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di Lupe M Reyes
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MAY WE MEET AGAIN
 
“Griffin…”
Lei è ancora a bocca aperta ma le ridono gli occhi ed ogni parte del suo viso riluce come un diamante sotto un raggio di luna. Clarke.
Sto per mettermi a correre quando Raven mi scavalca, già lanciata verso il limitare del bosco.
Finn!”,
grida, gettandosi tra le braccia di un ragazzo con i capelli castani e lunghi, che la fissa sconvolto. Li osservo stringersi, toccarsi, guardarsi. Si passano le mani addosso, come per accertarsi di non trovarsi in un sogno. Rischiano di cadere a terra, tanta è l’agitazione che li ha scossi.
Quello è Finn, dunque. Immagino che il cuore di Raven stia per esplodere. È quel che farebbe il mio se ritrovassi John. È quello che farà quando ritroverò John.
“Foer!”
Clarke mi chiama, risvegliandomi. Il sorriso che le rivolgo dev’essere così enorme che mi fanno male le guance.
Le corro addosso e ci abbracciamo di slancio. Urliamo come due ragazzine e non la smettiamo di lasciarci, studiarci, appoggiarci le mani sul viso e i capelli e le braccia, per poi tornare a avvinghiarci come pazze. Non ricordo quand’è stata l’ultima volta che sono stata così felice. E Clarke mi guarda con un’espressione che non le ho mai visto addosso. I nostri cuori battono così forte che riusciamo a percepire i battiti dell’altra attrverso le vene delle mani che ci stringiamo a vicenda. Spesso si confondono, andando all’unisono.
È più bella di come me la ricordassi. Più colorata e ancora più luminosa. Scopro che ha pagliuzze d’oro nelle iridi e che la sua pelle è così chiara che posso intravedere le linee verdi e azzurre che le percorrono l’incavo dei gomiti e i polsi. La luce del sole le dona.
“Ma come hai fatto ad arrivare qui? L’Arca sta già evacuando le…?”
“No. No, ci siamo solamente noi due. Siamo arrivate su un… mezzo autonomo.”
Clarke solleva un angolo della bocca.
“Mezzo autonomo?”
“Raven è un ingegnere e un meccanico.”,
faccio, indicando la mia amica con un cenno del capo, come se questo spiegasse tutto.
Clarke si volta e di scatto torna a guardare me. Raven sta baciando Finn.
“Oh, Griffin!”,
urlo di nuovo, gettandole le braccia al collo. Clarke ricambia con meno energia di poco fa.
Quando torniamo faccia a faccia, scopro che la sua è spenta. Le sopracciglia le si increspano come sempre le succede quando qualcosa non va, quando qualcuno sta male, quando a me inizia a mancare il fiato. Le tocco una spalla con cautela.
“Ehi, va tutto bene?”
Lei scuote la testa con energia, sbatte le palpebre più volte, asciugandosi lo sguardo.
“Sì, sì, certo. Sono solo… sconvolta. Sei qui! Foer!”,
esclama, sforzandosi di alleggerire il tono. Ma prima che io possa fare qualsiasi domanda lei mi porge la mano e mi fa cenno di seguirla.
Intravedo un bracciale metallico scintillare al suo polso. I miei libri!
“Vieni, torniamo insieme al campo.”
“Campo?”
“Abbiamo costruito un campo base.”
Di sottecchi, noto Raven e Finn che stanno bisbigliando, fronte contro fronte. Io e Clarke iniziamo a camminare, dirigendoci verso il bosco. Percepisco dei passi alle nostre spalle: ci hanno messo un po’ per accorgersi che ci stavamo spostando, ma ci seguono.
“Hai costruito un campo base?”
“Oh, no. Il merito non è mio. C’è questo tizio che…”
“Sì, mi immagino come il sergente Griffin si sia tenuto in disparte quando c’è stato bisogno di organizzare e dirigere…”,
la prendo in giro. Lei sorride appena.
“Qui non sono il sergente Griffin.”,
mi spiega, mentre entriamo tra le fronde. Poi all’improvviso alza la voce, continuando a guardare dritto davanti a sé:
“Qui mi chiamano Principessa.”
Dietro di noi Finn inciampa.
Io invece scoppio a ridere:
Principessa? Tu? Ma scherziamo?”
Clarke fa spallucce e chiude gli occhi, come per dirmi “Che posso farci?”.
