qui.
- Comunque, ti faccio un riassunto veloce: ha parlato di un nuovo programma per la salvaguardia della fauna e della flora marina e per la prevenzione dell'inquinamento dell'acqua potabile. Naturalmente ha smentito il proprio coinvolgimento nella faccenda di otto anni fa, quando il giornalista l'ha riportata alla luce.
- Ha detto nulla riguardo al suo viaggio?
- Confermato. Parte alla fine della settimana.
Ariela sorrise e strinse forte le mani insieme, facendo un gesto di vittoria. Andrina alzò gli occhi al cielo.
- Pretendi che ti si tratti come un'adulta, ma a volte ti comporti proprio come una bambina.
- Stavo festeggiando il primo passo verso la vittoria - Ariela si voltò verso il vassoio: la colazione prevedeva caffé e una brioche. Sollevò la tazza e mimò il gesto alla tua salute rivolto allo schermo, prima di bere.
- Novità con quei documenti?- domandò dopo aver posato la tazza.- Intoppi?
- Nessuno. Sei stata accettata come stagista per sei mesi all'Everbrooke Aquarium. Non hanno notato che i documenti erano dei falsi. Ariela Vand, di anni venti – ti sei resa più giovane di quattro anni, sei tremenda! –, studentessa di Archeologia Subacquea alla UCPH, in USA per uno scambio culturale. Come tu abbia fatto a falsificare i documenti resta un mistero per me, ma non sono neanche tanto sicura di volerlo svelare...
- Qualcuno ha chiamato per accertarsi della veridicità dei documenti?
- Sì, un tizio dell'acquario. Mi sono finta un'addetta alla segreteria della UCPH.
- Rotacismo finto incluso?
- Piantala!
- Ti viene così bene...!
- Comunque, cominci venerdì.
Ariela non si curò di nascondere la propria delusione. Disse a sua sorella che avrebbe preferito cominciare prima, magari il giorno stesso o quello dopo. Andrina le rispose che quello era il massimo che si poteva fare, e che se ci pensava andava comunque bene così.
- La Strega del Mare arriva lunedì o martedì prossimo. Per quell'ora sarai già operativa sul campo e di conseguenza in vantaggio. La stronza non passa molto tempo a Everbrooke, è probabile che sarà mezza morta dal fusorario e rimbambita, se ci va bene.
- Per lunedì o martedì avrò già trovato qualcosa, se tutto va bene.
- Aspetta...qui vedo che hai lasciato il sordomutismo. Perché? Ariela, con l'apparecchio parli e ci senti normalmente, e nascosto sotto i capelli non si vede. La Strega del Mare potrebbe fare due più due.
- Quante studentesse sordomute ci sono al mondo? E poi lei non sa chi sono, non mi ha mai vista in faccia. Senza contare che...
- Cosa?
Ariela aveva avuto un'illuminazione, durante il primo incontro con la proprietaria dell'albergo. A un certo punto, vedendola gesticolare e sbracciarsi in tutti i modi possibili per farsi comprendere, la ragazza aveva avuto pietà di lei e aveva tirato fuori l'apparecchio acustico dalla borsa, e l'aveva indossato mentre la donna le dava le spalle. Era stato a quel punto che l'aveva sentita dire, neanche a bassa voce, a un ragazzo – probabilmente un cameriere – incontrato sulle scale:- La ragazza qui non ci sente. Vacci piano con lei, non te la prendere se non risponde.
Ariela non aveva detto nulla e aveva continuato a fingere di non sentirci, complici anche i capelli che le nascondevano l'apparecchio. Non era la prima volta che le capitava. Quando le persone non si accorgevano che lei aveva addosso l'apparecchio acustico, davano per scontato che non ci sentisse o che non sapesse leggere le labbra, e parlavano di qualsiasi cosa in sua presenza.
E da lì era nata l'idea. Le sarebbe bastato indossare l'apparecchio ma fingere di non averlo. I capelli l'avrebbero nascosto. L'unico effetto collaterale sarebbe stato quello di non poter parlare per tenere su la farsa, ma in questo modo avrebbe avuto più possibilità di ascoltare discorsi privati e raccogliere informazioni.
Lo disse ad Andrina con il linguaggio dei segni.
Stranamente, sua sorella non protestò. Fece una smorfia di disapprovazione, ma poi convenne che avrebbe potuto funzionare.
- E avrò anche bisogno di un registratore - aggiunse Ariela.- E magari di una telecamerina. Sai, tipo quelle cimici che vedi sempre nei polizieschi...
- Non ti sembra di allontanarti un po' troppo dalla realtà?
- No.
- Come ti pare. C'è un negozio di elettronica, in quel posto?
- Non ne ho idea. Lo spero. Forse avrei dovuto pensarci quando ero ancora a Copenhagen o quando sono atterrata a NY. Non è che sia una metropoli, qui. Vedrò cosa riesco a trovare.
La conversazione andò avanti ancora per un paio di minuti, ma furono solo convenevoli. Andrina era in ansia, questo Ariela lo comprendeva, ma non poteva far nulla se non sperare che sua sorella non si tradisse prima che lei avesse trovato ciò che cercava.
Salutò Andrina e chiuse il PC. Si distese sul letto, ancora in accappatoio, godendosi il rumore e il profumo del mare. Finì di bere il caffé e prese a sbocconcellare la brioche.
Venerdì, rifletté. Cominciava venerdì, e doveva procurarsi registratore, telecamera, e magari qualche snack. Ne avrebbe approfittato per dare un'occhiata in giro.
Quella Everbrooke sembrava veramente un luogo dimenticato dal mondo. L'ideale per chi vuole fare i propri sporchi affari senza essere scoperto...
 
II. [Blanche]
 
La torta di mele era talmente morbida che bastava il cucchiaino per tagliarla. Blanche si portò alla bocca il primo pezzetto e lo assaporò godendoselo fino in fondo.
La nuova cameriera, Babette Deniel, era una studentessa di Scienze Motorie che era stata assunta part-time un paio di mesi prima per occuparsi delle faccende di minore incombenza: dare una mano al giardiniere, spolverare la biblioteca di Amos, aiutare in cucina...
