Dedalus (prima stesura - in revisione)

di NicolaAlberti
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Il drone ronzava fluttuando lentamente di fronte a me. Le mie valigie galleggiavano a mezz'aria appena sotto di esso, avvolte da un campo magnetico invisibile. Camminavo lungo un infinito corridoio squadrato, freddo e metallico, le cui pareti lucide riflettevano le nostre immagini distorte e oblunghe. Su entrambi i lati, a intervalli regolari, comparivano delle porte dissolventi di vetro oscurato, simili a quelle delle cabine del Materializzatore, ma queste erano di forma ottagonale e si aprivano tramite una chiave a riconoscimento genetico. Le strutture abitative dei piani intermedi, come l'hotel cubicolare in cui mi trovavo, erano molto simili a degli alveari. Si dividevano spesso in piani intermedi che seguivano il bordo esterno della struttura. I cubicula erano abitazioni tutte identiche, sia nella conformazione interna che nell'accesso esterno ed era pressoché impossibile distinguerli. Mi chiesi con una certa preoccupazione come avrei fatto a ritrovare il mio cubiculum una volta uscito.

Il corridoio proseguiva senza sosta, quasi rettilineo, solo molto in lontananza si poteva intravedere una lieve svolta verso sinistra che lasciava intuire la conformazione circolare del piano interno in cui mi trovavo. Il drone si fermò improvvisamente di fronte ad una delle porte e fece scivolare dolcemente verso il basso i miei bagagli. Si rivolse a me emettendo dagli altoparlanti una voce cordiale, che simulava perfettamente quella di un maggiordomo e disse: «eccoci a destinazione monsieur». Allungò un asticella meccanica porgendomi un oggetto che assomigliava ad un sottile orologio da polso e aggiunse: «ecco a lei la chiave della sua abitazione. Possiede molte funzioni. Per conoscerle può consultare la guida in linea alla voce "aiuto". Tra le varie funzionalità inoltre, grazie al dispositivo di guida e localizzazione, la sua chiave genetica può individuare il percorso da seguire per raggiunge la sua dimora. Questo ovviamente nel caso decidesse di allontanarsi, per esplorare le meraviglie del Dedalus». Potevo quindi smettere di preoccuparmi. Tutto, in questa neo-società, sembrava pensato e calcolato per rendere facile e automatica l'esistenza degli abitanti. Sembrava quasi che le persone, per qualche assurda e innaturale consuetudine acquisita, dovessero avere il diritto di essere dispensate da ogni minimo sforzo.

«Le auguro un'incantevole permanenza monsieur». E con queste parole il mio maggiordomo si congedò, allontanandosi con lo stesso monotono ronzio che aveva accompagnato la nostra passeggiata d'accoglienza. Indossai l'orologio e allungai timidamente la mano facendola passare oltre il vetro. Volevo semplicemente assicurami che la chiave funzionasse evitando di andare a piantare il naso contro una lastra impenetrabile; cosa che sarebbe inevitabilmente successa se avessi tentato di attraversare una qualsiasi altra porta.

Il vetro conduceva ad una cabina angusta ma ampiamente illuminata. Ai due lati c'erano altre due porte a dissolvenza. Sul vetro di entrambe, come in uno schermo, appariva un simbolo che indicava la stanza che era stata predisposta all'interno di ogni porta. Come in ogni cubiculum, questo stretto spazio in cui mi trovavo era definito: cabina di conversione. In pratica, quando si voleva cambiare stanza, bastava selezionarla con un semplice slide della mano di fronte allo schermo e, quasi istantaneamente, la stanza assumeva la forma desiderata, perfettamente riassettata e ripulita, con gli oggetti predisposti esattamente così come li si aveva lasciati. Gli imperativi erano comodità, economia ed efficienza. I muri interni delle stanze erano costituiti da pannelli interattivi che potevano essere impostati con qualsiasi genere di motivo o immagine, oltre che fungere da schermo per qualsiasi genere di applicazione.

Gli hotel cubicolari occupavano generalmente piccole porzioni delle circonferenze periferiche della struttura. Il centro era invece costituito da spazi più larghi e variamente dedicati ad aree comuni di vario genere: commerciali, sociali, culturali, aree di produzione e aree definite bucoliche.

Le aree commerciali e sociali erano gremite di locali, negozi, centri benessere, palestre, nightclub, discoteche, pub e piazze simulate. Erano sostanzialmente la perfetta imitazione di un centro città. La loro ampiezza e lo stile variavano in base al piano di residenza. I primissimi piani erano per la quasi totalità impostati per il turismo e ci si poteva trovare locali ed esercizi di ogni sorta e di ogni livello economico, un po' come accadeva nei centri pre-aggregati. Nei piani più alti, verso la vetta del Dedalus, c'erano ovviamente solo le abitazioni più raffinate e i locali più prestigiosi. L'accesso a questi piani era riservato a pochi eletti e per raggiungerli era necessario possedere dei permessi speciali. I piani intermedi invece erano molto più caotici e variegati. Per lo più ci si aspettava di trovare zone destinate ai ceti medi, ma non tutto era distribuito con una coerente soluzione di continuità. L'aspetto e la conformazione di ogni piano era l'esito immediato della società che ci viveva. Era come trovarsi tra i differenti distretti di una gigantesca città. Tutto seguiva l'economia e il flusso commerciale prodotto dalle aggregazioni umane che vi abitavano. Non era quindi impossibile, o così inconsueto, trovare un centro rinomato, affollato e per così dire "alla moda", appena al di sotto di un piano il cui centro era invece parzialmente ghettizzato o povero.