“Sì, diciamo che quelli del tuo anello si sono fatti sentire, all’inizio… Con i privilegiati… Il capo della rivolta è uno dei tuoi.”
“Il capo della cosa?”
Clarke prosegue il suo racconto:
“All’inizio non è stato semplice andare d’accordo. Senza un’autorità, un adulto… Non eravamo abituati a gestirci da soli, figuriamoci a sopravvivere su un pianeta ostile, e così diverso dall’Arca…”
“Tipo Il Signore delle mosche. Ragazzini senza guida che si scannano per essere il capo e i deboli che soccombono.”
Lei mi accarezza il braccio per un momento.
“Blair e i libri. Siamo di nuovo sull’Arca.”
Io sto attenta al suo viso, mentre lei fissa il percorso.
“Sì, vedi... Ci sono stati dei… delle tensioni, all’inizio. Ora va meglio. Siamo più uniti. C’è cooperazione, anche se non andiamo matti gli uni per altri siamo riusciti a capire cosa conta e lavorare insieme… Nonostante tutto.”,
mormora, prima di schiarirsi la voce con energia.
Raven e Finn continuano a parlare tra loro, a qualche metro di distanza da noi. Vorrei voltarmi ma Clarke mi fa andare ad un ritmo che non mi permette distrazioni. Rischio di inciampare nelle rocce ad ogni passo. Ed è guardandomi gli stivali da trekking che mi dico che non posso più aspettare. Il ragazzo che me li ha regalati per scherzo mai avrebbe potuto immaginare mi tornassero così utili un giorno. Non fosse stato per John, starei scivolando sul terreno accidentato con le mie ballerine sfilacciate. E io so che Clarke non l’ha mai conosciuto, ma è possibile che…
“Griffin, sai se…?”
Ma lei mi interrompe subito:
“Vedrai il campo, è straordinario. Abbiamo una dispensa, un dormitorio, una recinzione e…”
“Una recinzione? Per proteggervi da che cosa?”
Clarke mi scocca un’occhiata in tralice. L’aria umida del bosco mi fa rabbrividire.
“Ci sono molte cose che non sai.”
 
Clarke ci conduce al campo base. Hanno eretto palizzate di legno alte tre metri. Non posso fare a meno di chiedermi come ci siano riusciti. Hanno anche loro una Raven che li salva per qualsiasi cosa?
“Cosa sono queste?”
Noi due ci siamo fermate e Raven e Finn ci hanno raggiunti. La ragazza sta indicando delle montagnette di terra appena fuori dal campo, con dei fiori intrecciati abbandonati ai piedi.
Finn le risponde a bassa voce.
“Sono tombe.”
Ci ammutoliamo tutti di colpo. 
Non siamo abituati al concetto di tomba. Sull’Arca non esistono cimiteri. Quando muori vieni espulso e il tuo corpo si disintegrerà nello spazio, senza rubarne ai vivi. A noi restano delle targhe in memoria. Ma ora siamo sulla Terra e i morti vanno seppelliti. Mi domando con orrore chi se ne sarà occupato.
“Chi sono?”
“Ci sono i nomi.”
Mi avvicino alle tombe con un groppo alla gola. Il battito del cuore mi rimbomba nel costato, riesce a torcermi i polmoni. Inscritti su dei sassi, ci sono cinque nomi.
Atom. Un nome che mi suona del tutto nuovo.
Due tombe vicine portano lo stesso nome, James. Non conosco nemmeno loro.
Wells.
Mi volto di scatto verso Clarke, ma lei sta scientemente guardando altrove.
Wells Jaha era nei Cento?
Wells Jaha era in isolamento?
Perché? Com’è stato possibile?
Lui è il figlio del Cancelliere, l’uomo che ha fatto imbarcare i Cento.
Allora Abby Griffin aveva ragione. Erano davvero convinti di fare la cosa giusta. Altrimenti perché mandare qui Clarke e Wells, i loro stessi figli?
Torno a fissare il mucchio di terra smossa davanti a me. I fiori intrecciati sono piccoli e bianchi. Chissà se sono state le mani di Clarke a comporli. Le stesse dita da artista che hanno tenuto in mano i pennelli che Wells le ha inviato in prigione.
Wells è morto. Il figlio di uno degli uomini che odio di più è morto. Ed è morto per mano sua. Lui li ha mandati sulla Terra e suo figlio è morto per questo.
