Ph34r
t3h c4n0n self-ins3rti0n. Prompt jolly per il Fluffathlon di
fanfic_italia, cioè riutilizzare in una nuova fanfiction
quattro
frasi esatte (tranne eventualmente che per tempo verbale, genere e
numero) prese ognuna da una fluffata precedente. Le mie scelte:
- Atrus si
sistemò gli occhiali, mesmerizzato. (Lezioni
siciliane, prima settimana)
- “Io
le ho già lette”, sussurrò. (Ma
non ricordava dove, seconda settimana)
- Perché
stava per dirgli di sì. (Un bacio e
il disgelo, terza settimana)
- A cercare
conferma della sua solitudine, stabilendo che, no, non era rimasto
proprio più nessuno ad abitare quelle mura? (Ultima
tettoia accogliente, quinta settimana)
L'idea
invece è un po' più vecchia e risale a quando mi
sono arresa al
fatto che lo/a Straniero/a non s'era rituffato su Myst appena
tornato/a sulla Terra come avrei fatto io – dando per
scontato di
trovarci i due piccioncini ricongiunti (e ci avrei preso) e di poter
chiedere loro di vivere su un'Era tranquilla per i fatti miei e
poterne esplorare altre (e sarebbe stato un po' più
complesso).
Ora,
la mia Straniera è un'europea che cura scavi archeologici in
zona; è
una donna curiosa, metodica, fissata coi cappelli a tesa larga e
con la cotta per Atrus che io non ammetterò mai
.
E con la cotta per Myst Island che non ho mai negato. Mentre gli
aspetti più sporchi e faticosi dell'avventura passata
sfumano nella
memoria, lasciando spazio solo alla gloria delle Ere e di chi ne ha
scritta buona parte, va da sé che gli anni fra il 1806 e il
1815
sono so emo so angst...
Disclaimer:
Gli
avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare
rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte
né
offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da
intendersi come tributo di affettuosa stima.
Intermezzo:
straniera in patria
“Sei
sciupata”, mi dicono. “Sembri fin pallida,
riguardati.”
“Sarai
mica innamorata?”
“Il
suo cuore è altrove”, sentenziano. “E
non pensa a donarle un
sano rossore sulle gote.”
Certo
che sono sciupata, vorrei rispondere. Perché sto per dirgli
di sì.
Mi
attende ogni sera, immobile, con la solita promessa vergata a chiare
lettere sulla sua copertina: “MYST”. Non offre
altro. Non ne ha
bisogno. Nessuna garanzia di ritorno e nessuna certezza di trovare
ancora qualcuno su quell'isola che ha da tempo perso ogni benedizione
potesse aver accompagnato la sua nascita. Un altro mondo. Solitudine
fin dove il pensiero si stende. Molti mondi.
Resisto
solo grazie alla codardia – e ai sani giri di spago con cui
avvolsi
il libro nel giorno del mio ritorno, quando questa scelta si
presentò
per la prima volta e presi una decisione che speravo essere
definitiva. Non riuscii però a imbavagliarlo.
Ancor
oggi, so che se arrivassi a vedere nuovamente la sagoma dell'isola
stagliarsi sul blu dell'orizzonte allungherei le dita verso
l'immagine e...
Lui è
immobile sul comodino. Io, immobile rannicchiata all'altro estremo
della branda. È la storia di ogni notte.
***
La via
del ritorno è lunga e il sole non risparmia i suoi colpi. Mi
calco
in testa il cappello, sognando fonti d'ombra più
sostanziose. O più
bianche: dover poggiare lo sguardo sulla sua tesa sudicia è
più di
quanto si possa pretendere da una signora. Cammino. Mi basterebbe un
fosso, mi dico, un buco per terra in cui infilarmi a guardare il
cielo finché non si farà blu.
E un
buco per terra è esattamente quello che trovo: una
spaccatura
profonda ai piedi di un vulcano, che mette a nudo ogni strato della
bella roccia che compone queste nostre terre adottive. Una gradita
novità, dopo miglia di suolo crepato da una rete di
cicatrici spesse
quanto il mio mignolo, che poco aiutano a spezzare la monotonia del
percorso.
Un buco
per terra con una scala, per la precisione.
Ogni
tanto, penso, basta chiedere.
*
I
gradini scricchiolano ma non cedono. Benedetti gradini. Scendo sul
fondo, mi siedo nell'ombra e guardo il cielo, respirando un'aria
fresca e umida come il terriccio su cui poggio le mani.
Vedo che
questo luogo è vivo: da un lato il suolo è
fangoso, memoria di una
pozza d'acqua che deve aver resistito dall'ultima pioggia a qualche
tempo fa. L'afa non raggiunge l'erba né la secca come fa con
i
tristi arbusti di superficie.
