Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 15 Febbraio
Quel
ragazzo non poteva avere più
di vent’anni - con ogni probabilità ne aveva
qualcuno in meno. Helfried si
fermò per qualche istante davanti alla barella sulla quale
era adagiato il
giovane ferito, poi si rivolse al guerriero fermo a pochi passi di
distanza.
«Quanti morti?»
L’uomo
spinse fieramente in
avanti il mento, ma quel gesto non poté celare il dolore e
lo shock che
l’anziano capo riuscì a leggere nei suoi occhi.
«Una decina» rispose con voce
ferma. «Ne abbiamo contati altrettanti tra i romani,
però. E a breve a quel
numero dovranno anche aggiungere qualche ferito che non
supererà la notte, se
ho giudicato bene quello che ho visto.»
«Non
dare per scontato che i
nostri siano tutti salvi» mormorò Helfried,
scuotendo il capo con amarezza. Il
vecchio abbassò lo sguardo sul ragazzo che si lamentava
flebilmente, sospeso in
uno stato di semi incoscienza, e poi percorse con una rapida occhiata
la radura
tra gli abeti nella quale si erano accampati i suoi uomini.
L’inverno non aveva
ancora sciolto la sua morsa e il terreno era duro di brina e talmente
umido che
i piccoli fuochi accesi qua e là faticavano ad attecchire e
a riscaldare i
feriti che vi erano stati sistemati attorno.
Il
vecchio lasciò che l’aria che
aveva trattenuto nei polmoni defluisse in un sibilo lento e si
condensasse in
una nuvoletta di vapore davanti ai suoi occhi. D’un tratto,
sentì che le forze
erano sul punto di abbandonarlo.
Troppe battaglie. Troppi morti.
«Inizio
a essere stanco, Lothar.»
Gli
occhi scuri del guerriero si
fecero più attenti. «Sono giorni
difficili», esordì, in un borbottio sordo,
«ma
non abbiamo scelta: non possiamo arrenderci. Se oggi lasciamo che Roma
conquisti il lago, domani i legionari si faranno più audaci
e pretenderanno di
avere sempre di più. Non possiamo permettere che ci caccino
sulle montagne,
come bestie.»
«No,
ma non possiamo nemmeno
continuare a perdere uomini per difendere steppe e paludi.»
Con
la coda dell’occhio, Helfried
vide Lothar irrigidire la mascella nel tentativo di combattere la
frustrazione.
Era il suo guerriero migliore e lo sapeva: a volte quella
consapevolezza gli
faceva dimenticare la sua posizione e l’obbedienza che doveva
a lui, il capo
villaggio. «Con tutto il rispetto, ma non vedo molte
alternative» mormorò
Lothar, dopo qualche secondo di silenzio.
Il
vecchio sospirò di nuovo. «Fa’
che inviino un messaggio al Legato. Digli che voglio incontrarlo per
discutere
la proposta del loro Imperatore.»
Il
guerriero trattenne il respiro
per una frazione di secondo. «Tuo figlio non sarà
felice di saperlo.»
«Otmar
se ne farà una ragione»,
ringhiò il capo villaggio, «e i suoi compari con
lui. In ogni caso, era solo
una questione di tempo: non avremmo potuto ignorare ancora a lungo le
richieste
del Sacro Concilio.»
«Da
questa cosa non ne verrà
nulla di buono» borbottò Lothar, scuotendo il capo.
«Vedremo»
replicò il vecchio, con
lo sguardo perso tra gli abeti scuri. «Vedremo.»
***
Rieccomi con la versione riveduta e corretta di
questa storia,
pubblicata per la prima volta più di un anno fa sul mio
vecchio profilo. Nella
prima parte non cambierà un gran che, a dire il
vero… spero solo di essere
riuscita a correggere un po’ di sviste, errori e incoerenze.
Matilde
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