Tutto ciò che viene dopo

di istherelifeonmars
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Note: ho finito finalmente questo parto/capitolo di cui in realtà avevo già pronti degli spezzoni, ma vi giuro: è stato terribile.
Ci ritroviamo qui con Eean, visto che gli è appena nato un figlio e- be', mi sembrava il caso di dedicarli uno spazietto. Dopo questo intermezzo si ritornerà con il tema musicale e con il gruppo formato dai nostri cinque disaddattati. La canzone di oggi è, appunto, Falling, e in realtà non seguendo i Bastille non so se questa versione sia loro, sia una cover, o quel che è. Ma insomma: ascoltatela. Specialmente leggendo la parte finale, quella il cui punto di vista è quello di Trav. Che poi, oltre ad avere un che di rilassante, ha pure un'introduzione da mettere i brividi e che si sposava perfettamente con il capitolo. Quindi niente, l'ho riscritta come citazione.
La smetto di parlare e vi ringrazio per le recensioni, scusandomi per non aver risposto ma sono appena tornata da una mini-vacanza e mi sto riprendendo un po'. Sob.
A presto!




 


Falling

 



"My God, are we gonna be like our parents?"
"Not me...ever"
"It's unavoidable, it just happens."
"What happens?"
"When you grow up, your heart dies."
"Who cares?"
"I care."