Le aree bucoliche erano una delle meraviglie tecnologiche del Dedalus. In tutta la struttura era presente un sistema detto simulatore atmosferico. Ogni genere di ambiente (naturale e non) e ogni genere di condizione atmosferica, potevano essere perfettamente riprodotte. Non erano semplici proiezioni olografiche, dato che non si trattava di mere immagini sospese nell'aria, bensì di qualcosa che aveva un riscontro materiale e percettivo coinvolgente tutti e cinque i sensi. Alcuni dei più ricchi aristocratici e magnati del Dedalus, certamente abitanti dei piani alti, possedevano un simulatore atmosferico integrato nelle proprie dimore, con la possibilità di regolarne intensità e funzioni. Sebbene funzionasse in maniera simile in ogni area, a seconda delle più svariate necessità, nelle zone bucoliche il simulatore trovava la massima espressione del suo potenziale. In queste zone "all'aperto", quando il sistema lo riteneva abbastanza verosimile, poteva ancora capitare che qualcuno maledicesse un acquazzone. C'era addirittura un canale che, per puro intrattenimento, trasmetteva le previsioni del tempo, seguendo un algoritmo che si modulava solo parzialmente sul sistema di simulazione. In tal modo, la casistica di previsione non era sempre perfettamente corretta, lasciando che il sistema generasse occasionalmente delle sorprese.

La nuova Parigi mi sorprendeva sempre di più e mi chiedevo quanto questa assurda novità non cercasse di essere nient'altro che una replica della realtà, spesso così fedele da sfuggire al controllo umano: un'infallibile analogia di ciò che nell'antichità era attribuito al potere divino e che ora non era nient'altro che un complicatissimo calcolo digitalizzato del Caso. Un calcolo che solo pochi avevano il privilegio di bypassare. Ma anche i piani alti, e più ancora gli intermedi, dove c'era una sorveglianza meno pressante, avevano i loro luoghi oscuri: vicoli segreti e corrotti, dove reietti e criminali continuavano le loro attività; così come d'altronde ci si può aspettare che accada nei retrobottega di una metropoli esausta come Parigi. Per quanto si spazzi, la polvere si accumula, e anche i topi nel tempo imparano a svincolarsi dalle trappole elettroniche, forse fin troppo velocemente.

Mi ero già sistemato, avevo disfatto le valigie e mi ero praticamente lasciato cadere sul letto che, accogliendomi morbidamente, prese perfettamente la forma del mio dorso, assestandomi elettronicamente nella posizione più comoda possibile. Non chiusi gli occhi. Mi assalì subito con impazienza la necessità di far sapere ad Amal che mi trovavo lì, nello stesso luogo in cui si trovava lei, sebbene distanziato da chilometri di mura metalliche e illusioni. Mi recai nella stanza a fianco, già preimpostata come bagno, e stando davanti a un gigantesco specchio, cercai di rassettare la mia figura e il viso. Quando mi chinai per sciacquarmi la faccia e mi rialzai, vidi un'espressione non mia. Chi era la persona che mi stava davanti? Le fattezze erano solo parzialmente corrispondenti. Ma non era solo la mia espressione, c'era qualcosa di totalmente insolito nei miei connotati. Non riconoscevo i miei lineamenti. Mentre l'acqua mi gocciolava dagli zigomi e dal naso, feci lentamente e inavvertitamente un passo indietro sconvolto. Non avevo distolto lo sguardo per una sola frazione di secondo e mi ero proteso in avanti, ponendo una mano sulla bocca. Ero sicuro di non aver sbattuto le palpebre, neanche una sola volta, eppure, eccomi lì allo specchio... ero di nuovo io! Mi riscossi con decisione, allontanando i pensieri oscuri che cominciavano a profilarsi in risposta all'evento appena accaduto. Ignorando forzatamente il senso di inquietudine che mi stava prendendo lo stomaco, tornai in camera per accendere l'olofono. Composi immediatamente il mio viso in un sorriso, forse un po' esagerato e finto, ma non volevo apparire ne sconvolto per quanto mi era appena capitato ne avvilito o rattristato per come la situazione si era interrotta nei miei precedenti contatti con Amal. Quando cominciai a pensarci, il ricordo dell'immagine allo specchio svanì immediatamente per lasciare il posto allo sconforto. Era una emozione familiare, alla quale mi ero oramai abituato e che, in un certo senso, mi fece sentire un po' meglio, perché mi assicurava che quella persona ero io e lo ero in profondità. Sebbene fosse sorta in me improvvisamente questa sicura e familiare tristezza, ero anche abituato a dissimularla, o per lo meno era ciò che pensavo di saper fare, quindi mi apprestai ad inviare il mio olostato ad Amal con questo intento.

«Heilà, stella, so che non dovremmo sentirci... Questi erano gli accordi... Ma... cazzo, è più forte di me, non riesco a starti lontano!», feci un ampio sorriso e di fronte al mio viso comparve un gigantesco faccione rotondo e giallo, uno smile 3d con i dentoni. «Non ci crederai mai... Sono qui! ... Sono venuto nel Dedalus... solo per te!». Ci fu una pausa, forse troppo lunga. Per un momento credetti di star tradendo le mie emozioni. Non volevo assolutamente mostrare la mia debolezza, quindi sorrisi di nuovo in maniera dolce, anche se forse un po' malinconica e chiusi il messaggio dicendo semplicemente e con sincerità: «ti amo Stella...». Inviai l'olostato sospirando in maniera pesante e attesi. Attesi ore con ansia quella maledetta sferetta verde che confermava la visualizzazione del messaggio.

Non accadde nulla.





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