Il suo compito principale era assicurarsi che la stanza e il guardaroba della signorina Blanche fossero in ordine e puliti. A Blanche quella ragazzetta con l'accento francese e la puzza sotto al naso non piaceva per nulla, sentimento peraltro reciproco, ma doveva ammettere che il lavoro lo svolgeva bene, era discreta, e parlava solo se strettamente necessario. Inoltre, un giorno, per caso, era saltato fuori che sapesse cucinare molto bene la torta di mele.
Grimilde l'aveva messa alla prova così per sfizio, e il dolce che aveva cucinato si era rivelato più buono di quello che di solito preparava il loro cuoco. Sebastian aveva offerto un extra sullo stipendio a Babette se lei si fosse occupata di cucinare la torta di mele tutte le mattine, e lei aveva accettato.
La torta di mele era il dolce preferito di Blanche da sempre, da quando era piccola ed era sua madre a prepararglielo. Ed era anche l'unico dolce che si concedeva di mangiare, poiché con il suo lavoro da modella non poteva sgarrare più di tanto sulla dieta.
Erano le otto del mattino ed erano tutti e tre riuniti nella sala da pranzo per colazione. Consumare i pasti insieme era una tradizione di casa Schreave – Amos ci teneva molto, ma più per mantenere la facciata della famigliola felice che per vero desiderio di trascorrere del tempo con la moglie e i figli. Serena Charlotte, lei sì che ci teneva veramente, ma anche il piacere di cenare o fare colazione insieme era morto insieme a lei.
Blanche mandò giù il pezzetto di torta e ne tagliò un altro dalla fetta posta nel piattino accanto a lei. La sua colazione consisteva in una fettina di torta di mele e in una tazza di cappuccino; quella della sua matrigna era ancora più scarna: Grimilde prendeva solo una tazzina di caffè che non mancava mai di correggere con del cognac.
C'era silenzio. L'unica che aveva il coraggio di fare rumore era Grimilde, e solo con il tintinnio del cucchiaino contro la tazzina mentre mescolava il caffè. Lei sembrava rilassata, a differenza della tensione che si respirava pesante come un macigno nell'aria.
Sebastian si era presentato a tavola quando la sorella e la matrigna erano già sedute, aveva salutato solo Grimilde e si era messo a leggere il giornale che il cameriere gli faceva trovare ogni mattina accanto alla sua colazione. Non aveva alzato gli occhi dalle pagine per un quarto d'ora e il suo piatto di salsiccia, uova e bacon e il suo caffè erano intatti.
Grimilde, all'alba delle otto e un quarto, ruppe il silenzio con un lungo sospiro.
- Farai tardi, stasera, Blanche?- cinguettò, e le rivolse un sorriso.
La ragazza sollevò lo sguardo, ma restò curva sulla propria colazione.
- Chiedilo a lui - borbottò.
Sebastian non smise di leggere il giornale, ma a Blanche non sfuggì che avesse aggrottato le sopracciglia.
- Perché?- Grimilde sembrò confusa.
- Oggi c'è quel servizio fotografico per la collezione invernale.
- Lo sai che io non c'entro niente con le tempistiche - bofonchiò Sebastian, senza guardarla.- Quando hai finito te ne torni a casa. Oppure vai dove accidenti di pare.
Grimilde gli strinse un avambraccio.
- Non parlarle così...
- Lascia perdere, Grimilde. E' incazzato per la storia della mafia.
- Sono sicura che Blanche non l'ha fatto apposta. Voleva aiutare la polizia...
- Hai ragione, Grimilde. Non l'ha fatto apposta. E lo sai perché? Perché non ha neanche il cervello per farlo apposta!- Sebastian lanciò il giornale al centro del tavolo e regalò a sua sorella un'occhiata sbilenca.- La cretina non aveva nessuna informazione utile da dare, ma non resiste al bisogno di essere al centro dell'attenzione e mi ha fatto fare la figura del delinquente!
- Ti ho già chiesto scusa ieri sera...- Blanche ingoiò un altro pezzetto di torta, ma il ringhio della sua risposta si udì ugualmente.
- Sì, come no. E' la tua specialità. Prima fai danni e poi chiedi scusa. Sai chi mi ha chiamato stamattina alle sei? Tale ispettrice capo Holsey. Ha detto che oggi verrà a fare un sopralluogo in azienda.
- Può darsi che sia una cosa di routine - suggerì Grimilde.- Fanno il loro lavoro. E' bene che non escludano nessuna possibilità.
- Il sopralluogo in azienda lo avevano già fatto mercoledì scorso. Se Blanche avesse tenuto chiusa quella fogna di bocca, a quest'ora potrei cercare di concentrarmi sul lavoro, invece che su inesistenti azioni illegali...bella considerazione che hai papà, peraltro!
Blanche stette zitta. Come se papà non avesse mai fatto cazzate e tu non lo sapessi, pensò.
Si sentiva cattiva. Pensava che avrebbe dovuto provare più dolore per la morte di Amos. Aveva pianto, sì. Soffriva, certo. Ma non si era mai schierata nel partito di coloro che millantavano pregi e buone qualità nei defunti, quando in realtà in vita l'uomo in questione era stato l'ultimo degli stronzi.
Blanche sapeva che suo padre non era stato una brava persona. E lo sapeva anche Sebastian, sebbene continuasse a difenderlo per sgravarsi la coscienza. I giornali e i programmi televisivi avevano sempre dipinto Amos come il prototipo del self made man – uno come lui era il simbolo del sogno americano, nato in una famiglia di contadini del Texas e partito alla volta di New York per cercare fortuna, riuscendo grazie al sacrificio e al duro lavoro a creare dal niente un impero all'apparenza indistruttibile. Blanche aveva creduto a quel mito fino a che aveva avuto tredici anni...poi, un giorno, ceracando una delle sue Barbie, era entrata in camera di suo fratello Adam e aveva letto poche righe di un fascicolo di documenti nascosto in un cassetto...e il bel castello di carte era crollato.