Londra, Agosto 2009

Tengo sempre un pacchetto di sigarette di scorta. Mi trascino quest’abitudine da quando ho tipo quattordici anni, quando Travis fumava ancora di più di quanto non faccia ora e buttava via pacchetti di Camel come se non fossero nulla. Ne tengo uno nel cruscotto dell’auto, uno in camera mia e uno nella custodia del basso, ed ora, visto che mi sono ripromesso di presentarmi da Kelly in modo accettabile – non che una sigaretta mi dia alla testa, ma è una questione di coerenza – giocherello solamente con quel pacchetto, stringendolo tra indice e pollice, per poi farlo ruotare distrattamente.
Sono ancora all’interno del pick-up, che ormai è diventato il mio habitat naturale, un braccio appoggiato al finestrino aperto, l’altro lasciato sul grembo. Sono nervoso.
Nervoso.
Nervoso.
Il signor Rogers dice che in questi casi devo focalizzarmi su una cosa sola, una semplice, ma il signor Rogers dice anche tante di quelle cazzate che ci potrebbero scrivere un libro. Non so nemmeno perché ci vado, in realtà, da quello. I miei hanno insistito fino alla nausea, ripetendomi che continuare la terapia è praticamente obbligatorio e che se mi non troverò con quello psichiatra, ce ne sarà pure un altro. Eppure il problema non è il signor Rogers o la signora Cunningham o chiunque altro individuo dotato di laurea in psichiatria, fosse quello. Il problema è che io mi sento sano – anche se so che non lo sono –, sento che i miei sono alti e bassi. E chi non ce li ha? Probabilmente sono molto più sano di tutta la gentaglia che frequenta lo studio – tipo quello della cocaina e della figlia-che-in-realtà-non-era-quella-vera
– non che ci voglia molto. Certe volte penso che siano gli altri a farmi sentire strano, o malato – che poi una malattia nella testa non è una malattia vera perché finché una cosa non la vedi come fai a dire che esiste.
E comunque me ne sto prendendo cura comunque, sto facendo come mi dicono gli altri, che sia la volta buona?
Stai tergiversando, Eean.
Devo concentrarmi su altro, anche perché il signor Rogers non è proprio la persona a cui vorrei pensare ora. Potrei elencare una buona dozzina di motivi, ma il fatto è uno solo e semplice: quando c’è Kelly, c’è Kelly e non si deve pensar ad altro. Mi basta così. Apro la portiera sgangherata e mi decido ad uscire, percorrendo a passo lento la strada che mi porta a casa Black. Un po’ vorrei correre, un po’ vorrei scappare via; ci vuole coraggio a fare una cosa del genere. E io non son mai stato un asso nel coraggio, come in tante altre cose. Perché io e Kells non stavamo nemmeno insieme quando lei è rimasta incinta, e non stiamo insieme nemmeno ora, anche se io lo vorrei davvero. Però io sono diventato padre – oddio – e lo stomaco mi si attorciglia al solo cazzo di pensiero, perché so per esperienza diretta che ci sono migliaia di modi per fallire. Continuo a pensare che questa è l’unica mia opportunità di fare qualcosa di buono e a tempo stesso che questo sia lo sbaglio più enorme della mia vita. Ma almeno sarà uno sbaglio mio e mio soltanto, non di mio figlio – lui avrà una vita felice, deve averla.
Mi infilo le mani nelle tasche dei pantaloni beige, quelli buoni, mentre mi mordo l’interno della guancia. Vorrei almeno una sigaretta, almeno quella.
Sii affamato, sii sobrio.
Suono il campanello con la punta dell’indice, per poi ritrarre subito la mano come un bambino che ha appena rubato qualcosa al banco del mercato, anche se io da piccolo in un mercato non ci sono mai stato e di conseguenza non dovrei sapere com’è che funzionano ‘ste cose.
