Oltre il Buio

di kiaa
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OMBRE ROSSE
 
Quando hai i capelli rossi, si presume che tu sia molto attenta nella scelta dei colori che ti porti addosso.
In particolari quando ti prepari alla serata delle serate, nota ai più col nome di festa di fidanzamento di tua sorella.
Questo passava per la testa di Megara, mentre osservava sconsolata gli orecchini di ametista viola che sua madre le aveva fatto recapitare quella mattina. Li indossò riluttante, e alzò lo sguardo verso il grande specchio dalla cornice dorata che adornava l’antiquato tavolo da toletta. Contemplò per un lunghissimo minuto il proprio riflesso, considerando l’idea di buttare gli orecchini dalla finestra.
Venne distolta dal sacrosanto proposito da un lieve bussare alla porta, che si aprì senza aspettare risposta.
Fate pure, eh…
Il moto di fastidio si spense non appena scorse, riflesso nello specchio, il viso della nonna.
Aveva sempre trovato bellissima la nonna, con quei suoi zigomi alti e pronunciati, le sopracciglia finissime che incorniciavano due occhi dallo strano colore: castani, diceva sua madre, ma a lei sembrava il colore che aveva la terra bruciata dal sole estivo.
“Mi hanno mandata a controllare se fossi pronta”, esordì l’anziana signora, e Megara era certa di aver visto balenare sul suo viso un sorriso ironico. Ovviamente era ben lungi dall’essere pronta.
“Questi orecchini sono orribili”, si lamentò Megara.
“Quegli orecchini sono stati realizzati dal più abile orafo dell’Arcipelago Centrale, poco prima della tua nascita. Quando tutti si aspettavano di trovarsi davanti una bambina bionda, come tua madre e tua sorella.” rispose la nonna, mascherando male il disprezzo verso i suddetti membri della famiglia. “Sarà il caso che tu li tolga subito, altrimenti al Primo Ministro sanguineranno gli occhi”.
Megara scoppiò a ridere, ricordando come il capo del Parlamento che affiancava suo padre al governo fosse stato spesso sulle prime pagine di gran parte delle riviste di moda del pianeta. Fu lesta a levarsi i maledetti orecchini, cominciando a rovistare nel portagioie alla ricerca di un sostituto più consono.
La mano della nonna si posò sulla sua, frenando la ricerca distruttiva, non prima che avesse rovesciato sul tavolo gran parte del contenuto della scatoletta d’ebano.
“Sarà meglio che tu prenda questi”, le disse, mettendole in mano un paio di semplicissimi pendenti, con una piccola pietra tonda, di un blu scurissimo, incastonata nella montatura d’argento.
Megara se li mise, e restò a guardarsi affascinata allo specchio. Erano perfetti, le stavano benissimo.
Abbracciò di slancio la nonna, che le aveva appena risparmiato di fare la figura del brutto anatroccolo di fianco alla sua biondissima ed eterea sorella.
Maledetta.
“Considerali il mio regalo di compleanno, e tienili con cura. Furono fatti per me, quando avevo circa la tua età, con una pietra particolare, che si estrae soltanto nelle terre da cui provengo”.
Megara la guardò incuriosita: la nonna non parlava mai del posto in cui era nata. Nessuno sapeva nemmeno dove esattamente fosse nata.
L’anziana signora fece per dire qualcosa, ma un bussare insistente la interruppe.
“E’ ora di scendere, Vossignoria”, venne da fuori la voce di Leanne, la governante. “Il Duca vi attende”.
Nonna e nipote si scambiarono uno sguardo esasperato, poi la nonna prese Megara a braccetto, e insieme si avviarono.
                                                                                 ***
La sala dei ricevimenti del palazzo quella sera era abbagliante: i grandi lampadari d’oro massiccio illuminavano un salone immenso, le cui pareti rivestite di legno scuro erano state coperte con spessi tendaggi di velluto verde e oro, i colori della Casata dei Rosak. Le cinque tavolate imbandite per ricevere gli ospiti erano ricoperte da tovaglie di lino candido, e apparecchiate con piatti di porcellana e bicchieri di cristallo.
Enon Rosak, il Duca, nonché padre di Megara, aveva voluto fare le cose in grande: dopotutto era il leader della Federazione, e al matrimonio della maggiore delle sue figlie avevano dovuto essere invitate tutte le personalità di spicco di Aldar. Una delle tavolate era occupata infatti dai rappresentanti delle Isole Occidentali, centro del commercio del pianeta, che sedevano fianco a fianco coi membri del Parlamento.