Non riesco a capacitarmene. È tutto così assurdo che non posso ragionarci lucidamente ora. E soprattutto devo parlare con Clarke. Wells era il suo migliore amico da quando erano bambini. Era il suo…
Controllo l’ultima tomba, con lo stomaco ritorto.
Charlotte.
 
“Charlotte Wilkes, 12 anni. Credi la manderebbero sulla Terra?”
 
La mia stessa voce mi risuona nelle orecchie. È la bambina di cui avevo letto il nome sulla lista dei minorenni detenuti sull’Arca. Avevo detto a Bellamy che mai e poi mai avrebbero inviato una dodicenne sulla Terra. E invece… Invece Bellamy aveva ragione, di nuovo. Charlotte aveva raggiunto la Terra, e lì era morta. Come? Perché? Cos’ha ucciso queste cinque persone?
Oppure… chi?
“Quella è una tomba vuota.”,
mi informa Finn, che nel frattempo si è avvicinato a me. Clarke e Raven sono rimaste in disparte.
Trovo molto dolce il suo gesto di starmi accanto. Ho l’impressione che il suo carattere si accordi bene ai suoi occhi caldi e gentili.
“Vuota? Perché?”
“Non abbiamo ritrovato il corpo.”
“Come siete certi che sia morta, allora?”
Finn mi guarda e rimane in silenzio. Scuote la testa leggermente e mettendomi una mano dietro la schiena mi invita ad allontanarci, a tornare dalle ragazze, ad entrare nel campo.
Comincio a pensare che ci siano davvero troppe cose che non so.
 
Appena varco l’ingresso, incrocio un altro volto conosciuto. Gli occhi neri, allungati e buoni, dal taglio orientale, mi attraggono come una calamita e mi rendono impossibile notare altro, vedere cosa c’è attorno a me.
Lo chiamo e lui si volta. Ci mette qualche istante a riconoscermi.
“Monty Green!”,
urlo di nuovo, alzando un braccio in aria.
Lui mi raggiunge di corsa, inciampando ogni tre passi, completamente sotto shock.
Blair? Cosa…? Ma che diavolo…?”
Lo abbraccio di slancio, anche se non ho mai avuto tanta confidenza con lui. Mi stacco prima ancora che lui possa rispondere al mio gesto.
Finalmente ho trovato quel che cercavo: qualcuno che lo conosce.
“Dov’è John?”
Monty balbetta. Balbetta e mi guarda con la faccia da cane bastonato che sull’Arca riservava alle guardie di sorveglianza, quando alla dogana tra anello e anello gli chiedevano: “Niente da dichiarare?”. Si rivolge a me con la stessa ansia malcelata, lo stesso patetico tentativo di dimostrarsi innocente anche nell’aspetto, oltre che nelle parole.
“Lui non c’è.”,
dice, finalmente. E il mio cuore salta un battito.
“Non era sulla navicella?”
“No, lui c’era ma… Ora non è qui al campo.”
“Ma che significa?"
"Blair, io non..."
"Monty, parla!”
Ora lo sto scrollando con forza; lui si lascia strattonare senza reagire. Al nostro fianco, un ragazzino con degli enormi occhiali da pilota sulla testa e i capelli spettinati, alto e dinoccolato come un giunco sbilenco, si avvicina con apprensione. Mi sembra di averlo già visto, forse è uno dei tossici di Monty. Resta a qualche passo di distanza, ma mi tiene d’occhio, allarmato dalla mia foga. Alle mie spalle, mi sembra di sentire Clarke chiamare il mio nome.
“Murphy è stato bandito.”
Mi serve qualche istante per rendermi conto di aver capito bene. Bandito?
“Cosa diavolo vuol dire che è stato bandito?”
“Che non può più tornare al campo.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti verrà giustiziato.”
 
Siamo ancora sull’Arca, non è cambiato nulla. Bandito equivale a espulso. Nel bosco invece che nello spazio, ma infrangere le regole ottiene lo stesso trattamento. Ci stiamo facendo tra di noi quello che il Governo ha fatto sulla nostra pelle. Non ci posso credere. Non abbiamo imparato niente. Non ci siamo evoluti. Siamo Kane, siamo Jaha.
 
Una rabbia cieca mi appanna la vista.
“Monty, dimmi chi è stato a fargli questo.”
Lui non ha il tempo di replicare che un’altra voce dietro di me mi costringe a voltarmi. 