Blanche non aveva fatto in tempo a leggere neanche la prima pagina di quel fascicolo. Suo fratello era entrato in camera all'improvviso, le aveva urlato contro e l'aveva buttata fuori trascinandola per un braccio. Ma era stato abbastanza.
Blanche non aveva dubbi sul fatto che Amos fosse diventato ciò che era diventato grazie al proverbiale sudore della fronte...ma non poteva essere solo questo. Qualcuno doveva avergli dato una mano. In che modo e con quali mezzi...non lo sapeva.
Ma Blanche non aveva dimenticato il nome che aveva letto su quelle poche righe.
A quanto pareva Amos aveva avuto dei rapporti – non si sa di che genere – con tale Ursula Heks. Il nome sulle prime non le aveva detto niente, poi tempo dopo avrebbe scoperto che la signora in questione si era trovata coinvolta in uno scandalo riguardante l'inquinamento di falde acquifere in Danimarca, otto anni prima.
Blanche avrebbe voluto come mai in quel momento che suo fratello Adam fosse lì per darle una spiegazione...ma Adam era morto.
Ed era stato quell'evento e ciò che ne era seguito che aveva finalmente rivelato a Blanche la reale pasta di cui fosse fatto suo padre. Blanche era passata sopra al fatto che si fosse risposato dopo neanche tre mesi dalla morte di Serena Charlotte. Aveva fatto finta di nulla di fronte alla sua palese preferenza nei confronti di Sebastian rispetto agli altri due figli e alla figliastra.
Ma aveva stentato a credere alle sue orecchie, quella sera.
Adam era appena morto. L'autopsia aveva confermato che il cadavere ritrovato nell'ala incriminata di Rose Manor fosse il suo e quello era il giorno del funerale. Blanche e Roxy avevano pianto tutto il pomeriggio e si erano addormentate abbracciate nel letto della prima. A un certo punto – erano circa le dieci di sera, aveva saltato la cena e il magone non le era passato – Blanche si era svegliata ed era scesa al piano di sotto per intrufolarsi in cucina e rubacchiare qualcosa da mettere sotto i denti per se stessa e la sorellastra, ed era passata di fronte allo studio di suo padre.
La porta era socchiusa e lei si era arrestata quando aveva sentito suo padre parlare con qualcuno a proposito di Adam.
- Finirò all'Inferno per questo, ma il bastardo se l'è meritato - aveva detto Amos; Blanche era rimasta paralizzata.- Non l'ho mica ammazzato io, d'altronde. Si è fottuto da solo. E sai che ti dico? Meglio così. Mi risparmia l'imbarazzo di avere un figlio psicopatico e avanzo di galera. Chissà che cazzo d'altro mi avrebbe combinato, se non fosse morto...
Blanche era scappata via. Non aveva mai saputo con chi Amos stesse parlando.
Aveva raccontato tutto a Roxy. La sua sorellastra l'aveva presa peggio di lei.
- Figlio di puttana!- aveva ringhiato.- Porco, lurido figlio di puttana!
Amos non si era mai curato di Roxy. Tendeva a ignorarla. La reputava al massimo non più di un bel faccino, e aveva progettato d'indirizzarla alla carriera di modella come aveva fatto con Blanche, ma quando aveva compreso che Roxy non ne voleva sapere, allora non se n'era fatto più niente di lei.
La sua sorellastra non aveva alcun timore o soggezione di Amos. Litigavano spesso e non le importava quante punizioni o quanti schiaffi prendesse, ogni volta era la stessa storia. Blanche aveva la sensazione che Roxy talvolta lo provocasse apposta.
Sebastian invece era sempre stato il cocco di papà. Amos aveva puntato tutto su di lui, già prima che Adam morisse. Aveva spinto perché si laureasse in economia e lo affiancasse nella gestione della ditta. Suo fratello, da parte sua, non si era opposto. Blanche supponeva gli piacesse il suo lavoro e avesse un ottimo rapporto con il padre.
Sebastian non era cattivo, ma purtroppo era all'oscuro di troppe cose.
Come del vero motivo per cui sua sorella e Rosebud Thorn avessero tagliato i ponti.
Il ricordo di Rosebud e della zavorra che le aveva mollato a tradimento la distolse dal pensare a un insulto abbastanza creativo da rivolgere a suo fratello. Sebastian trangugiò la propria colazione in meno di cinque minuti, poi si alzò e annunciò che avrebbe fatto tardi, quindi uscì salutando solo la matrigna.
Blanche serrò le palpebre quando sentì il suono secco della porta sbattuta da suo fratello.
In altre condizioni non sarebbe passata sulla fogna di bocca e su tutto il resto, ma l'emicrania le stava tamburellando contro le tempie, non riusciva a non pensare al pacchetto che teneva nascosto nel cassetto e a suo padre, quando invece avrebbe voluto solo concentrarsi sul servizio fotografico di quel pomeriggio.
Lasciò a metà la fetta di torta e si alzò.
Salì al terzo piano con l'intenzione di sistemarsi il trucco e indossare qualche gioiello prima di uscire. Era presto per andare alla ditta, ma non aveva voglia di restare in casa.
Era a metà del corridoio quando sentì dei passi rincorrerla e Grimilde chiamarla.
Si voltò appena in tempo per trovare il volto della matrigna a pochi metri dal proprio. Quasi tutte le persone che conoscevano – ed erano parecchie – sostenevano che loro due si somigliassero parecchio. La prima impressione era supportata dal fatto che entrambe avevano i capelli neri, entrambe erano alte, magre e slanciate – Blanche non l'aveva mai chiesto a Grimilde, ma sospettava che anche lei avesse un passato da modella. Per il resto, l'una aveva gli occhi azzurri, mentre le pupille dell'altra avevano una strana tonalità fra il nero e l'ocra. In alcune condizioni particolari di luce, sembrava che gli occhi della signora Schreave fossero viola, come quelli di Elizabeth Taylor.
Grimilde aveva la carnagione più scura di quella di Blanche, e nonostante i suoi quarantasei anni era ancora molto bella grazie alla sua alimentazione sana e ai trattamenti a cui si sottoponeva ogni settimana – e a tanta fortuna.
Spesso, chi non conosceva la famiglia Schreave scambiava le due per madre e figlia. E nessuno si prendeva mai la briga di correggerli.
