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di A i r a
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3| Una chiave che non apre nulla 
 

***  Domenica 24 Febbraio – 9:34  ***
 
Quella mattina ringraziò mentalmente chiunque, secondo lui, avesse inventato la domenica.
Aveva passato tutta la notte a lavorare e ora si ritrovava con due occhiaie che chiunque l’avesse visto lo avrebbe scambiato per un panda sonnambulo.
Mangiò qualcosa in un bar lì vicino per cercare di reggere fino a mezzogiorno e, subito dopo, si diresse nella stessa palazzina in cui la notte prima accompagnò Marco, o meglio, Eren.
Entrò senza farsi notare, approfittando della porta socchiusa. Si guardò intorno e lesse i nomi incisi sulle targhette d’ottone sentendosi una specie di ninja, anche se a dirla tutta, non fu una gran cosa.
I suoi occhi vagavano come una palla che rimbalzava ovunque, in cerca di quel nome tanto semplice ma importante.
Nel giro di ventiquattro ore, quella palazzina sembrò essere diventato un luogo d’interesse pubblico e questo, al vecchietto del secondo piano che passava le sue giornate a fissare fuori dallo spioncino, non piacque per niente.
Aveva raggiunto il secondo piano, dopo due rampe di scale che sembravano non finire più. Inoltre quei gradini erano più alti del normale e per Jean fu abbastanza faticoso, considerato che era già tanto il fatto che camminasse.
«Marco Bodt.» lesse sottovoce dopo aver visto la fatidica targhetta con il nome inciso sopra.
Bussò. Silenzio.
Bussò di nuovo. Ancora silenzio.
Suonò al campanello. Una pausa, poi un “arrivo” rimbombò da dietro la porta che dopo una decina di secondi si aprì, rivelando un ragazzo moro dalle lentiggini e sulla ventina, con un’aria alquanto assonnata.
Jean non sapeva come reagire. Rilesse di nuovo la targhetta ed effettivamente c’era scritto “Marco” ma, quel Marco, non era Marco. Quindi… chi era quel Marco?
«E tu chi sei?» Chiese un Jean leggermente confuso.
Quella frase avrebbe dovuto dirla il moro ma pensò di lasciar perdere, la faccia di Jean di prima mattina gli incusse un po’ di timore, ecco.
«Sono Marco, hai bisogno di qualcosa?»
«No, tu non sei Marco.»
«Scusa, ma sono abbastanza certo di sapere come mi chiamo.»
La cosa si stava facendo imbarazzante, così tanto che il ragazzo dai capelli color paglia cominciò a toccarsi il naso. «Merda, devo aver sbagliato appartamento.» ammise ruotando testa e occhi a destra.
«Aspetta,» Il moro sembrava quasi felice. «Ti andrebbe del caffè? Stavo per accendere la macchinetta.»
Jean si girò stupito.
Inarcò un sopracciglio, sospettoso. «Perché me lo chiedi?» Schietto.
Quel ragazzo era fin troppo gentile agli occhi del taxista, la cosa gli puzzava.
Se c’era una cosa che aveva imparato a scuola era quello di non fidarsi mai troppo delle persone cordiali. Queste volevano sempre qualcosa in cambio e la loro arma migliore erano i ricatti.
Odiava le persone gentili.
Marco gli sorrise. «Sembri stanco, ho pensato che avresti gradito una tazza di caffè, tutto qui.»
«E se non la volessi?»
«Non ti sto obbligando, solo che le occhiaie che hai di certo non ti donano.»