In mezzo alla polvere biancastra del campo riconosco una figura alta, il viso sporco e i riccioli in disordine. Lo stomaco mi si contrae al contatto con i suoi occhi scuri.
“Bellamy…”
Non so se l’ho detto davvero o ho soltanto mosso le labbra. So che lui mi guarda ed è già oltre la sorpresa di avermi lì, come se la mia presenza sulla Terra non fosse un miracolo bensì desse ragione alla parte di lui che ha sempre saputo ci saremmo rivisti.
“Ce l’hai fatta.”,
dice infatti, schiudendosi in un sorriso che è solo per me.
In un istante è come se gli ultimi dieci giorni non fossero mai esistiti. Ci incontriamo ed è come tornare nel laboratorio di Raven, ad incrociare gli occhi al di sopra del tavolo da lavoro del meccanico, a dirci che è un caso, a raccontarci una bugia. La luce del sole, come per Clarke, ridefinisce le sue linee e le ombre del suo corpo. Le lentiggini si sono accentuate moltissimo.
Gli volo incontro, mentre lui resta fermo ad aspettare il mio abbraccio. Che non arriva.
Lui cede per un momento alla delusione di capire che non è per lui che ho voglia di correre:
“Bellamy, presto, devi aiutarmi! John è stato cacciato, Dio solo sa da quanto tempo è là fuori da solo e…”
Lui deglutisce, io a malapena noto quanto sia cambiato. Sembra più vecchio, questo sì, riesco a vederlo. In confronto all’uomo che ho di fronte, il Bellamy dell’Arca sembrava un ragazzino.
“Bellamy, mi senti? Dobbiamo muoverci! Prendi un…”
Lui mi chiama, e per fermarmi deve farlo due volte.
“Che c’è?”
Lo guardo e mi accorgo di non riconoscere l’emozione che gli dissesta il volto. Non gliel’ho mai vista addosso. È come se stesse per fare qualcosa di orribile e già si sentisse in colpa per gli effetti che avrà. Come se sapesse che uccidermi è la cosa giusta da fare, l’unica che può fare.
“Bell…”
Non ho mai abbreviato il suo nome, mai scelto un nomignolo per lui. Mi svicola dalle labbra senza permesso, un minuscolo fiore azzurro nel deserto, che fa luccicare per l’ultima volta la nostra intimità istintiva e naturale, prima che lui, con le sue parole, recida ogni bellezza che ci univa. Il punto di massima vicinanza che sperimentiamo adesso, reso evidente dal mio Bell appena sussurrato, coincide con l’inizio della fine per noi due. 
Bellamy prende fiato e lì in mezzo al campo che brulica di ragazzini al lavoro, sotto lo sguardo distante di Clarke e senza che nessuno possa davvero sentirci, mi rivela tutto quello che è successo sulla Terra.
 
In un solo gesto mi volto, sollevo il braccio e sparo. Ad altezza uomo.
Il colpo mi fa barcollare. Non avevo mai conosciuto l’effetto di una pistola, il rinculo, l’esplosione, le scintille, il fumo, l’odore di bruciato.
Al di sopra della canna nera il viso di Bellamy mi fissa sconvolto. Mi grida contro:
“Sei impazzita?”
Non l’ho mai visto arrabbiato e ammetto che la ferocia che gli strasfigura il volto riesce a spaventarmi. Non ho intenzione di dargli questa soddisfazione però, quindi mi limito a fare spallucce con sufficienza.
“Che c’è? Ti ho mancato.”
Lui è ancora con gli occhi strabuzzati e il respiro mozzato. Rimetto l’arma nella cintola e mi giro, continuando il mio percorso attraverso la boscaglia.
“Blair!”,
mi chiama, come farebbe un padrone con il cane. Lo ignoro.
Lo sento muoversi, corrermi dietro.
“Blair, metti la sicura alla pistola se la porti addosso. Non te l’ho data perché ti ammazzassi…”
“Me l’hai data perché era il minimo che potessi fare.”
“Non mi hai lasciato molta scelta.”
Cerca di toccarmi ma lo scanso in fretta. Stiamo continuando a muoverci anche se lui tenta di farmi almeno rallentare.
“Potevi uccidermi.”
“Ma non l’ho fatto.”
“Potevi davvero uccidermi."
“Non sapevi fossi tu, va bene?”,
sbotto, accelerando ancora.