Blanche si era resa conto con un certo sconcerto di somigliare a Grimilde più della sua figlia biologica. Quand'era ragazzina passava dei quarti d'ora interi di fronte allo specchio a cercare somiglianze e differenze con la sua matrigna.
Grimilde le mise una mano su una spalla.
- Non te la prendere - le sussurrò.- Tuo fratello è solo nervoso perché da oggi sarà lui l'uomo di casa. In tutti i sensi...- sospirò.- Sebastian ha ventisei anni e deve prendere le redini dell'impero che ha lasciato tuo padre. Così, da un giorno all'altro...come se non fosse già abbastanza tutto quello che è successo...
In quel momento, Blanche si vergognò di non aver dedicato neanche un pensiero a Grimilde. Non aveva considerato neanche per un attimo che forse era lei quella che soffriva più di tutti. Aveva perso suo marito...ed era già rimasta vedova una volta.
Si sforzò di sorriderle, e annuì.
- E poi, lo sai com'è Sebastian - proseguì Grimilde.- Sempre con quell'ansia da prestazione, sin da ragazzino. E' un tipo nervoso, teme di non essere all'altezza...
- Si sente in colpa - scappò detto a Blanche.
- In colpa?
- Verso Adam - Blanche si allontanò di un passo e prese a fissarsi le scarpe.- Lui non lo dice ma io lo so che è così. E' sempre stato geloso di Adam. E adesso pensa in continuazione che sta occupando il posto non di un uomo che non c'è più, ma di due...
- Non dire sciocchezze!- la rimproverò Grimilde; le accarezzò i capelli.- Sebastian sta cercando di fare del suo meglio, e avrà bisogno di tutto il nostro aiuto. Tuo padre gli manca molto, così come manca a noi...e...- esitò.- E anche Adam ci manca, lo sai.
L'abbracciò. A Blanche non erano mai piaciute le moine, ma si lasciò abbracciare perché ne aveva bisogno – e sentiva che Grimilde ne avesse più bisogno di lei. Infatti, quando si staccò, vide che la matrigna aveva gli occhi lucidi.
- Allora!- inspirò la donna, lisciando la giacca della figliastra; Blanche quel giorno indossava una minigonna di pelle con calze color carne e una maglietta trasparente che lasciava intravedere il reggiseno, sopra cui aveva abbinato una giacchetta; il tutto, scarpe con i tacchi a spillo inclusi, era in total black. Grimilde, invece, aveva il suo solito tailleur grigio.- Chiamo l'autista e gli dico di aspettarci in cortile. Ti accompagno in ditta per il servizio fotografico e poi pranziamo insieme al Prince's, ti va?
Blanche annuì con entusiasmo.
- Sistemo solo un attimo il trucco.
- Va bene. Fai con comodo. Io ti aspetto di sotto.
La ragazza andò di corsa in camera sua e chiuse la porta. Trovò Babette che rifaceva il letto. La cameriera non la salutò, e lei non si curò di farlo per prima. Si sedette alla toeletta e sistemò il fondotinta, il mascara e l'ombretto, e passò una seconda volta lucidalabbra e rossetto.
Le venne in mente che con quell'outfit si sarebbe abbinata bene la collana di perle Akoya. Erano tre fili di perle che se indossate le arrivavano fino all'ombelico, e gliele aveva regalate sua madre prima di morire – così come una borsa rossa di Valentino, che però Blanche non trovava più da diversi anni. A Grimilde non piaceva molto, quella collana; diceva che la trovava poco fine e che in ogni caso si sarebbe dovuta indossare per andare a ballare o per qualche serata di gala, non per andare in giro tutti i giorni. Blanche invece considerava quelle perle la sua collana preferita.
Ma quando aprì il portagioie per prenderla, non la trovò.
Cercò per un minuto buono le perle sollevando e spostando le altre collane, gli orecchini e i braccialetti, ma non le trovò.
- Hai lucidato i miei gioielli?- chiese a Babette, che stava spolverando l'anta della cabina armadio.
- Sì, signorina Schreave.
- Oggi?
- L'altro ieri, mi pare.
- Manca una collana - Blanche si rese conto di aver pronunciato quella frase in tono accusatorio, e si affrettò a cambiare registro.- L'hai spostata?
Babette la guardò, sorpresa.
- Io non ho spostato niente.
- Eppure non c'è...- Blanche le mostrò il portagioie.- L'avevo lasciata qui, sono sicura.
- Quale collana?- Babette posò lo spolverino e si mise a sua volta a frugare nel portagioie.
- I tre fili di perle Akoya.
Babette spostò i gioielli e cercò la collana, ma non vi fu verso di farla saltare fuori. E il portagioie non era profondo dieci metri. Alla fine, la cameriera guardò Blanche.
- E' proprio sicura di averla lasciata qui?
- Sì. Non sposto mai i gioielli. C'era, l'altro ieri, quando hai pulito?
- Al momento non ricordo, devo essere sincera.
- Dove altro pensi che potrebbe essere?- Blanche si guardò intorno e cercò di sbirciare sotto il letto.
- Non ne ho idea. Ma posso cercarla - disse Babette.- Se deve andare, signorina Schreave, vada pure. Stasera le farò sapere se l'ho trovata...
 
La sede della Schreave Inc. era l'edificio più grande e più alto di Everbrooke. In mezzo a tutte quelle costruzioni di provincia sembrava essere stato preso e trasportato direttamente da New York a lì. Era un palazzone alto e grigio con la scritta dell'azienda a caratteri cubitali sul tetto, e le numerose vetrate davano una vista diretta all'interno degli uffici.
Quello del fu Amos Schreave era al settimo piano, ed era il più ampio e spazioso; si trovava proprio a due passi da quello di suo figlio. Sebastian aveva già dato disposizione affinché le sue cose venissero trasferite sulla scrivania di suo padre.
Amos Schreave era stato il Presidente e il Direttore della ditta, mentre Sebastian era Amministratore Delegato. Aveva deciso che avrebbe mantenuto quel ruolo e avrebbe assunto anche quelli del padre, almeno i primi tempi, in attesa di capire se fosse meglio così o se fosse il caso di assumere un nuovo CEO.
