pretty capitolo finale
Pretty When
You Cry
Epilogo
[Vegeta’s POV]
L’ululato della
tormenta invade i miei timpani,
artigli di vetro arpionano il volto e le mani, frustati dalla neve
tagliente.
Il bianco è ovunque, ricopre e mangia la terra intrisa di
ghiaccio, è nelle mie
palpebre, nelle pupille divenute fantasmi slavati, accecati
dall’oscurità
sinistra di quel candore, una melodia inquietante che solletica le mie
viscere,
è fra le volute del mio mantello di seta, sferzate dal
vento, da cui schizzano
via innumerevoli gocce d’acqua, disciolte e respinte dal mio
movimento.
Affondo
nella neve ad ogni passo, in un
caleidoscopio muto, senza colori.
La
bufera urla, grida, strepita la sua
potenza e annienta, scatenata dal cielo scuro, lontano e distante come
una nebbia
corvina, roboante di tuoni.
Se
non sentissi il cuore battere,
frenetico come un terremoto nella cassa toracica, assordante pur nel
fragore
del ghiaccio, giurerei di non essere altro che una propaggine di questa
tempesta, una folata gelida e furiosa al tempo stesso, maledetto come
la terra
sterile, derubato di ogni linfa vitale.
Invece...
sono vivo.
Sono
vivo.
Ancora vivo.
Sbatto
ripetutamente le palpebre irritate
per il freddo, cercando di guardare la sagoma del mio petto alzarsi e
abbassarsi ritmicamente, le gambe muscolose, gli stivali scuri
inghiottiti dal
bianco.
Il
tempio del mio corpo è stato
disonorato, ridotto a un impasto fluttuante, della stessa materia delle
tenebre,
del nulla, attraversata dal fumo dell’incenso che brucia.
Durante
l’esplosione, su Hagalaz, ho
sentito le costole sbriciolarsi, polvere nel sangue, spappolate sotto
la pelle
divenuta nera.
Dopo,
nella confusione tumultuante della
sala del trono di Freezer, il tempo sembrava essersi fermato, la
clessidra
trattenuta dalle sue dita bianche: ero ritornato a essere soltanto un
giocattolo spezzato, l’ennesimo dei pianeti su cui sfogare
vampate di
frustrazione, la terra smossa, le strade rovesciate, la vita rimasta
che grida in
uno stillicidio di morte, inghiottita dalla pressione bulimica dello
spazio.
Lavarmi
e sfregarmi, scorticarmi con le
unghie tutto il corpo non è stato sufficiente a liberarmi
del sangue. Torrenti
di porpora colavano lungo le mie gambe, sui piedi, disperdersi
nell’acqua della
doccia, mescolandosi alla terra nera intrisa fra i capelli, ma quel
sangue è
ancora dentro di me, porpora tiepida che mi corrompe dentro,
sporcandomi le
ossa. L’acqua bollente che faceva ringhiare le mie cicatrici
fresche, come arse
dall’interno.
“Tu
non sconfiggerai mai
Freezer. Mai...”
La
voce stridula di quella donna risorge,
distorcendosi in un’eco infinita nella mia testa, rimbombando
all’altezza del
mio petto dove vibra, pulsa e genera spasmi dolorosi.
Sento
qualcosa risalirmi la gola, un bolo
di tensione e di rabbia che riempie rovente il mio corpo, vorrei
soltanto gridare
di rabbia, le corde vocali si tendono, compresso nei pochi centimetri
del mio
corpo, troppo piccolo perché riesca a contenere
l’abisso che mi trapassa ogni
secondo, sempre più profondamente.
Mi
mordo le labbra nel tentativo di non
urlare quando, in fondo, nel bianco vorticante, scorgo le forme esili
delle sue spalle.
Le
sue viscide, subdole, ipocrite spalle,
bagnate dal vento algido come se fosse una carezza, il viola che
riluce,
talmente intenso da essere violento, fosforescente nel candore.
La
sua coda si muove appena nella neve,
lenta, come se fosse stanca.
La
forza di Freezer corrode caustica le
mie vene, elettricità pura, oscena e gelida, tutto il mio
corpo è teso dalla
fibrillazione, formicolante per l’energia in sovraccarico che
lo percorre a
ripetizione, incontrollata come una bestia che cerca di liberarsi dalle
catene.