«Guarda che tra i due, tu sei quello messo peggio.» affermò acido, forse per via della stanchezza, guardandolo negli occhi. La risata che ne scaturì fu leggera e spontanea, Jean non se l’aspettava.
«Già, forse hai ragione, ma questo caffè non si fa da solo.» Una pausa. «Allora, che vuoi fare?»
In fondo, una tazza di caffè non ha mai ucciso nessuno, soprattutto nei momenti in cui se ne aveva più bisogno.
Il suo maledetto orgoglio gli imponeva di rifiutare ma il suo fisico reclamava caffeina e quel ragazzo glielo stava addirittura offrendo quindi la risposta, seppur difficile, gliela diede senza tanti giri di parole.
«E va bene.»
Non appena varcò la soglia del piccolo appartamento sentì un profumo accogliente che avvolgeva l’abitazione.
Era un aroma che gli ricordava tanto la lavanda ma era leggermente più deciso.
Marco lo guidò fino al tavolo della cucina dove si sedette aspettando la sua tazza con impazienza.
«Come ti chiami?» chiese un Marco leggermente imbarazzato dal fatto che non glielo avesse chiesto prima.
«Jean.» Una pausa fatta di pensieri contorti misto ad imbarazzo. «Tu sei Marco, giusto?»
Una domanda scontata per una risposta scontata. Bravo Jean, continua così.
«Sì, vivo qui da due anni e non mi sono ancora abituato alla vita frenetica della città. Chissà, forse perché ho sempre vissuto a contatto con la natura.» Una risata leggera, di nuovo.
«Perché, da dove vieni?» chiese diventando involontariamente curioso.
«Vengo da un piccolo paese italiano.» disse sorridendo e offrendogli la tazzina fumante. «Attento che scotta.»
«Italia… capisco, e siete sempre così ospitali? Voglio dire, offrite caffè anche agli sconosciuti?»
Marco rise di gusto, sedendosi di fronte all’ospite sorseggiando il suo espresso.
«Diciamo che è un vizio di famiglia. Allora?» chiese inclinando leggermente la testa.
All’inizio era un po’ titubante nel berlo. Non era sicuro che quei tre centimetri di caffè lo avrebbero svegliato. In confronto al frappuccino che era solito ordinare da Sunbucks, quello era uno sputo.
Respirò a pieni polmoni fino a mandare giù il caffè tutto d’un fiato, un po’ come se fosse uno shottino.
«Mmh, è davvero buono.» Approvò con stupore.
Marco stava per dire qualcosa riguardo al suo modo di bere la bevanda ma Jean si alzò in piedi, facendo sfregare le gambe della sedia sul pavimento e rompendo quello strano silenzio che si era creato.
«Grazie per il caffè ma ora devo proprio andare.»
«Un’ultima cosa,» disse cercando di attirare l’attenzione, Marco. «Avevi bisogno di qualcosa?»
In effetti Jean non aveva spiegato il motivo per cui aveva suonato alla sua porta. Una spiegazione gliela doveva, al diavolo l’orgoglio.
«Ah, vedi, ieri un cliente ha dimenticato questa chiave nella mia macchina e considerando diversi fatti, ho pensato che vivesse qui, ma a quanto pare mi sbagliavo.»
«Uhm, ho capito. Se ti capita di venire di nuovo da queste parti, il caffè te lo preparo volentieri, non esitare a chiedere.» disse con un sorriso stampato sulle labbra. Lui era così disponibile e gentile che a Jean dava quasi sui nervi. Quell0 era più un invito a rivedersi ma testa di fieno non colse la palla al balzo.
Salutò con una mano all’aria sorridendo cordialmente, svanendo tra le rampe di scale.
Quella palla non la prese volontariamente.
 