La scelta di non invitare nemmeno un rappresentante dell’Arcipelago Meridionale aveva indispettito non poco la nonna: Megara l’aveva sentita discutere animatamente con suo padre, che però si era conformato ai desideri della sposa di “Non avere quella plebaglia al mio matrimonio”. Megara aveva sempre pensato che sua sorella fosse una snob priva di cervello.
Da parte sua, il promesso sposo aveva portato con sé la crème de la crème di Vermaris: tutta l’eccellenza della Corporazione dei Mercanti del pianeta era accorsa per celebrare le nozze del primogenito del suo leader. Ed eccolo lì, il suddetto leader, il famigerato Aslo Tanis, che raggiante d’orgoglio esibiva come un trofeo questo figlio, prossimo ad imparentarsi con la famiglia reale di Aldar. Dava i brividi.
Non era poi stato possibile escludere gli emissari di Jabazar: i Colonnelli della Giunta Militare che governava il pianeta da tempo immemore sedevano tutti schierati, nelle loro alte uniformi nere piene di decorazioni, irradiando una sensazione di pericolo impossibile da ignorare.
Complimenti, sorella, davvero. Bei compagni di merende che ti sei scelta.
Megara guardò la sorella, occupata ad affascinare il futuro suocero e buona parte del suo entourage dalla parte opposta della sala. Tara era radiosa, nel suo vestito nuziale, azzurro come da tradizione. Megara non aveva mai potuto sopportarne i modi affettati e l’ossessione per l’eleganza, ma soprattutto la mancanza di ambizioni che andassero al di là di un matrimonio prestigioso. Sua sorella non era affatto stupida, aveva ricevuto un’educazione eccellente ed era cresciuta nel salotto politico più importante della galassia, eppure non sembrava avere alcun desiderio di emanciparsi.
Detto in altre parole, non chiede di meglio che essere messa in mostra come una bella bambola.
Il filo cupo dei pensieri di Megara venne interrotto dal paio di mani che le si posarono improvvisamente sulle spalle.
“Se continui a guardarla così, finirai per darle fuoco” le disse scherzosamente suo fratello Eran.
“Le verrà una paralisi, se continua a sorridere a quel modo”, ribattè ironica.
“E’ il giorno del suo matrimonio, non infierire”.
Eran la condusse verso la tavolata centrale, alla quale stavano cominciando a prendere posto vari membri della famiglia della sposa, accanto ai membri più influenti del Parlamento.
“Tu credi davvero che sia felice di sposare quel damerino?”, chiese Megara, mentre il fratello le serviva da bere.
“Quel damerino è la sua via di fuga da qui. Andiamo, Tara ha sempre voluto avere una casa in cui dare ordini, e un marito con un certo prestigio che si occupasse di lei”, ribatté Eran, scuotendo la testa bionda. “Questo matrimonio permetterà a lei di sentirsi meno in trappola, e porterà un’infinità di benefici a nostro padre”.
Megara aprì la bocca per ribattere, ma improvvisamente nella sala calò il silenzio. Tutti gli invitati avevano ormai preso posto, e dall’imponente portone di quercia che dava sul giardino stavano entrando due figure ammantate di nero: i sacerdoti che avrebbero officiato il rito, coperti dalla testa ai piedi da un mantello di pesante panno nero, il viso nascosto dalle maschere rituali dai tratti abbozzati.
Megara rabbrividì. Le avevano sempre dato un irrazionale senso di angoscia.
I sacerdoti presero posto sul palco appositamente allestito per la celebrazione, e gli sposi si sistemarono di fronte a loro, fianco a fianco. Il padre della sposa, il conte Rosak, si sistemò accanto alla figlia, offrendole il braccio.
I sacerdoti cominciarono a salmodiare. La cerimonia aveva inizio.
Megara conosceva bene quei canti rituali: ne aveva studiato a lungo il testo, scritto in una lingua antica e ormai estinta, e ne aveva letto diverse traduzioni. Per qualche motivo il ritmo di quel salmodiare la stregava, portava la sua mente in uno stato di calma prossimo alla trance.
In questo stato allucinato vide il padre porgere la mano di Tara al promesso sposo, vide gli sposi scambiarsi le promesse e le fedi nuziali. Il canto cresceva sempre più d’intensità.
Improvvisamente le sembrò che le ombre dei sacerdoti, proiettate sulla parete, cominciassero a danzare. Danzavano, si allungavano. Sembravano fiamme, fiamme che lambivano la sala, che strisciavano verso suo padre e sua sorella. Ebbe un capogiro, e si aggrappò al tavolo per non cadere dalla sedia. Suo fratello le strinse il braccio, rivolgendole uno sguardo preoccupato. Si allungò verso di lei per sostenerla.