Se
questa è soltanto una briciola della
sua potenza, io non avrò mai alcuna speranza contro di lui.
Deglutisco, sfibrato
dal respiro corto, ansante per la tensione, mentre ogni passo mi
avvicina a lui.
La
nebbia tumultuante si dirada,
mostrandomi in lontananza la figura di Zarbon che indica a dei soldati
dove
caricare le scorte per il viaggio fino alla galassia di Dagaz.
Almeno
tre mesi di viaggio, una battaglia
in cui potrei morire come un insetto, dilaniato dalla potenza degli
abitanti
del pianeta che né l’esercito di Re Cold
né quello di Cooler sono riusciti a
conquistare. Freezer lo vuole, sbatte capricciosamente i piedi a terra
al
pensiero di superare il padre e il fratello e probabilmente potrebbe
farlo con
facilità se solo accettasse di scendere personalmente sul
campo di battaglia.
La
loro non è altro che una partita a
scacchi, dove a vomitare sangue e a morire sono soltanto le pedine.
Ricordo
il mio volto riflesso nello
specchio, i suoi lineamenti, il suo
sguardo, il suo modo di arricciare la bocca nel disgusto, il suo naso
dritto. Il
mio viso è cambiato, le linee rotonde del bambino sono state
irrigidite, battute
a sangue e incatenate una metamorfosi crudele, seguite dai miei occhi,
sempre
più segnati, cupi di fronte
all’immensità.
Chiudo
le palpebre per un istante e ripenso
al silenzio degli astri, immobili, avvolti in una melodia senza tempo,
alla navicella
biposto in cui io e mio padre viaggiavamo quando mi portava in guerra
con lui.
Gli
unici momenti di vicinanza che abbiamo
mai avuto. Non diceva una parola, le labbra strette in
un’espressione severa, osservava
il fluire dello spazio aperto, riflesso nei suoi occhi scuri,
attraversati da
una miriade di stelle ardenti. Non lo vidi mai vulnerabile come in quei
rari
istanti in cui ritardavo volontariamente l’ibernazione per
osservare
incuriosito come si discioglieva il suo volto addormentato.
Tutto
di quell’uomo, della sua razza, vive
in me, le radici incastrate talmente in profondità nel mio
sterno che per
ucciderlo definitivamente dovrei uccidere anche me stesso.
«Ve-ge-ta.»
Un
sussurro si insinua fra la neve,
scandendo lascivo il mio nome.
Le
sue spalle si contraggono, la coda
inizia a sferzare nervosa la neve, scavando come una frusta solchi
profondi
fino alla terra nera.
Un
azzurro liquido, rovente come la lava,
cola lungo il mio petto come una lunga lacrima di liberazione: ricordo
soltanto
quel colore, un blu di zaffiri fosforescente, un turchese dipinto nella
pace,
nella bellezza dell’universo. Un ceruleo che corteggia
l’anima e dischiude le
sue porte, come un fiore che si inchina di fronte alla luce.
Ricordo
gli occhi maliziosi di quella
donna e una sensazione di pace, vivida al punto di tagliarmi le carni,
nient’altro,
un vuoto che mi riempie di brividi la spina dorsale.
Quello
non può essere il paradiso che mi
attende alla mia morte. Io non sono altro che un assassino, una pedina
del gioco
che fa a pezzi le altre pedine per avanzare sul terreno, senza curarsi
del
rosso luminescente, sparso fra il bianco e il nero in mille cocci.
Una
timida speranza sboccia dentro di me.
Forse
un diverso epilogo vedrà solcare i
miei passi.
Potrebbe
essere l’ultima volta che lo
vedo, l’ultima volta in cui ascolto il silenzio degli astri,
il frastuono dei
meteoriti che si schiantano, il fragore delle stelle che deflagrano,
inosservate, penetrate dall’oscurità,
l’omertà dei buchi neri che risucchiano
tutto ciò che si trova intorno a loro, la solitudine dei
pianeti obbedienti,
incamminati lungo un’orbita, pieni di fiducia nel continuare
ad attraversarla
nell’aspettativa che tutto andrà bene.
Continuerò
sempre a combattere per la mia
vendetta.
Perché...
nonostante tutto, io voglio vivere.