“Altrimenti avrei preso meglio la mira.”
"Vuoi abbassare la voce, almeno? Vuoi che ci trovino e ci ammazzino?"
“Mi stavi pedinando?”
“Ero preoccupato. È pieno di Terrestri, qui intorno…”
“Io non ho bisogno di una scorta, guardia scelta Blake.”
“Vuoi fermarti un momento?”
“Non ho niente da dirti.”
“Puoi ascoltarmi, almeno?”
“Vattene, Bellamy. Non costringermi a spararti addosso di nuovo.”
All'improvviso lui ne ha abbastanza. Avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento, ma ha sperato fino all'ultimo che l'avrei assecondato di mia iniziativa. Forse per la prima volta Bellamy Blake si sbaglia su qualcosa. Allora si arrende e sbuffando esasperato mi afferra per un braccio, trattenendomi con la forza. 
“Cosa?”,
grido. Cerco di divincolarmi, invano. Più tiro e più lui stringe.
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace?”
Gli metto la faccia sotto il naso. Nei suoi occhi si scuote un mare nero in tempesta. Non siamo mai, mai stati tanto vicini. Sento il suo fiato sulla bocca.
“Fammi chiarire una cosa. Se John dovesse essere morto, farai la stessa fine.”
So che non mi crede capace di una cosa del genere. Ma anche Jaha mi aveva sottovalutata.
E nonostante pensi che la mia sia una minaccia a vuoto, Bellamy tentenna. Chiude le labbra, cerca di tenerle lontane dalle mie. Ma per parlare è costretto ad aprirle ancora, a respirarmi addosso.
“Blair, come potevamo immaginare che fosse stata Charlotte ad uccidere Wells? Eravamo certi fosse stato Murphy. Ti ho spiegato come sono andate le cose. Loro due avevano... Murphy aveva già provato a... Lo aveva minacciato, davanti a tutti. Quando abbiamo ritrovato il corpo di Wells, con il coltello di John accanto... Bandirlo era un modo per salvarlo, lo avrebbero…”
Lo schiaffo che gli tiro gli fa voltare il viso.
“Tu hai cercato di impiccarlo!”
Il secondo lo colpisce con ancora più energia. Lui chiude gli occhi all’impatto della mia mano sulla guancia e cerca di inspirare con il naso, a fondo.
“Tu mi avevi promesso che l’avresti tenuto al sicuro! Te lo ricordi?”
Riporta gli occhi sui miei prima che riesca a picchiarlo di nuovo.
“Lui è la mia famiglia! E tu hai cercato di ucciderlo! Dopo tutto quello che abbiamo passato per salvarli! Dopo tutto quello che ho fatto per te e Octavia! Dopo che avevi promesso…”
Sto ringhiando come se mi stessero torturando. Bellamy non ha mai smesso di tenermi per il braccio, mentre quello libero lo prendeva a schiaffi. Si prende tutta la mia furia senza reagire. E so che non serve, perché basta tutto il resto a farglielo capire, ma gli grido lo stesso che lo odio.
“Lo sapevi, lo sapevi che non ti avrei mai perdonato niente del genere, e lo hai fatto lo stesso. Come hai potuto? Non te ne importa davvero niente di me?”
Vorrei andarmene ma i suoi occhi mi inchiodano sul posto. La rassegnazione che ci leggo dentro riesce a far soffrire anche me. È un paradosso, ma non posso fare a meno di sentire ciò che sente, di accordarmi alle vibrazioni del suo suono. 
“Blair…”
La sua voce gorgoglia, profonda, spezza il mio nome in sillabe doloranti. 
Presi dal litigio, ci siamo estraniati dal mondo circostante. Perciò non ci siamo minimamente accorti del rumore che deve aver fatto la persona che, a qualche metro di distanza da noi, esclama con decisione:
“Blake, se la tocchi stavolta ti ammazzo davvero.”
Mi volto di scatto e ci metto qualche secondo per individuare la fonte della voce. La figura è carponi, in terra, e stenta a tenere dritta la testa. Ciò non gli ha impedito di minacciare di morte qualcuno. E al mondo, e in tutto l’universo, esiste solo un ragazzo capace di essere tanto stupido.
Mi precipito su di lui e inciampo crollando al suo fianco. Lo costringo a guardarmi in viso, prendendoglielo tra le mani, sollevandolo alla mia altezza. È completamente immerso nel sangue. Gli occhi, enormi, lucidi, con la loro unica sfumatura verde azzurra, mi passano da parte a parte, spiccano in mezzo al sangue raggrumato, nerastro, rosso e luccicante solo sulle ferite ancora aperte.