Poi il tempo si dilata: i secondi sono anni e i minuti sono secoli, stringo i pugni nelle tasche e vorrei che tutto finisse e a tempo stesso che tutto iniziasse. Vorrei anche vomitare, credo che questa cosa sia inclusa nel pacchetto.
Poi la porta di casa si apre con uno sferragliare di chiavi: è Clara, la sorella minore di Kelly, ad aprirmi. Sono incredibilmente simili, con il volto appuntito, il naso leggermente aquilino e la carnagione olivastra. 
«Ciao.»
«Ciao.»
«Sono qui per—» inizio a dire stupidamente, come se lei non lo sapesse, perché son qui. Mi fermo, deglutisco: «Sì, insomma. Per vedere come sta Kelly.»
Lei mi sorride timida, e grazie a Dio che lo fa perché avevo davvero bisogno di qualcuno che mi sorridesse. Apre ancora un po’ di più la porta, così che possa entrare nella perfetta villetta dove i Black vivono; qui ci sono stato solo un paio di volte e in quel paio non mi sono preso molto tempo per osservare l’arredo. Comunque non mi soffermo su quello nemmeno adesso: registro un attaccapanni alla mia destra e la porta del salotto poco più avanti: mi giro piuttosto a sinistra, dove c’è lo specchio che riflette la mia faccia terrorizzata. Ho la pelle così pallida e tesa da far paura e due enormi cerchi blu sotto agli occhi che oggi, al posto di esser verdi, sembrano essere due puntini neri in mezzo a tutto il bianco della pupilla. L’unica cosa che faccio per mettere a posto questo schifo che sono è stringermi l’elastico della coda che mi son fatto per l’occasione – anche se so che prima o poi i ricci rossi faranno quel cazzo che vogliono loro e sembrerò ancora più barbone di ora.
Vorrei poter essere un supereroe, adesso, vorrei sapere che cosa fare.
Prima di poter parlare si apre la porta del salotto e ne esce suo padre – il padre di Kelly. Mi squadra stizzito, vorrei dirgli che anche io spero che il bambino non prenda da me.
«Buongiorno.» gli tendo la mano con il sorriso più affabile che ho nel repertorio, lui me la stritola «Clara mi ha detto di non venire all’ospedale, perché Kelly non si era ancora ripresa bene. Nel senso, lo capisco, cazzo. Ci credo. Però quando mi ha detto che l’avevano— li avevano dimessi, sa, ho pensato di venire qui. Anche se, sì, insomma, mi dispiace per il ritardo.» vomito parole a caso per riempire quel silenzio opprimente e quello sguardo che conosco bene, quello sguardo che ti fa capire che non vali un cazzo di niente. E sì, insomma, anche io lo so di non valere tanto.
Lui non si scompone, annuisce, dice: vuoi un tè?
Al momento preferirei qualcos’altro ma credo che la cosa giusta sia dire di sì, che voglio un tè, anche se non mi piace per niente. Anche se vorrei dire tutte quelle cose che mi tengo dentro, anche se vorrei saltare tutti questi convenevoli.
Dico sì.
Non so cosa succede nell’intermezzo, mentre me ne sto seduto a bere tè alle undici del mattino con i signori Black che mi squadrano dall’alto in basso. Vedo immagini confuse e so che mi sto scavando la fossa da solo a sparare tutte le cazzate che sto sparando. Poi scatta qualcosa, una scintilla.
«Kelly è in camera sua, di sopra, con Andrew.» dice la madre, seduta dall’altra parte del tavolino da caffè che ci separa. Sembra invecchiata dall’ultima volta che l’ho vista, anche se sono passati pochi mesi. Quando dice Andrew, comunque, è come se qualcuno mi accoltelli da sotto il tavolo: è la volta buona in cui sto zitto e la guardo con gli occhi sbarrati – mio figlio si chiama Andrew, porca puttana. Io ‘sta cosa nemmeno la sapevo, comunque, perché Kells non ha voluto parlarmene; in realtà non mi ha mai parlato di niente.
A questo punto vorrei piangere, anche se non so nemmeno il perché.
Mi alzo in fretta e furia e saluto stupidamente con la mano: allora vado a salutarla, dico, grazie mille.