[Freezer’s POV]
La
tormenta mi culla, ipnotica e atroce,
sussurrandomi veleno che solo io posso comprendere. Grida, strepita e
ulula che
l’ho tradita, che le mie mani si sono sporcate di un calore
bastardo, lurido,
che quel lerciume è ancora vomito nella mia bocca.
Le
sue maledizioni si scompongono in
volti sinistri, ombre di angoscia disciolte nella nebbia e nel fragore,
i cui
occhi mi fissano accusatori.
Sento
le vene contorcersi per la
stanchezza, le palpebre bruciare, sobillato dal richiamo famelico della
neve
che brama, licenziosa, di ricongiungersi a me, bisbigliandomi di
dimenticare
Vegeta, mio padre, Cooler, di abbandonare questo Impero, la vita di
razionale
dominio e conquista che non si addice per nulla alla mia natura.
Io
sono un demone del freddo, la cui
carne sorge impastata al ghiaccio, trapassata dalle stalattiti e dal
rigore
dell’inverno imperituro. Io sono nato per uccidere, per
dominare, per
annientare, per strappare con gli artigli e con i denti il terrore
altrui e
cibarmi famelico dei loro cuori roventi, pulsanti, deglutendo mentre la
porpora
mi cola lungo il mento.
Mi
lascio accarezzare dalla polvere di
vetro, socchiudendo gli occhi in due fessure.
Mentre
una parte della mia energia vitale
fluiva dalle mie dita, penetrando come una scossa elettrica il corpo di
Vegeta,
ho sentito le vene del braccio squarciarsi, come carbonizzate,
violentate da un
pensiero proibito. Qualcosa nelle profondità delle mie
viscere ha vibrato di
rabbia, di un’ingiustizia simile alla violazione di un
giuramento di sangue. Io
non sono nato per donare la vita, soltanto la morte.
I
conati di vomito mi hanno ustionato
l’esofago mentre ridevo.
Perché
l’ho fatto?
Parole
non dette vibrano censurate nella
mia mente.
Il
suono decadente e malinconico della
tempesta mi ricorda quello dei singhiozzi di Vegeta, piangeva talmente
tanto
che il suo volto era diventato violaceo, consumato della disperazione e
dell’angoscia. I suoi occhi neri vagavano come spiriti
maligni, senza pace,
annacquati dalle lacrime che colavano sulle sue guance livide, il volto
austero
inghiottito dall’abisso, fatto a pezzi come una bambola a cui
hanno
accoltellato i lineamenti, ricomponendoli in posizioni diverse.
Sorrido
nel ripensare a quell’immagine,
malizioso, passandomi la lingua sui denti nel rivivere quel piacere, un
brivido
che mi attraversava la schiena, come un fulmine che cerca la terra,
impetuoso e
cieco a qualunque altra cosa.
Sento
il suo odore di barbaro selvaggio
mescolarsi alla neve vorticante, furente, che tenta di dissuadermi
ancora
riempiendomi i timpani con grida possessive, gli artigli tentano di
chiudermi
la bocca, trapassandola di spilli.
«Ve-ge-ta.»
La
verità è che volevo continuare a
guardarlo piangere per sempre.
Cosa
c’è di tanto disonorevole?
Si
avvicina, suadente, l’ombra gettata
dal suo corpo esile che raggiunge lentamente la mia, disperdendosi in
essa. La
chimera di tenebra è immobile nel bianco, nera come
l’abisso, un mostro
immobile partorito dall’oscurità di una notte
eterna.
«Non
pensavo che attribuissi valore alla
vita delle puttane.»
È
il sibilo tagliente della sua voce,
caustica come un manrovescio in pieno volto.
Come
osa
mancarmi di rispetto?
Contraggo
adirato la mandibola, facendola
schioccare, mentre il resto del mio volto si scompone in una risata
divertita,
contemporaneamente stuzzicato dalla sua perspicacia.
Sono
io
quello che si è piegato veramente.
Come
osa sottolineare la mia debolezza?
Crede
forse che io non me ne renda conto?
Che
non senta il grido della neve,
stuprata, che smania la vendetta, che brama soltanto il sangue di cui
cibarsi,
saziarsi, innamorata della morte, esorcista di ogni scintilla vitale?