***  Ore: 14:01  ***
 
Orologio che segnava le due del pomeriggio, fazzoletto anti polvere sul viso, guanti di gomma gialli alle mani e spugna super soft per non graffiare mobili. Aveva finito di spolverare, sistemare le pochissime cose che vi erano sui mobili, pulire i vetri e nutrire il pesciolino rosso che dava un tocco di umanità all’abitazione.
Si fermò al centro del piccolo salotto, vicino al basso tavolino, con aria rassegnata e leggermente delusa.
Vediamo: come diamine aveva fatto a cacciarsi in una situazione del genere?
Ah già, dopo aver parlato con quell’uomo era diventato una specie di governante di quell’assurdo appartamento grigio, freddo e maledettamente ordinato.
Assunto a tempo determinato, avrebbe percepito uno stipendio simile a quello di un fioraio senza pollice verde. Sarebbe restato in quella casa fino a quando tutti i mobili non sarebbero stati puliti alla perfezione, ma Levi divise comunque la dimora come i naufraghi avrebbero fatto con un’isola sperduta.
Eren non sapeva molto di quell’uomo. La sera prima aveva notato che non era il massimo della loquacità ma una cosa l’aveva capita bene: era un maniaco delle pulizie e considerato il confine che aveva delineato con un pezzo di nastro adesivo colorato, pensò che nascondesse qualcosa. Non sapeva se il fatto che non ci fossero oggetti personali era dovuto dalla ovvia facilità di pulire i mobili ma l’assenza di questi, rendeva la casa molto triste e senza un minimo di calore.
Il giorno dopo sarebbe stato il primo lunedì senza il suo lavoro ed Eren, al solo pensiero, si sentì inutile, vuoto, solo. Dopo quella giornata traumatica, la lotta per il suo futuro era ricominciata da zero.
Poi si ricordò che aveva degli amici.
Si fiondò sul cellulare appoggiato sul tavolino del piccolo salotto e pigiando un tasto a caso, vide che la schermata non si accendeva. Era morto.
«Merda!» imprecò fiondandosi sulla valigia con dentro vestiti piegati a caso. Frugò ficcando la mano alla cieca assumendo un’espressione concentrata, simile a quando ci si impegna a scrivere tirando fuori leggermente la lingua come i bambini. Tastò l’universo che vi era dentro ma niente da fare, non trovava nessun oggetto che potesse ricordare un banale caricatore.
Era una corsa contro il tempo, sapeva che la rabbia di Mikasa era direttamente proporzionale al tempo che passava e questo non era certo una bella cosa, anzi, molte volte gli capitava di avere gli incubi per colpa sua.
Si guardò intorno in cerca di qualcosa vagamente somigliante a un cavo, poi ragionò. Guardò il suo cellulare: era un modello molto in voga, penultimo modello, acquistato dopo tanti mesi di sacrifici e articoli strappalacrime.
Pensò che magari Levi avesse il suo stesso modello di cellulare e che da qualche parte avesse un caricatore appeso ad una presa elettrica ma era anche vero che – teoricamente – non poteva superare il confine segnato da un patetico nastro adesivo rosso. Ma chi era lui per farsi fermare da un insignificante confine? Si tolse i guanti e li appoggiò sul divano poi, con la stessa grazia che ci mise Armstrong a fare il primo passo sulla Luna, Eren mise il piede oltre il confine di quell’appartamento tanto piccolo quanto pulito.
Un leggero brivido gli percorse la schiena ma pensò fosse dovuto dal fatto che la finestra era aperta in pieno inverno.
Per sua sfortuna, Levi non gli fece fare il tour completo della casa; gli aveva detto che non ce n’era bisogno, lui doveva pulire solo quei due terzi di appartamento.
A causa di ciò, Eren esplorò il restante terzo della casa come un gatto appena portato in una nuova dimora.
Passi felpati, lunghi, lenti e soprattutto incerti caratterizzavano la sua andatura. Era la seconda volta in due giorni che si sentiva un ladro e, in effetti, se lo fosse stato veramente, avrebbe fatto passi da gigante.
Aveva paura di qualcosa ma non sapeva cosa. Era una sensazione strana.
Camminò fino alla fine del corridoio che separava il soggiorno dalla camera da letto e non appena aprì la porta, Eren vide il piccolo pezzo di mondo di quell’uomo freddo e distaccato: una semplice camera costituita da un letto matrimoniale, un grande armadio e una scrivania su cui poggiava un computer portatile. Le tende di raso nere e le lenzuola blu notte donavano alla stanza un’atmosfera elegante e semplice allo stesso tempo.
Si avvicinò ai mobili e notò che non c’era nemmeno un granello di polvere, ovviamente.
Non vi erano quadri e nemmeno oggetti personali, così aprì il comodino, trovò una carta di credito e una foto di una ragazzina con in mano un retino e un cerotto sulla fronte.
Il viso dai lineamenti leggermente infantili, capelli rossi e disordinati raccolti in due codini, sorriso a trentadue denti, occhi gioiosi. Girò la foto, sul retro c’era una dedica.
-Sono riuscita a prendere il pesciolino della felicità!  Appena torno te lo regalo.
Ti voglio bene, fratellone-
Un brivido gli attraversò la schiena ma stavolta non fu l’aria fredda. Solo in un secondo momento si rese conto che c’era una cosa che rendeva unica la camera: il suo profumo, un misto tra acqua di colonia e muschio bianco.
In quel momento, si sentì come abbracciato e allo stesso tempo solo. La sua mente si liberò, increspò le labbra, sapeva cos’era la solitudine.
Alla fine non trovò nessun caricatore.
 