 
Londra, Gennaio 2009

Sono coricato sul suo letto, le nocche della mano a sostenermi il mento: da quest’angolazione riesco a vedere il televisore della camera di Kelly perfettamente. È stata lei a chiamarmi e a chiedermi di venire qui, in casa sua, mi ha detto che mi doveva parlare.
Quando qualcuno ti dice qualcosa del genere – dobbiamo parlare, Eean, ti devo dire una cosa – mi viene sempre questo nodo allo stomaco e non riesco a stare fermo, divento nervoso, irascibile, insomma, tutte le cose che di solito non sono. Poi sono arrivato qui a casa sua e lei non mi ha detto niente, anzi, mi ha detto: guardiamo un film. E mentre stiamo qui coricati sul letto a vedere una commedia inglese degli anni Novanta ho iniziato a sentire qualcosa all’altezza del petto. Speranza.
Vorrei che mi dicesse com’è che sono le cose tra noi – stiamo insieme? Siamo solo amici? Siamo qualcosa nel mezzo? – perché sono mesi che vivo sul filo di questo rasoio – è così che si dice? Che cazzo ne so – e voglio sapere. Per una volta mi merito qualcosa, mi merito di saperlo.
«Senti,» mi dice, e io sobbalzo e capisco, in qualche modo, che è arrivato il momento «ti devo dire una cosa.»
Deglutisco e per una volta non dico cazzate, me ne sto zitto e mi siedo per bene, appoggiato alla testiera, incrociando le braccia.
«È che non so come.» continua.
La osservo di sottecchi, vorrei dirle che non c’è da preoccuparsi, che qualsiasi cosa, io sarò sempre qui, con lei. Questo è il mio posto, penso, non me ne andrei da nessuna parte. Ma non dico niente perché so che la disturberei solo, e allora mando giù altra saliva per la gola che mi è improvvisamente diventata secca.
«Avevo questo ritardo, e allora ho fatto un test, un paio di visite, sì, per essere sicura.» pausa «Sono incinta.»
Le ultime due parole sono coperte dalle mie risate, sento finalmente un peso che mi si alza dal petto e anche se Kelly sta solo scherzando sono così contento che non mi voglia lasciare. Poi la guardo in faccia: sta piangendo, è seria. Sorrido ancora, non capisco.
«Non—»
«Perché diavolo ridi? Che bastardo che sei.» e sguscia via dal letto e si allontana e sento un vuoto che si allarga all’altezza del cuore.
No, no, no. Non è così che doveva andare. Non si può ripetere tutto di nuovo.
Mi allungo per abbracciarla, visto che non so che altro dire, e lei si allontana di nuovo e capisco, in questo momento, che se ne è andata per sempre. È una sensazione così forte che non puoi ignorarla.


