Una nuova vita, un nuovo amore

di Nadine_Rose
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Capitolo 29

 

Padre, madre

 

“Ogni genitore è in un determinato momento il padre del figliol prodigo, senza nulla da fare che non tenere la sua casa aperta alla speranza”.

John Ciardi

 


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Andrej rimase a fissare la porta chiusa, inerme, sconvolto, incapace di comprendere l’accaduto. Per un attimo pensò di essersi addormentato durante il viaggio e di aver fatto soltanto un brutto sogno. Perché non poteva essere vero che suo padre lo avesse rifiutato, cacciato via, ferito, ignorando la voce del sangue. Ma quello non era suo padre, quella non era la sua famiglia, quella non era la sua casa, quello non era il suo posto. Il cuore accelerò di delusione e rabbia, in primis contro se stesso e la propria ingenuità e, di corsa, scese le scale.

Werner distolse lo sguardo dal suo punto fisso: Andrej gli era passato accanto come una freccia, con la testa bassa, le braccia stese lungo i fianchi, i pugni stretti, rigido, arrabbiato. Qualcosa era andato storto. Il malessere di suo figlio lo attraversò dentro come una scarica elettrica e, balzato dalla macchina, gli corse dietro. Più volte urlò il suo nome e lo pregò di fermarsi, ricreando così una scena già vissuta.

Andrej non aveva il coraggio di fermarsi, di voltarsi indietro e guardare in faccia Werner dopo il suo atteggiamento di disprezzo e le sue parole di addio, colto dal pensiero che anche lui lo avrebbe rifiutato e che niente sarebbe stato più come prima. Non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, di farsi perdonare e perdonare il suo passato nazista e le sue reticenze, di raccontargli della sua aspettativa delusa e ammettere, prima di tutto a se stesso, che si sbagliava e che c’era una voce più forte di quella del sangue. Quell’uomo che lo seguiva e lo chiamava disperato, che lo aveva cresciuto e amato incondizionatamente, quell’uomo con la coscienza in debito verso l’umanità e un bagaglio di cose non dette a tempo opportuno, era suo padre, il suo vero padre e a suggerirglielo era la voce del cuore.

Poi di colpo Andrej fermò il suo incedere spasmodico e si voltò, gli andò incontro e gli si gettò tra le braccia, esplodendo in un pianto dirotto. In diciassette anni Werner non lo aveva mai sentito piangere in quel modo, così disperato e straziante, come quando si perde una persona cara. Le lacrime gli cadevano a fiotti sulla giacca e gli penetravano il cuore, ferendolo. Rivoleva suo figlio ma non a quel prezzo. Abbracciare il dolore di Andrej lo faceva sentire impotente, un po’ come quando da piccolo stava male e lui non poteva farci niente, se non aspettare che la medicina facesse effetto. Essere un dottore non lo esonerava dal provare apprensione per suo figlio. In quel momento desiderò avere accanto Nadine: lei sì che avrebbe avuto le parole giuste per rassicurarlo, la medicina per il suo cuore ferito. “Lui … lui non … non …” balbettò Andrej fra i singhiozzi. “Shh … Non è necessario. Sta’ calmo …” Werner lo interruppe con tenerezza e pronunciò quelle tre brevi parole, troppe volte negli ultimi anni taciute per pudore e rimaste in bilico sulla punta del cuore, antidoto efficace e vera manifestazione del suo affetto “… Ti voglio bene.” Ma Andrej si aggrappò alle sue spalle e pianse più forte.

 

Nadine si ritrovò davanti un Andrej diverso, provato, stanco. Il suo portamento era dimesso, il suo viso pallido di tristezza e dai suoi occhi gonfi di lacrime traspariva uno sguardo perso nel vuoto. Werner gli assomigliava ed entrambi sembravano fantasmi. Capì subito. Sollevò la mano verso la spalla di suo figlio per tentare un gesto consolatorio, per introdurre una parola di conforto ma Andrej le volse le spalle e si diresse verso la sua stanza. Lo sguardo di resa di Werner incrementò la sua angoscia.

 

Nadine era sempre più angosciata: Andrej non usciva dalla sua stanza da ben due giorni, neanche per mangiare. Desiderava varcare quella porta, parlargli, rassicurarlo, infondergli coraggio, aiutarlo ad uscire da quello stato di isolamento ma temeva di ottenere l’effetto contrario invadendo il suo dolore e, allo stesso tempo, di sembrarne indifferente. Si sentiva confusa, smarrita, non sapeva come né quando agire e, insieme a Werner, si diede un altro giorno di tempo.

Ma al terzo giorno Andrej uscì dalla sua stanza per fare colazione, mangiò l’impossibile davanti allo sguardo stupito di Nadine e Werner e, addentando famelicamente una fetta biscottata, ruppe il suo silenzio. “Prima che finisca l’estate organizziamo una giornata al lago con lo zio Kurt?” domandò, come se nulla fosse accaduto. Nadine e Werner si guardarono con aria interrogativa e gli risposero con un “sì” corale e perplesso.

In quei tre giorni vissuti da solo con se stesso, Andrej aveva ripercorso i suoi diciassette anni, riscoprendo l’insostituibile presenza di Nadine e Werner in ogni tappa della sua vita, bella o brutta, significativa o ordinaria, una presenza discreta e mai soffocante, fatta di calore e sostegno. Curato e amato, non gli avevano mai addossato il peso del loro passato e si era sempre sentito figlio. Nadine e Werner erano i suoi genitori, sua madre e suo padre, nonostante gli errori passati e le mancate verità, al di là del legame biologico. Pur non avendo lo stesso sangue, in loro si riconosceva nel modo di pensare, nelle espressioni, negli atteggiamenti e, curiosamente, anche in alcune caratteristiche fisiche. Perché era l’amore il legame che li univa, che li rendeva simili e faceva di loro una famiglia. Per amore Nadine e Werner avevano scelto di accoglierlo nella loro vita e adesso per amore era Andrej a scegliere loro.

 

Assomiglieremo come gocce, 
sarò presente la tua notte. 
Io padre tu mio figlio, 
diventerò più grande insieme a te. 
Divideremo il bene dal male, 
terrò distanti le tue paure. 

 

Biagio Antonacci, Assomigliami





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