Mi
volto di scatto e incontro il suo
sguardo duro, forgiato nell’adamantio delle
profondità della terra corvina, mai
sfiorata dalla luce.
Nulla
traspare dal suo viso ostile, i
lineamenti irrigiditi in una maschera serrata come una cassaforte.
Indossa la
battle suit delle occasioni diplomatiche, seta lucida che gli fascia il
corpo
magro e muscoloso, l’eleganza tradita dal suo collo, dove i
segni delle mie
dita scavano ancora lividi nella sua pelle diafana, profondissimi e
scuri.
Mi
avvicino repentinamente, respirandogli
sul volto, i rubini nelle mie iridi che rifulgono di una luce sinistra,
porpora
liquida, vermiglia e bruciante come il rosso degli astri che muoiono
soli nello
spazio vuoto.
«Di
certo tu non attribuisci valore al
silenzio.»
Afferro
il bavero della battle suit e
stringo fra le dita il suo mento, accarezzando con le unghie le ossa
fragili
della sua mascella, rigenerate dalla mia potenza.
Le
mie labbra mordono le sue,
succhiandole, tagliandole con i denti affilati, afferrano e squarciano
la sua lingua.
Il
suo sapore.
Carne
e sangue caldo di bestia.
Il
sangue dolce e ferroso del mio
moccioso.
Un
brivido di piacere e di adrenalina mi
attraversa elettrico la schiena e mugugno, deliziato, la bocca che si
apre in
un sorriso nel notare la veemenza di Vegeta nel ritrarsi disgustato,
allucinato, portandosi istintivamente una mano alla bocca e sfregandola
lentamente
con il guanto candido.
Una
striscia viola, oleosa, macchia il
tessuto candido dei suoi guanti, mescolata allo scarlatto diluito dalla
saliva.
Nel notare la sua espressione turbata non riesco a impedirmi di
deriderlo,
tradito da una risata sguaiata, dissonante, che sbrana i miei
lineamenti fini.
Lascio
andare il bavero della sua
uniforme, mentre osservo la bile corrodergli l’esofago.
Ancora una volta
vorrebbe piangere, gridare, urlare con tutta la forza che ha in corpo,
ma
obbliga il suo volto a liquefarsi in un ghigno, tradito soltanto dalla
mandibola contratta come l’acciaio, gonfia sotto la pelle
diafana degli zigomi
pronunciati.
Mi
sorride, specchio del mio sorriso, materia
della stessa oscurità vischiosa e cangiante.
«Torna
vivo, Vegeta.» ordino, secco,
disperdendo lo sguardo nella tormenta e nello spazio che si estende,
incommensurabile, oltre il cielo plumbeo.
«Sono
un Saiyan.»
Un
barlume di irritazione mi fa vibrare
il petto, nauseato al suono di quella parola.
Gode
della mia stizza e il suo sorriso si
allarga ancora di più, una voragine bastarda si dilata sul
suo viso sferzato
dalla polvere di vetro. Si volta e si allontana lentamente, mentre mi
sforzo di
seguire le sue spalle esili e i suoi capelli corvini nel caleidoscopio
vorticante, fino a quando non rimane soltanto l’ululato della
tempesta,
affilato quanto la vergogna che mi taglia la faccia.
Mi
lecco le labbra, nostalgico e
famelico, masturbandomi con l’ultima goccia del suo sangue,
ancora incastonata
nell’increspatura della mia bocca.
“Traditore”
Gridano,
assordanti, inesorabili, gli
spiriti della neve.
Fine
*
Ciao a tutti!
Questa volta ho
deciso di posticipare lo spazio autore alla fine per salutarvi tutti
con
affetto, volevo dire un grazie di cuore a tutti quelli che mi hanno
letta,
inserita nelle preferite, nelle ricordate e nelle seguite, ma
soprattutto recensita!
Mi avete incoraggiato a proseguire e mi avete fatto molto piacere!
Questa è la
mia prima “long” che vede una conclusione e sono un
po’ emozionata!
Oltretutto...
era una storia alquanto particolare e avevo paura di fare un gran
pasticcio e
di essere radiata dal fandom! *ride*
Che dire, spero
che l’epilogo abbia soddisfatto le vostre aspettative...
attendo ansiosamente
commenti...
Un abbraccione,
Nu :*
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