 
Londra, Agosto 2009

La camera è quella di un’adolescente cresciuta troppo in fretta: sulle pareti ci sono poster dei suoi gruppi preferiti, su un comodino ci sono rossetti e profumi, qualche libro di scuola, sotto la finestra c’è una culla bianca, probabilmente usata. Pannolini, giochi per bambini. 
Io invece me ne sto congelato sulla porta, in attesa di capire che cazzo fare. 
Lei è seduta sul letto, ci guardiamo ma non diciamo niente: non c’è niente da dire. Ma io i silenzi non li sopporto e li devo riempire per forza con qualcosa, e quindi: «Come stai?»
«Abbastanza bene, mi son ripresa in fretta, hanno detto.»
«Sono contento.»
È da sabato sera che volevo precipitarmi qui, vedere lei e il bambino, ma ora che me ne sto appoggiato all’uscio di questa camera non so nemmeno che cosa fare. Ora è tutto reale, non è solo più una favoletta che mi racconto prima di andare a dormire.
Non doveva finire così, mi dico. Non dovevo essere io quello ad avere un figlio a diciannove anni, e non tanto perché ho paura di prendermi le mie responsabilità o cazzate varie, è che io non posso fare da padre.
La consapevolezza mi colpisce come uno sparo.
Kelly, anche se non sa niente, deve averlo capito mesi fa, decisamente prima di me.
È che ho paura di diventare come i miei genitori, è che ho paura che quel bambino finisca come sono finito io, anni fa, in quel cesso di casa famiglia. Quelli come me, con i miei geni, non sono fatti per diventare padri, non sono nemmeno fatti per diventare figli, o persone, o che cazzo ne so.
Vorrei qualcosa che attutisca tutta questa merda. Vorrei anche non volerlo.
Non dovrei essere qui.
«Ti vedo bene, Tate mi ha detto che la settimana scorsa ti sei passato una bella nottata dai Lein. Vedo che ti sei ripreso.»
Scusa.
«È stata solo una, e poi ora con lo stipendio posso aiutarti con le spese. Non è che passo tutte le giornate così.»
«Certo.»
Non volevo nemmeno parlare di questo, porca puttana, di soldi. A me dei soldi non me ne frega niente, nemmeno a lei. Non so perché ho iniziato a dire così. Che stupido. Mi fermo e mi costringo a respirare, inalo così forte che Kelly si gira verso di me confusa: è che non so come fare a gestire questa situazione, questo tutto, i pensieri mi bombardano la testa come missili e l’unica cosa che riesco a fare è starmene qui.
«Sta dormendo, comunque.» butta lì lei, alzandosi in piedi «Immagino che tu lo voglia vedere.»
Annuisco, in realtà non so bene se è quello che voleva lei ma le parole mi muoiono in gola e quindi non posso spicciare parola.
Scusa, vorrei dirle, perché so che non vorresti uno come me nella tua vita. Kelly avrebbe voluto i suoi spazi, quando “stavamo” insieme studiava già per la sua borsa di studio, mi diceva che avrebbe fatto psicologia, mi diceva che le piaceva. E invece ora ha perso un anno di scuola.
Mi fermo, a metà strada tra l’entrata e la culla: «Mi dispiace.»
Lei non si ferma, si avvicina invece al lettino. Il fatto che mi ignori è ancora peggiore.
Vorrei davvero qualcosa che attutisca tutta questa merda.
Poi mi sporgo anch’io, giusto un po’ per vedere il bambino – mio figlio. Lo scorgo appena sotto una coperta, il viso arrossato e gli occhi chiusi in un sonno pacifico. Ha i capelli rossi come me, noto solo ora, e non so se quello che mi colpisce è orgoglio o paura. E chi lo avrebbe mai detto che con una madre con i capelli così neri sarebbe uscito rosso – un vero irlandese, come me. Deve aver sentito che qualcun altro è venuto a vederlo perché si mette a piangere ché non ha ancora aperto gli occhi e io faccio un passo indietro.
«Devo averlo spaventato, non credevo di essere così brutto.» cerco banalmente di sdrammatizzare mentre lei lo prende in braccio.
«Dovresti, invece.» e sento un po’ di tenerezza nella sua voce «Guarda come sei conciato.»
«Non ti piaccio?»
Be’, cazzo, hai esagerato.
L’unica risposta che ricevo è un sorriso amaro, quindi abbasso lo sguardo che è decisamente meglio. Ficco di nuovo le mani nelle tasche nella speranza che qualcuno dica qualcosa per evitare l’ennesima scena imbarazzante.
«Tienilo, lo so che sei venuto fin qui per questo.» ha un tono tra l’ironico e il condiscendente e io non so se essere offeso o ringraziarla.
Guardo il bambino - Andy, perché Andrew è un nome troppo lungo e non mi piace nemmeno troppo - calmarsi e quando lo prendo in braccio mi viene questa paura che cada, si faccia male, che lo stringa troppo forte. A uno come me non si dovrebbe mai dare un bambino in braccio, finirei per farlo volare accidentalmente dalla finestra.
Kelly si scosta, facendomi spazio, e si avvicina alla sua scrivania bianca per poi iniziare a sfogliare un giornale, forse voleva lasciarmi un po’ da solo con lui.
È questione di minuti, forse secondi, prima che Andy inizi di nuovo a piangere con voce acuta, agitando mani, braccia e testa. Mi volto, spaventato, per poi iniziare a dondolarmi freneticamente. Ho visto altre persone farlo, sono abbastanza sicuro che sia così che si calmi un neonato.
«Cazzo, Kells!» borbotto, forse a voce un po’ troppo alta «E adesso cosa faccio?»
Lei alza la testa di scatto, infastidita: «Così lo ammazzi, povero bambino! Smettila di farlo saltare da una parte all’altra. Piano, Eean, piano.»
«Lo dicevo che l’avrei fatto volare fuori dalla finestra.» smozzico tra me e me, ignorando lo sguardo interrogativo che ricevo. Ora che so che Kelly non è del tutto incazzata mi sento in dovere di prendere le cose un po’ più alla leggera. Il tempo di sedermi sul letto ed Andrew è di nuovo calmo, apre addirittura un po’ gli occhi e ho l’impressione che mi guardi.
«Vuoi un sonaglio?» chiedo, un po’ riluttante – ne ho visto uno appoggiato qui vicino, forse gli farebbe piacere. Nei film i bambini non hanno sempre in mano quei loro fastidiosissimi sonagli gialli a pois rossi? Lo afferro e cerco di darglielo in mano, ma l’operazione non va a buon fine perché il gioco cade a terra immediatamente.
«Forse sei troppo piccolo.» mormoro infine, sconsolato «Niente sonaglio, allora. Cosa ti posso dare, eh?» mi alzo, inizio a dondolarmi di nuovo su e giù, forse per scaricare la sua tensione su di lui.
E adesso il cosino mi fissa.
Cos’ha da guardare, poi, quello lo sa solo lui. 
«Ci accontenteremo di qualcos’altro.» biascico infine, voltandomi verso Kelly alla ricerca di, non so, qualche cenno di approvazione. È letteralmente un momento che ho staccato gli occhi e ora mi rendo conto che Andy mi ha afferrato il mignolo della mano sinistra: lo stringe con una forza che non credo possa appartenere a un essere umano di soli pochi giorni, porca puttana. «Uh-uh-uh! Abbiamo un nuovo Hulk, gente!» esclamo divertito.
Mi sembra di vederlo sorridere, anche se non so quanto sia possibile.
Quello è tuo figlio, mi rendo conto, quasi perdendo un battito di cuore.
«Andrew Hulk Harrison. Non suona mica male, vero?»