“John…”
Lo chiamo dieci, cento, mille volte. È assurdo che io sia uscita nel bosco per cercarlo e non riesca a realizzare di averlo trovato veramente.
Sono sette mesi che non lo vedo. Ci hanno separato le mura di acciaio delle prigioni, migliaia di chilometri di spazio profondo e troppo, troppo, troppo tempo. Ma ogni battito del mio cuore ha risuonato nelle sue vene e ogni suo respiro ha riempito i miei polmoni. E solo ora che siamo pelle a pelle lo sento veramente: quanto poco hanno contato quella manciata di minuti, quel lembo di universo tra di noi.
“Mostro…”
Lui fa fatica a tenere gli occhi aperti ma fa di tutto per riuscirci. È stremato. Dondola la fronte per la stanchezza. Eppure un’ombra di sorriso gli increspa la bocca scorticata.
“Sei qui.”,
dice, passandosi la lingua sulle labbra rotte. In quelle due parole risuona l’eco di un sollievo così intenso che mi strappa un gemito amaro.
“Sono qui, John, sono qui. Dove altro dovrei essere?”
Infilo una mano tra i suoi capelli, senza riuscirci fino in fondo. Rischio di strapparglieli, avvinti come sono dal sangue e dal fango. Sono così lunghi, per la prima volta dopo anni. 
“Hai di nuovo i capelli.”,
commento in un sorriso, cercando di tenere a freno il tremore delle mani. Mi asciugo in fretta il sangue sui pantaloni mentre lui mi risponde con la sua smorfia da pirata in licenza, che il sangue non riesce a sciupare:
“Stai uno schifo.”,
mi dice, mentre a fatica sposta una mano sulla mia guancia, sporcandomela di terriccio scuro e umido. La mia carne riconosce il suo tocco, risponde con una pioggia di spine dolorose: le singole cellule del mio corpo stanno cercando le sue. Sono a casa.
“Tu sei un fico pazzesco, invece.”
Lo sostengo per le spalle, mentre lui cerca di aggrapparsi alla mia giacca. Non riesco a decidere dove soffermare più a lungo lo sguardo, su quale millimetro del suo viso. Gli occhi mi trascinano dappertutto, inquieti, come se avessi bisogno di imprimermi per sempre le sue linee nella memoria, nelle ossa.
“Non c’era bisogno che scendessi sulla Terra per me, so cavarmela da solo.”
“Lo vedo.”
“E la lettera che mi hai scritto era patetica. Roba da romanzetti rosa.”
Continuo a toccargli il viso, cercando di pulirlo in qualche modo. La terra sembra esserglisi calcificata addosso, dappertutto. Intravedo la sua pelle solo a tratti. La maglietta che indossa è strappata, logora. Non sembra squarciata per l’usura, sembrano tagli.
Anche lui ha notato ciò che indosso io.
“Quella maglia è mia.”
“Te la stavo riportando.”
Quando il braccio gli cede e smette di accarezzarmi, la sua mano mi cade in grembo. Per un momento non mi rendo conto davvero di ciò che sto guardando. Prima di oggi non ho mai visto i moncherini che restano sulle falangi quando a qualcuno vengono strappate le unghie. Un pus giallognolo si è rappreso tutt’intorno. Solo ora mi rendo conto dell’odore. John sa di decomposizione.
Prima di abbandonarsi sul fogliame, lui si sforza di sorridermi di nuovo. I suoi occhi brillano e il fiume, il sole, l’erba, l’aria, il cielo – tornano a sbiadirsi come sulle immagini fotografate dell’Arca. Il suo sguardo brucia la realtà intorno a me e ristabilisce la gerarchia della bellezza: è lui la più straordinaria meraviglia sulla Terra.
“Sto bene, Blair. Non fare la drammatica.”,
mormora, prima di perdere i sensi.

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26/08/17
Come sempre un pensierino alla cara Pixel, grazie alla quale questa storia viaggia con energia doppia.
Capitolo (tanto) difficile, spero di essere riuscita nell'impresa! Ho il fiatone, praticamente.
"May we meet again"... quale titolo migliore per il capitolo delle reunion? :)
A presto!,
LRM




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