Appena arrivò in ufficio, la segretaria di suo padre si alzò per accoglierlo. Sebastian le sorrise senza troppo entusiasmo.
La donna gli andò incontro reggendo una cartellina.
- Salve, signor Schreave. E ancora condoglianze...- mormorò, aggiustandosi gli occhiali quadrati sul naso. Era stata al funerale il giorno prima, ma non si era presentata al rinfresco usando la solita scusa: devo andare a casa da mia figlia.
Ogni volta che si assentava dal lavoro, o non poteva presenziare a qualche impegno, anche se si trattava di una festa organizzata dall'azienda, la ragione era sempre sua figlia. La segretaria di suo padre era una donna sui trentacinque anni, alta e magra, con i capelli color castano chiaro che portava sempre annodati in una coda di cavallo, e gli occhi color nocciola perennemente nascosti da degli occhiali dalla montatura grigia, quadrati e spessi. Era piuttosto bruttina, con i denti non proprio dritti e dei lineamenti insignificanti; il fatto che si vestisse sempre come una maestrina di collegio religioso femminile di fine anni Trenta non aiutava.
Quella donna aveva una passiona smodata per i pantaloni di tela spessa, le scarpe basse e maschili, le camicette a fiori abbottonate fino alla gola e i golfini sformati. Suo padre la definiva sempre un cesso, stando bene attento a precisare che l'aveva assunta solo in virtù del suo curriculum aggiornatissimo e nella speranza che sarebbe migliorata, almeno nel modo di vestire. Sebastian sospettava che Amos avesse sperato un giorno o l'altro di portarsela a letto, ma non aveva mai esternato questo pensiero per rispetto nei confronti di Grimilde – a cui, lo sapeva, suo padre non era mai stato fedele, come peraltro non lo era stato a Serena Charlotte –, preferendo ignorare eventuali commenti per amor di equilibrio interiore e pace spirituale.
- Comunque, io mi sono stufato. Quella racchia sarà anche brava, ma mi ha rotto con la storia della figlioletta malata e mi rovina l'immagine dell'azienda, conciata in quel modo - aveva annunciato Amos una sera a cena, qualche giorno prima di essere ucciso.- Aspetto che finisca la stagione autunno-inverno, e le do il benservito.
Sebastian non si era sentito di fare altrettanto. Un po' perché trovava le motivazioni di suo padre stupide e ingiustificate di fronte a una donna che aveva un effettivo bisogno di lavorare, e un po' perché conoscendo la situazione della segretaria di Amos non se la sarebbe mai sentita di buttarla in mezzo a una strada.
Si trattava di una donna estremamente riservata – parlava poco con chiunque, in più di otto anni non era mai riuscita a stringere un rapporto amichevole o confidenziale con nessuno dei colleghi, non dava mai informazioni su se stessa neanche in maniera indiretta – non c'era uno straccio di fotografia sulla sua scrivania, nemmeno di quella figlia che pareva amare tanto – non si fermava mai a prendere il caffé alle macchinette o a chiacchierare dopo la fine dell'orario d'ufficio, pranzava senza smettere di lavorare oppure tornava a casa, e non aveva mai partecipato a una festa organizzata dalla ditta; eppure, tutti conoscevano la sua condizione.
Si sapeva che fosse una madre single di una bambina – bambina? ragazza? non era dato sapere l'età della suddetta piccina – che aveva dei seri problemi di salute – di che genere, neanche questo era concesso di sapere – e che cresceva da sola e a cui dedicava tutta se stessa e le sue energie.
Sebastian non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarla a casa.
- Grazie, Gothel - le rispose, sedendosi alla scrivania.- Ci sono novità?
- La riunione con il consiglio d'amministrazione è oggi alle undici, e ci sono delle persone che hannp chiesto di vederla. Hanno detto di non avere un appuntamento, e quando ho risposto loro che lei non riceveva senza appuntamento mi hanno mostrato un distintivo e hanno detto di essere della polizia. Ispettrice capo Holsey e ispettore Gordon. Li ho fatti accomodare in sala d'attesa. Vuole che li faccia entrare?
 
III. [Jess]
 
- E comunque quello è un coglione - sentenziò Erik Woods, seduto al posto del passeggero della Honda di sua sorella. Jess, stravaccata sul retro accanto a nonna Lily, alzò gli occhi al cielo.
- Erik, per favore...- Claire aveva il labbro tremulo.
- Neanche lo conosci. E' un tipo a posto - disse nonna Lily rivolta a suo figlio.- Anche a te sarà capitato di fare qualche stronzata.
- Non una stronzata come infilarmi nel letto della mia figliastra!
- Ti ho già detto che non l'ha fatto apposta!- protestò Claire.- Tesoro, diglielo anche tu che Alex non voleva e che non ti ha fatto niente...
Jess non disse nulla e continuò a masticare il chewing-gum che aveva in bocca. La nottata precedente era andata avanti se possibile ancora peggio: Claire aveva fatto sedere l'idiota in cucina, gli aveva tamponato il bernoccolo con il ghiaccio neanche fosse stato un bimbetto di cinque anni e intanto il suddetto cretino aveva trovato il tempo sia per spazzolarsi via quel che restava della torta sia per fare il simpatico – o almeno provare a farlo – con Jess.
Aveva ripetuto di chiamarsi Alexander Hunter, “Alex” per gli amici – Jess si domandava come uno come lui potesse avere degli amici –, e che stava con sua madre da otto mesi. Non vivevano insieme, eh, che stesse pure tranquilla, le avrebbe lasciato i suoi spazi fino a che lo avesse desiderato e si sarebbe potuta strapazzare la sua mamma finché avesse voluto, ma le aveva fatto presente che da sei mesi si era trasferito a Everbrooke per stare vicino a Claire.
Un punto a suo favore – l'unico – era stato il suo offrirsi di andarsene a dormire a casa sua; quando si era tolto di torno, Claire aveva cercato di scusarsi e di darle ulteriori, inutili spiegazioni, ma Jess l'aveva freddata dicendole che era stanca, e se n'era andata a letto mollandola lì.