 
Londra, Agosto 2009

«La storia del sii affamato, sii sobrio non è andata a buon fine, vero?» guardo Eean di sbieco.
Io sono seduto sul sedile passeggero, lui su quello del guidatore. Il suo Silverado oggi sembra ancora più scassato del solito, ho faticato per aprire la portiera, prima, e ora Eean mi sta dicendo con noncuranza che i freni funzionano male. Questo non volevo saperlo, perché non ci tengo a morire per dei freni di un vecchio pick-up arancione, e quindi preferisco cambiare discorso.
«Vaffanculo, Trav.» borbotta lui nella mia direzione, io alzo le spalle «Guarda che tutta quella roba è stata una gentile concessione di Evan. Gratis
«Quindi ha ripreso con lo spaccio?» mi giro, incuriosito, verso i sedili posteriori dove so che ci sarà un zaino. Guarda caso all’interno ci sarà anche una buona quantità di francobolli di LSD.
«Bah, che ne so, chi lo capisce quello.» riprende Eean, piegando la testa da un lato «Mi ha detto che li aveva e doveva liberarsene. E poi, scusa, a noi non fanno mica male.»
Rido: «La buona musica non si fa mai da sobri, hai ragione.»
«Ah,» lui stacca le mani dal volante e le allarga, poi le porta dietro la testa «finalmente qualcuno che capisce!»
Rido, nonostante i freni e il volante.
Ridiamo.
Alle volte con Eean mi sento come se il mondo si fermasse, ci siamo solo noi che siamo giovani, c’è il cielo della sera sotto la nostra testa e i campi che circondano Londra. E non so come fare a non essere grato per questa vita che alle volte prendiamo sotto gamba e alle volte troppo sul serio: è così bella, penso, mentre la brezza notturna mi frusta il viso e mi costringe a scostare spostare i capelli neri come questo cielo. È questo quello che non capisco degli altri: come sia possibile per loro vedere solamente il brutto di questo mondo, quando invece è davvero pieno di momenti di Bellezza come questa.
E allora allargo le braccia anch’io e inizio ad urlare a squarciagola, Eean mi segue a ruota e sono abbastanza sicuro che da fuori sembriamo due pazzi che si stanno per andare a schiantare da qualche parte.  Continuo a ridere come un matto mentre lui riappoggia le mani sul volante: ho le lacrime agli occhi.
Sono leggero.
Sono giovane.
C’è un momento di silenzio in cui io mi premuro di abbassare del tutto il finestrino a manovella.
«È catartico.» mi lascio sfuggire a mezza voce.
«Eh?» sono abbastanza sicuro che non sappia cosa vuol dire. Gli sorrido e anche lui ricambia, ha uno di quei sorrisi da bambino, uno di quelli che non vedi sugli adulti che ormai non sanno più stupirsi. 
«È lenitivo.» mi correggo «È come se ti guarisse l’anima.»
Lo sento emettere un suono a metà tra una risata e uno sbuffo: «Credo che dovremmo farlo più spesso, allora.»
«Tu non ne hai bisogno.» lo rassicuro, appoggiando il mento alle nocche della mia mano sinistra, socchiudo gli occhi per godermi meglio il vento della notte.
«Tu dici?» la sua voce è esitante. Per un momento mi salta in mente di dirgli quello che volevo dirgli l’altra sera, ovvero che è la persona più buona che abbia mai incontrato. Ma le parole mi si bloccano in gola e l’unica cosa che riesco a fare è annuire.
«Non so…» smozzica dopo qualche minuto, mentre svoltiamo verso casa sua «Tu pensi che certe cose si possano ereditare?»
Aggrotto le sopracciglia, non so da dove gli sia uscita questa domanda e non so nemmeno qual è la risposta giusta. Incrocio le braccia al petto: «Fisicamente?» gli chiedo «Guarda me, sono la copia dei miei: metà inglese e metà iraniano. Caratterialmente? Te lo puoi scordare, non voglio diventare come loro.»
Ride: «Non vorresti diventare un banchiere di successo?»
«Assolutamente no.»
Rimaniamo di nuovo in silenzio e già mi sono dimenticato di quel che mi ha chiesto; ho allungato la testa fuori dal finestrino e ora mi sto guardando indietro, verso la Londra che ci stiamo lasciando alle spalle. Vedo i palazzi altissimi e le luci delle finestre che sembrano formare costellazioni di galassie lontane.
«Però,» insiste lui «tu credi che uno possa veramente diventare come i propri genitori? Fare gli stessi sbagli? Anche se uno non lo vuole, intendo.» 
Ora capisco: collego tutti i puntini con il filo rosso e comprendo il perché di questa domanda, nel momento stesso in cui arrivo a questa conclusione sento la malinconia che inizia a stringermi le viscere, vorrei rispondergli di no, ma mi ci vuole un momento per mettere insieme le parole.
«Ti riferisci a—?»
«Ai miei genitori, sì.» si blocca, si vede che vorrebbe aggiungere altro anche se ormai ho capito. Sta parlando di quelli biologici, di genitori. Di quei figli di puttana. Annuisco.
«Sarai un bravo papà, Eean.»
«Lo spero,» ammette, abbassando il capo «vorrei dare a quel bambino tutto quello che non ho mai avuto.»
Quello che gli rivolgo è un sorriso un po’ amaro, ma sono sicuro che non è ciò di cui ha bisogno ora. E allora gli do un pugno amichevole sulla spalla con il rischio di farci sbandare tutti e due: «Hai un buon cuore, Harrison. Un noioso gusto nella musica, però: leva questi Ramones che ne ho le palle piene.»
Mi chino verso il mangiacassette del pick-up ed estraggo il nastro che stiamo ascoltando da quasi un’ora per inserirne uno di David Bowie che ci ha imprestato Frank qualche settimana fa.
«Ehy!» protesta lui, ricambiando il pugno.
«E non ti lamentare,» lo ammonisco ironicamente «urla, piuttosto. Quello è molto più terapeutico.»
Ci lanciamo uno sguardo d’intesa; è un attimo prima che tutti e due ricominciamo a gridare nell’abitacolo del Silverado, le braccia allargate e la testa rovesciata, gridiamo e ridiamo e la vita è così bella che vorrei fosse sempre così.
Scompariamo nel buio della notte ancora giovane, come noi.


 




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