Vedo che
questo luogo è amato: delle grotte sono scavate nella
parete, a
varie altezze, e un tempo sono state abitate. Ogni porta, ogni arcata
di roccia è intagliata con figure di rampicanti, uccelli e
fiori,
come se il loro scultore non si fosse mai arreso alla desolazione che
lo circondava. Possibile che tanta cura sia stata riversata in una
semplice stazione di via, così al di fuori delle rotte?
Quale
che sia la sua storia, a chiunque si debba l'aver trasformato le
pareti rosse striate in preghiere accoglienti, rispetto e onoro
questa creazione.
E qui,
nel menzionare il rispetto, la storia dovrebbe finire,
perché una
chiazza d'ombra al riparo dal sole torrido non si negherebbe a nessun
compagno viaggiatore, ma il permesso di sconfinare nelle altrui
stanze è merce più rara. Eppure, nonostante le
ginocchia chiedano
riposo prima della tratta finale del cammino, è quello che
faccio.
Cosa mi chiama? Lascio a terra i miei bagagli e mi arrampico sulla
pietra, cerco di comprenderla con le mani prima ancora che con gli
occhi, ripercorro i miei passi e scosto una tenda su cui rossi e blu
un tempo erano esplosi in quadrati e triangoli sempre più
minuti
fino a svanire nel bordo bianco, ora strappato.
Dietro
c'è un letto di pietra, spoglio. Mi allontano in punta di
piedi, ma
non mi fermo.
Perché?
A cercare conferma della mia solitudine, stabilendo che, no, non
è
rimasto proprio più nessuno ad abitare queste mura?
Perché sono
tornata ad essere lontana dai miei simili in un ambiente sconosciuto,
e aprire ogni senso all'ignoto mi fa sentire viva com'ero su quelle
isole lontane e non sono stata più? Ma, al contrario di
allora, non
c'è nulla di razionale in quel che faccio. Ascolto la storia
delle
stanze che percorro, rispondendo a una chiamata che sento aleggiare
solo qui, al riparo dal mondo comune. I muri però parlano
una sola
lingua, quella dell'amore con cui sono stati scolpiti; il tavolo
scavato tace e così le scodelle di terracotta, che riposano
sotto la
polvere di anni. Non le disturbo. In una sala attigua, dei libri
malamente ammucchiati ne parlano un'altra ancora, ma non è
la mia.
Cerco
meglio.
Mi
sistemo gli occhiali, mesmerizzata. Infine, del buon inglese.
Diari.
La vita impietosa di una donna sola. Leggo i suoi giorni e sento che
è mia sorella, figlia come me di un padre, di una madre e
del
deserto. Mi chiedo che roccia nasconda ora le sue ossa.
Era
vedova. Aveva amato molto suo marito.
Suo
marito Aitrus?
La mia
mano aleggia al centro della pagina; trattengo il fiato. Con infinita
cura avvicino un polpastrello e lo sfioro, timorosa, ma non accade
nulla. È solo carta ricamata d'inchiostro, e io una sciocca
che vive
in un sogno.
Ma apro
uno dei libri che avevo scartato e osservo con maggior cura
quell'alfabeto elegante che non è quello dei Greci, che
saprei
almeno leggere, e nemmeno quello dei Russi che condivide alcune
lettere col primo e altre col nostro. Scorro le righe appoggiando una
mano sul cuore e l'altra a tener ferma la testa, che si è
fatta
leggera leggera.
“Io le
ho già lette”, sussurro. Voglio crederci.
E le
ritrovo. Le barchette a guscio di noce. Quella con la vela a
sinistra, quella a destra e quella col trattino.
“Io le
ho già lette”, affermo al vuoto della stanza.
In un
altro mondo. Le ho già lette in un altro mondo, tempo fa.
Erano
scritte sulla lavagna di un'aula arroccata su un lago. Ripetute sui
muri sotto un soffitto stellato. Adornavano un tavolo che era
scrittoio, tempio e altare insieme. La torma di N e di L mutate
passava indistinta sotto il mio sguardo avido di indizi, ma avevo
imparato a riconoscere almeno le barchette.
Le
stesse barchette che ora navigano tranquille sulle pagine fitte di
segni.
Scoppio
a piangere. Qualcosa è iniziato qui – so di aver
capito, anche se
non ho capito cosa e temo che non lo
scoprirò mai.
Un punto
di contatto.
Mi siedo
per terra con la schiena al muro e le ginocchia raccolte, protetta
dal passato ignoto che mi circonda e dal marrone caldo delle pareti,
accogliente come l'abbraccio di una madre. Non so che volto dare ai
fantasmi che si affollano ad osservarmi, così mi limito a
porgere
loro la mano e lasciarmi condurre verso il sonno. Non mi sorprende
che mi consegnino su un porticciolo di legno, mentre le onde
s'infrangono sugli scogli al di sotto e da qualche parte, nella
foschia azzurrina, si sente il richiamo malinconico di un gabbiano.
Se anche
resterò straniera nel mondo al di fuori, ho ritrovato casa.
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