In quel momento Tara urlò.
Megara si voltò verso il palco giusto in tempo per vedere Aslo Tanis piantare un pugnale nella gola di uno dei sacerdoti. Allungò la mano insanguinata verso Tara e la strattonò da una parte, lontano da suo padre.
Al suo gesto, quasi all’unisono, i Colonnelli si erano alzati dalla loro tavolata, estraendo coltelli lunghi un braccio. Avanzarono decisi verso l’angolo in cui stava seduta la famiglia Rosak.
Eran si alzò di scatto, parandosi davanti a Megara e a sua madre. Era disarmato, così come i membri del Parlamento. Al di sopra del frastuono delle sedie rovesciate si udì la voce di Aslo Tanis.
“Catturate la famiglia reale, ammazzate tutti gli altri”.
Fu uno spettacolo tremendo: i deputati cercarono di difendersi dai militari, ben addestrati e armati fino ai denti, brandendo coltelli da pasto.
Enon Rosak, resosi conto di ciò che stava accadendo, lanciò un grido belluino e si lanciò contro Tanis, brandendo un candelabro. Venne prontamente neutralizzato dalle guardie del mercante, che lo tramortirono e gli legarono le mani dietro la schiena.
Tara urlava, trattenuta in disparte dal novello marito, che sembrava più atterrito di lei.
Megara vide Eran saltare sul tavolo, brandendo la gamba rotta di una sedia, cercando disperatamente di difendersi dalle mani che cercavano di trascinarlo a terra. Uno dei mercenari di Jabazar cominciò ad avanzare verso di lei, e Megara si aggrappò spasmodicamente alla forchetta che aveva in mano, pensando freneticamente a come causare più danno possibile.
Poi il gigante si immobilizzò e cadde a terra, in una pioggia di vetri rotti.
La nonna lo superò agilmente, con in mano i resti della bottiglia, e la prese per un braccio.
“Dobbiamo andarcene subito”, le disse, e il panico nella sua voce scatenò un’ondata di paura nella nipote. Paralizzata dal terrore, guardò verso la sala: suo padre giaceva svenuto sul pavimento, legato mani e piedi; sua madre era inginocchiata al suo fianco e piangeva disperata. Tara cercava di liberarsi dalla presa del marito, strillando e graffiando.
La nonna la scosse con forza: “Non puoi fare nulla per loro, andiamo”, e la trascinò via, verso una delle porte laterali della sala.
In seguito, Megara avrebbe ricordato di quel percorso nei tortuosi corridoi del palazzo come un turbinio confuso di colori e suoni. Ma più di ogni altra cosa, avrebbe ricordato il vuoto spaventoso che le si era aperto dentro, e che ci avrebbe messo anni ad accettare.
In qualche modo arrivarono al giardino sul retro della casa, dove trovarono un uomo vestito di nero accanto a una capsula spaziale dall’aria malandata: Megara riconobbe vagamente il sacerdote sopravvissuto.
“Ascoltami attentamente, tesoro”, esordì la nonna, prendendole il viso tra le mani, “ora ti imbarcherai su questo catorcio, che ti porterà lontano da qui. Nasconditi, tingiti i capelli, e non fidarti di nessuno. Vorrei…”.
In quel momento dal palazzo giunse l’eco di spari e urla, e la nonna la spinse verso la piccola astronave.
“Vorrei poterti aiutare, vorrei poterti spiegare, ma non c’è tempo. Prendi questo”, e le mise in mano un oggetto solido e pesante, intarsiato. “Si aprirà al tuo ventunesimo compleanno. Cerca le risposte che non posso darti, vai a cercare chi può aiutarti. Fino ad allora, nasconditi”.
La aiutò ad arrampicarsi nella cabina, e il sacerdote si issò assieme a lei.
Megara emerse dalla nebbia dello shock improvvisamente, e cercò di tornare a terra.
“Nonna, no, non ti lascio qui…”
La nonna sorrise, chiuse il portello e fece un passo indietro.
La nave si alzò da terra, e attraverso la vetrata Megara vide i militari uscire di corsa, e la nonna mettere le mani sopra la testa e inginocchiarsi. Poi le figure divennero sempre più lontane, e ben presto furono fuori dall’atmosfera di Aldar.
Megara pianse a lungo, avvolta nel buio dell’abitacolo. Quando infine, sfinita, si accasciò sul sedile, si accorse di avere ancora in mano il misterioso oggetto che le aveva affidato la nonna. Se lo avvicinò agli occhi per vederlo meglio.
Era un medaglione.




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