***  Ore: 15:48  ***
 
«Quell’idiota!» Strinse il cellulare più forte che poteva, denti stretti e fronte corrugata.
Erano giorni che quel ragazzo non si faceva vivo e Mikasa stava per chiamare la polizia in preda ad un attacco d’ira mentre, lo sfortunato Armin, doveva cercare di calmare lei e il suo piede che continuava a spingere sull’acceleratore sfiorando la velocità consueta delle gare clandestine.
La perenne segreteria telefonica le faceva crescere la rabbia ormai incontrollata così stabilì che ad ogni chiamata senza risposta, Eren, avrebbe ricevuto un pugno nello stomaco e fino ad ora, quel povero ragazzo se ne era guadagnati ben settantadue.
Era anche vero che erano passati solamente tre giorni da quando si videro l’ultima volta ma lei era fin troppo premurosa – giusto per usare un eufemismo – nei confronti di Eren.
Al liceo veniva sempre considerata un maschiaccio per via del suo carattere, i capelli corti e la fissa per lo sport. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi ad un soggetto così irascibile, a parte Eren.
Se lo ricordava bene quel giorno d’autunno in cui si rivolsero la parola per la prima volta. Sembrò la scena di un film: lei seduta sullo scivolo di uno dei tanti parchi della città e lui che le parlò così naturalmente che qualunque ragazza si sarebbe sciolta alle sue parole.
«Smettila di fare la vittima. Vivi per te stessa.»
Beh, forse non erano parole proprio romantiche ma Mikasa aveva colto subito il senso di quello che Eren voleva dire. Lei era semplicemente una ragazza a cui piaceva kick boxing e che in futuro avrebbe voluto aprire una caffetteria tutta sua, non era una persona così immatura da preoccuparsi del giudizio della gente.
La sua personalità era il risultato della cattiveria delle persone ma nonostante il carattere aggressivo che creò per difendersi, la prima persona a infrangere le sue barriere fu proprio Eren.
Lui fu il suo primo amico e il suo primo amore.
«Non preoccuparti Mikasa, starà sicuramente bene, in fondo ha venticinque anni, non è più un bamb–»
Fu zittito dallo sguardo glaciale della ragazza. Era furibonda ma Armin sapeva che tra quella rabbia si nascondeva la stessa preoccupazione che una sorella aveva per il proprio fratello.
«Tuo nonno doveva per forza fare l’eremita in montagna come quello di Heidi? Guarda un po’, ci ritroviamo con quattro chiamate perse e poi il nulla. E se gli fosse successo qualcosa? Non potrei perdonarmelo.»
«Mikasa!» urlò dal seggiolino anteriore di quella sottospecie di sauna con le ruote. Nonostante fossero in inverno, quel veicolo diventava una vera e propria trappola. «Calmati, magari ha perso il caricatore. Non è di certo la prima volta. E poi, fallo respirare, forse sta scrivendo un articolo importante, che ne sai?»
La faccia imbronciata e turbata della ragazza diceva tutto. Cercava di calmarsi ma dentro di sé sapeva che qualcosa non andava.
 
Arrivarono finalmente al piccolo edificio in cui alloggiava Eren con una brusca frenata, un’irrequieta Mikasa uscì dal veicolo in fretta e furia; non vedeva l’ora di bussare a quella dannata porta per vedere il suo migliore amico. Bussò freneticamente ma nessuno rispose. Guardò dallo spioncino ma le luci erano spente e gli oggetti personali che di solito erano appoggiati su una credenza in cucina, non vi erano più.
«Oh no. No no no no.»
Armin la vide scendere le scale di emergenza frettolosamente con un’espressione ai limiti della preoccupazione. Decise di raggiungerla, anche per evitare il peggio.
«Mikasa che succede?»
«La casa è vuota. Vieni, dobbiamo parlare con uno dei vicini.»
I due si diressero verso uno degli appartamenti al piano terra e bussarono. Nell’attesa di una risposta, il biondo non esitò a farsi avanti.
«Lascia fare a me.» si portò davanti a lei, spostandola leggermente indietro. Sapeva che Mikasa non era la persona adatta a questo tipo di cose, soprattutto se c’era di mezzo Eren.
La porta si aprì rivelando un signore dalla corporatura robusta, barba incolta e un paio di occhiali tondi.
«Signore, scusi il disturbo ma, ecco, volevamo sapere se sapeva dirci qualcosa sul ragazzo che vive al primo piano di questo edificio.» chiese Armin con tono pacato e sorridendo cordialmente.
«Mmh, sì, ricordo che se n’è andato ieri. Dovevate sentire quante parolacce… Non so dirvi altro, giovanotti.»
Quelle parole lasciarono i due amici senza parole. Fu un fulmine a ciel sereno.
Armin, dopo aver ringraziato il signore, si girò sperando di veder Mikasa ancora in piedi. Effettivamente lo era ma sembrava fissare il vuoto.
Non sapevano dove fosse andato e la peggior delle ipotesi sfiorò la mente della mora che cominciò a dirigersi verso la macchina, ma venne tempestivamente fermata dall’amico.
«Ora guido io.»





 Schizzo Time 
Ehilà! 
In questo capitolo abbiamo tre situazioni diverse:
l'equivoco che ha condotto Jean da Marco [ehehehehe]; 
il povero Eren costretto a colf dell'appartamento di Levi che ancora non ha una dimora fissa [arriverà... arriverà];
e una Mikasa sull'orlo di una crisi di nervi che guida come un pilota di rally.
Tutto nella norma, insomma :D e la giornata non è ancora finita...
Volevo ringraziare moltissimo chi ha deciso di seguire i miei viaggi mentali, grazie millemila *dà cioccolatino* 
Un abbraccio,
Aira.

 




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