La mattina seguente erano venuti la nonna con la sua badante tardona accompagnate dallo zio – il quale si era vestito con un completo a giacca e pantaloni neri su camicia bianca e cravatta nera.
- Come sto?- aveva chiesto a Jess; si vedeva che era nervoso per il primo giorno di lavoro all'Everbrooke Aquarium. Jess aveva annuito per non rispondergli che sembrava vestito per un funerale.
Claire si era nascosta con sua madre per parlarle in privato di quanto era accaduto la notte precedente; peccato che Erik avesse sentito e avesse dato fuori di matto, pretendendo di sapere chi diavolo fosse quel pervertito e che accidenti avesse fatto a sua nipote. Jess aveva ghignato prendendo seriamente in considerazione la possibilità di consegnare Alex Hunter a suo zio e vedere gli effetti che quel gesto avrebbe comportato.
Era diventata una questione di Stato che aveva occupato loro tutto il tragitto da casa di Claire alla Everbrooke High School.
La sera precedente Jess era stata contenta che anche la nonna l'accompagnasse per il primo giorno; riflettendoci meglio, ora si sentiva in imbarazzo come poche volte in vita sua. Venire accompagnata a scuola in auto dalla mamma, la nonna e lo zio, come una bimbetta di sei anni. E con il faccione rintronato di quella straniera che, alla faccia di quel che sosteneva Lily, Jess era convinta capisse la metà di quello che dicevano.
Claire parcheggiò la Honda accanto al marciapiede opposto a quello che dava accesso a un edificio basso e lungo, a cui si accedeva tramite una scalinata bianca. Jess guardò la sua nuova scuola: somigliava in modo impressionante a quella che frequentava quando stava alla Blue Lily, dalle pareti bianche e il tetto piatto, ma era una costruzione più nuova e il giardino, affollato di studenti e motorini, era più ampio e meglio curato.
- Ecco qua!- annunciò Claire.- Ti passo a prendere oggi pomeriggio alle quattro, così facciamo la strada insieme in autobus. Impari quello che devi prendere e così da domani puoi andare e tornare da sola - la sera prima a cena le aveva spiegato che con il suo lavoro non avrebbe potuto accompagnarla e venirla a prendere a scuola tutti i giorni. Jess non si era sentita minimamente dispiaciuta.
- Finché non le compriamo il motorino.
- Mamma! Lo sai che io ho paura...
- Eh, beh? Anche tu e tuo fratello ce l'avevate alla sua età! Mollala un po', questa ragazza...
Lo zio Erik le fece un in bocca al lupo, ancora torvo, mentre sua madre si voltò a guardarla.
- Buona fortuna per il primo giorno, tesoro. Vedrai che farai faville. Bacio?- chiese, indicandosi una guancia con l'indice. Jess il bacio lo diede invece sulla guancia della nonna, ignorando completamente sua madre.
- Ci vediamo stasera - bofonchiò, e uscì dalla Honda.
 
Trovare l'aula della prima ora non era stato difficile. Jess sapeva che sarebbe arrivata in ritardo, perché alla segreteria aveva trovato una fila chilometrica che le aveva fatto venire in mente di saltare la scuola il primo giorno.
La segretaria le aveva dato il benvenuto, le aveva consegnato la scheda con gli orari delle sue lezioni e le aveva indicato aula e sezione, oltre ad averle consegnato le chiavi del suo armadietto.
La Everbrooke High School era più piccola di quel che lasciasse intendere vista dall'esterno. Jess trovò l'aula quasi subito. Consultò la scheda degli orari: lunedì, 8:30-9:3, aula A-12, professoressa H. Buchanan, inglese.
La stanza puzzava di chiuso e di disinfettante. La maggior parte dei ragazzi era seduta sui banchi o in piedi a fumare, e tutti parlavano a bassa voce. Gli argomenti più gettonati erano le vacanze estive e Jess sentì pronunciare più volte il nome “Adele Jimmerson”.
In molti si voltarono a guardarla, altri l'ignorarono, nessuno le rivolse la parola. Jess si stava chiedendo se fosse il caso di fare la simpatica esclamando un scusate, è questa l'aula A-12? per rompere il ghiaccio, pur sapendo benissimo dove si trovava, quando si sentì chiamare per nome e cognome.
Si voltò in direzione della voce.
- Non ci credo. Jess! Jessica Woods...
Jess sorrise quando le si avvicinò una ragazzetta alta all'incirca come lei, ma più magra e ossuta, con i fianchi stretti, le dita sottili e vestita con jeans e un maglione troppo larghi per lei; aveva gli occhi castani e i capelli color paglia che portava annodati in una treccia che le arrivava fino a metà schiena. Non era bella, con il naso troppo grande per il viso piccolo e appuntito e gli occhi infossati, ma quando sorrideva era carina, nonostante i denti non proprio drittissimi.
Le si avvicinò e parlò a voce bassa affinché nessuno potesse sentirla.
- Jessica Woods, vero? O hai cambiato cognome anche tu?
- Sono sempre Woods - rispose Jess.- E tu...Irene Andrews, adesso, vero?
- Eccomi qui!- ridacchiò la ragazza.
L'abbracciò così forte da farle anche un po' male.
- Non ci credo! Sei qui! E siamo anche in classe insieme...!
Jess ricambiò l'abbraccio senza farsi troppe domande. Irene era sempre stata un po' strana: era capace di non degnarti di uno sguardo per un pomeriggio intero per poi lasciarsi andare all'improvviso a gesti di affetto, baci e abbracci senza una ragione precisa.
Tutti dicevano che fosse perché soffriva di carenze affettive e bassa autostima.
Jess e Irene non erano mai state propriamente “amiche del cuore”, al tempo della Blue Lily. Frequentavano due sezioni diverse a scuola e alla Casa Famiglia di tanto in tanto capitavano sedute a tavola vicine, o erano nella stessa squadra di pallavolo durante la ricreazione, o ancora finivano a giocare insieme a Scarabeo o a Monopoli la sera. In quelle occasioni chiacchieravano animatamente e Jess trovava Irene molto simpatica e alla mano, ma per una ragione o per un'altra il loro rapporto non era mai andato oltre alla partita a dama della domenica sera.
Nonostante ciò, Jess aveva sperato di reincontrarla a scuola a Everbrooke, giusto per avere un volto amico a cui fare riferimento. E ora, stranamente, si sentiva contenta di rivederla, quasi fossero state amiche per la pelle.
- Vieni!- Irene la prese per mano.- Ti siedi vicino a me? La mia compagna di banco dell'anno scorso puzzava di sudore...
Jess rise e si sedette.
Dietro di loro, in un banco singolo, aveva preso posto una ragazzetta smilza e con i capelli biondi come il grano. Era vestita con calze a rete strappate e anfibi neri, una gonna di pelle e una maglietta con le maniche svasate e l'orlo sbrindellato che lasciava scoperto l'ombelico dotato di piercing. Un altro piercing a forma d'anello era stato applicato all'angolo della narice sinistra, mente altri spuntavano sui lobi e i padiglioni delle orecchie e un altro sulla lingua. I capelli biondissimi erano fermati da una fascia nera come il resto degli abiti della ragazza, mentre trucco nero come il rossetto era calcato pesantemente sulle palpebre e agli angoli degli occhi. Le unghie erano corte e mangiucchiate e le mani coperte da guanti neri trasparenti che lasciavano scoperte le dita.
La ragazza sogghignò. Jess non capì come mai, ma non approfondì.
- Quindi...sei sempre Woods?- ripeté Irene.- Come mai anche tu qui a Everbrooke?
- Ci sono nata. Mia madre s'è rifatta viva sei mesi fa - Jess fece una smorfia.
- Alla fine allora non ti hanno dichiarata adottabile...
Jess fece segno di no con il capo.
Lei e Irene avevano storie abbastanza simili, anche se la seconda aveva decisamente sofferto di più. A otto anni, quando era arrivata alla Casa Famiglia Blue Lily, Jess aveva passato il primo pomeriggio a piangere, finché non le si era avvicinata Irene – ai tempi una mocciosetta della sua stessa età con l'apparecchio per i denti e le trecce. Le aveva chiesto cosa ci fosse che non andava, e lei le aveva detto tutto, di sua madre che era sempre ubriaca e strafatta, della nonna, del fatto che Claire l'avesse mollata lì con la promessa di disintossicarsi e di tornarla a prendere, e di come lei non ci credesse, che sua madre l'aveva già detto mille volte ed era sicura che non sarebbe tornata mai più.
Irene, allora, le aveva raccontato la sua, di storia.
Lei stava alla Casa Famiglia da più tempo, le aveva detto, da quando aveva cinque anni. Suo padre era un muratore e sua madre una casalinga. Anche sua madre beveva, spesso, perché non era felice. Un giorno, poi, era sparita, ed era sparito anche il ragazzo che lavorava come idraulico in fondo alla via e che sua madre chiamava in casa quasi ogni giorno per riparare la vasca da bagno, anche se non era rotta. E a quel punto anche suo padre aveva cominciato a bere, solo che quando lo faceva diventava molto più cattivo, e per mettere in punizione sua figlia la chiudeva nel ripostiglio tutto il giorno e le spegneva i mozziconi di sigaretta sulla schiena. Questo era andato avanti finché una mattina la vicina di casa sentendo piangere la bambina non aveva chiamato la polizia, e con la polizia erano arrivati anche gli assistenti sociali che avevano portato Irene nella Casa Famiglia.
Irene poi era stata dichiarata adottabile, mentre Jess no. A otto anni, però, non si era ancora fatto avanti nessuno, e alla Casa Famiglia si sapeva che da quell'età in su si era praticamente spacciate. Chi venivano adottate erano le bambine di uno o due anni, al massimo tre o quattro. Nessuno voleva una ragazzina di dodici o tredici anni, in piena crisi preadolescenziale con gli sbalzi d'umore e gli ormoni impazziti.
Invece, circa due anni prima, i coniugi Andrews da Everbrooke si erano presentati alla Casa Famiglia. Volevano adottare una bambina, avevano detto, e possibilmente l'avrebbero voluta già grandicella perché con il loro lavoro sarebbe stato complicato occuparsi come si deve di una piccolina di sette o otto anni, o anche meno.
La Pritchard, Magda e la psicologa dell'istituto avevano fatto loro incontrare Irene, e in meno di un anno le pratiche per l'adozione erano complete. Ora era Irene Andrews a tutti gli effetti. Jess ricordava ancora il giorno in cui se n'era andata dalla Blue Lily con la sua nuova famiglia, e tutte le bambine e le ragazze che la salutavano.
- E come ti trovi?
- Sono arrivata solo ieri. Comunque non credo che mi fermerò molto.
- Tua madre?
- Per adesso è pulita, ma se è come quando ero piccola di sicuro tempo un paio di mesi e tornerà a sbronzarsi a merda come ha sempre fatto, e allora me ne tornerò alla Casa Famiglia.
- Magari non sarà così...
- Fidati, la conosco, quella. I tuoi, piuttosto? Come ti trovi?
- Bene!- Irene le sorrise, ma era un sorriso un po' distante, incerto.- Sì, insomma, voglio dire...con il lavoro che fanno non sono molto a casa, ma quando ci sono, sono veramente dei grandi...
- Che fanno?
- Paul è un pilota d'aerei, e Frances è una hostess. Sono sempre in giro per il mondo. Comunque, ti ripeto, quando ci sono si fanno perdonare delle assenze. Frances mi ha detto che non hanno avuto figli loro perché lei non può averne, e che hanno aspettato così tanto tempo per adottarne uno per via del loro lavoro. Si vede che volevano un bambino. Mi adorano, e mi lasciano fare praticamente tutto quello che voglio...
- Quindi, hai spesso casa libera...
- Eccome. Anche in questo periodo. Se vuoi, venerdì dopo la scuola puoi venire da me per una cioccolata...
Nel momento esatto in cui Jess accettava la proposta, la porta dell'aula si aprì e tutti gli studenti si affrettarono a raggiungere il proprio banco. Jess e Irene sollevarono lo sguardo.
- E' la Buchanan - sussurrò la seconda ragazza.
- Che tipo è?- bisbigliò Jess.
Irene fece spallucce.
- Ha tutte le rotelle a posto. Nel senso, è brava. Non s'incavola quasi mai. E ha un debole per Shakespeare, quindi dille che adori Romeo & Giulietta e una A è assicurata...
- Per cosa sta H?
- Helen.
La professoressa Helen Buchanan era una donna sui trentotto o trentanove anni, bassa di statura burrosa. Era vestita in modo abbastanza anonimo, con gonna lunga marrone come la sua giacca, scarpe classiche con il tacco e camicetta bianca. I capelli castani scuri erano sciolti e spettinati, e portava gli occhiali.
Jess e Irene si ammutolirono quando iniziò a parlare. Salutò tutti e fece qualche domanda sulle vacanze estive appena trascorse, i soliti convenevoli; Jess temeva come la peste il momento in cui quest'anno abbiamo una nuova compagna di classe! con annessa presentazione penosa; invece, proprio quando credeva che stesse per pronunciare la fatidica frase, la Buchanan attaccò tutt'altro discorso.
- Prima di iniziare con la lezione vera e propria, c'è una questione importante di cui voglio discutere con voi - aveva una voce dolce e calma, che infondeva fiducia e tranquillità, ma si vedeva lontano un miglio che fosse nervosa.- Come molti di voi sapranno, ci ha lasciati una nostra ex alunna, Adele Jimmerson.
In classe nessuno parlava se non per bisbigliare qualcosa al compagno di banco. Una ragazza seduta a pochi metri da Jess e Irene scoppiò a piangere.
- Chi è Adele Jimmerson?- sussurrò Jess.
- Una delle diplomate di giugno - sillabò Irene, senza distogliere lo sguardo dalla Buchanan.- L'hanno trovata morta ammazzata ieri mattina vicino al bosco. Lo sai cos'è il bosco, sì?
Jess rispose che lo sapeva. Se lo ricordava da quand'era piccola. La nonna le raccomandava sempre di non andare là dentro perché era pieno di lupi. Ora Jess sapeva che di lupi là dentro probabilmente non ce n'erano, ma era a conoscenza delle varie dicerie su quel posto.
La Buchanan si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania.
- Voglio essere sincera con voi. Probabilmente lo avrete già sentito alla televisione o letto sui giornali, e d'altra parte mentirvi sarebbe inutile. E' molto probabile che...che la nostra povera compagna sia stata una delle vittime del Lupo.
Si levò qualche mormorio, ma nessuno sembrò realmente sorpreso. La professoressa continuò:
- La polizia sta indagando, naturalmente, ma la nostra scuola non vuole che qualcun altro incappi in questo assassino. In comune accordo con il preside, il commissario Torrance del distretto di polizia di Everbrooke ha consegnato alcune linee guida di comportamento che adesso vi leggerò, e a cui invito tutti gli studenti ad aderire...- la donna aprì una cartellina e ne estrasse un foglio di carta; inforcò gli occhiali e cominciò a leggere ad alta voce.
- Numero uno: evitare il più possibile luoghi isolati...
Jess si sporse verso Irene.
- Cos'è questa storia del Lupo?- domandò.
Irene attese qualche istante prima di rispondere, assicurandosi che la Buchanan non stesse prestando attenzione a loro.
- ...numero due: evitare di uscire dopo le sette di sera, oppure farlo accompagnati da qualcuno...
- Da circa un anno va avanti questa storia - Irene parlò piano scandendo bene le parole per farsi capire.- C'è questo assassino, si fa chiamare “il Lupo”, che va in giro ad ammazzare le persone. I professori vogliono farci credere che siamo tutti in pericolo, ma è chiaro che quello abbia la fissa per le ragazzine e le studentesse. Ha ammazzato già quattro ragazze della scuola: Hailey Delariva, Denise Cresswell e Jamie Ronning, e adesso anche Adele Jimmerson. Jamie Ronning frequentava anche lei le lezioni della Buchanan.
- E non sanno chi è?
- Se lo sapessero lo prenderebbero, no?- berciò una voce alle loro spalle. Jess e Irene si voltarono; a parlare era stata la ragazza vestita da emo. La Buchanan smise di sciorinare il suo elenco.
- Ha qualcosa da dire, signorina Larabee?- domandò.
- Dicevo che è veramente una tragedia - la ragazza lo disse con un tono e un sorrisetto che lasciavano intendere tutto tranne che dispiacere.- Speriamo che prendano presto quel pazzoide.
La professoressa non sembrò tanto convinta. Finì di leggere le linee guida, poi mise da parte il foglio.
- Bene. Passando ad altro...prima di cominciare a illustrare il programma di quest'anno...
- Non fare caso a lei - stava dicendo Irene in quel momento a Jess.- E' Violet Larabee. Lei e sua sorella Louisa sono due casi umani.
- Non gli unici due di questa scuola, comunque...- ghignò Violet alle loro spalle.
- ...abbiamo una nuova compagna di classe. Jessica Woods. Jessica, vuoi venire alla cattedra e raccontarci un po' di te?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: So che avrei dovuto pubblicare l'intera giornata di lunedì 9 settembre, ma poi mi sono resa conto che erano già quindici pagine e che mancavano ancora i punti di vista di Belle, Roxy, Ella, Louisa e il Lupo, e per quanto non mi piaccia spezzettare e allungare ulteriormente il brodo, credo che capitoli troppo lunghi possano stufare chi legge. Fatemi sapere se volete capitoli più lunghi o se preferite che spezzetti per non fare chilometri e chilometri di pagine.
Il prossimo capitolo sarà incentrato sul pomeriggio, la sera e la notte di lunedì 9 settembre e dal prossimo ancora passeremo a venerdì 13 settembre.
Ringrazio mintheart per aver aggiunto questa storia alle seguite e Aching heart per aver recensito e per le meravigliose immagini su questa storia <3.
Le recensioni, anche critiche, sono sempre ben accette :).
A presto con il prossimo capitolo.
Un bacio,
 
Beauty




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