Una
favola
Quando
sei un lupo mannaro, è difficile vivere una vita normale; se
poi sei stato
infettato in tenera età, semplicemente capisci che
un’esperienza del genere ti
sarà negata per tutta la vita.
Ecco
perché, quando Lyall Lupin parlava al figlio di Hogwarts,
delle scale che
portavano sempre in luoghi diversi, delle materie magiche che sua madre
non
poteva conoscere, Remus le immaginava come immaginava le principesse e
le fate
madrine dei libri di fiabe babbani. Erano incantevoli, non si stancava
mai di
ascoltarlo: ma sapeva che per lui non erano previsti Smistamenti e
lezioni di
incantesimi, così come non avrebbe mai trovato una
principessa innamorata di
lui o una fata madrina che lo salvasse. Come poteva un licantropo
trovare una
casa, chi poteva amare un mostro come lui?
Quando,
quel giorno di marzo (una settimana prima del suo compleanno, se lo
ricordava)
arrivò una lettera di pergamena indirizzata a Remus John
Lupin (proprio a lui!),
l’evento assunse una rilevanza
tale che lui e la madre aspettarono che il padre tornasse a casa da
alcune
commissioni prima di aprirla.
Quando
Lyall rientrò grondante pioggia, Remus gli corse
incontrò e lo abbracciò con
forza: la tensione accumulata in quelle lunghe ore d’attesa
doveva pur essere
sfogata in qualche modo.
Quando
il padre capì il motivo dell’agitazione del
figlio, chiese di vedere la
lettera; non appena l’ebbe guardata, anziché
aprirla, divenne scuro in volto e
chiese alla moglie: “Tesoro, l’hai data tu questa
lettera al ragazzo?”
“Certo
che no, Lyall! La posta l’ha presa Remus come
sempre… E poi, dov’è il problema?
Non so neanche da dove provenga…”
A
quel punto il signor Lupin parve ricordarsi del figlio accanto a lui e
gli
disse: “Remus, va’ in camera tua. Mamma e
papà devono parlare di cose da grandi,
ora”.
Remus
avrebbe voluto restare, ma decise di non discutere. Suo padre gli
sembrava già
abbastanza nervoso senza mettersi a fare capricci per poterci capire
qualcosa.
Così andò al piano di sopra senza protestare, ma
anziché andare in camera sua
in fondo al corridoio, si fermò nel piccolo bagno in cima
alle scale e accostò
la porta: così facendo poteva sentire tutto quello che si
diceva in salotto. Si
accomodò sul bordo della vasca e tese l’orecchio.
“…
Non so se ne capisci la gravità” stava dicendo
Lyall.
“Lyall,
se non mi spieghi quello che vuoi dire…”
“Questa
lettera è la lettera d’ammissione ad Hogwarts, la
scuola dove ho studiato io. È
una scuola per maghi, e dato che Remus ha mostrato abilità
magiche sin da
neonato ho sempre temuto il giorno in cui sarebbe arrivata.”
“Ma…
perché?”
“Perché
Remus è un lupo mannaro,
Hope!” urlò Lyall, così forte che Remus
sobbalzò, rischiando di cadere dalla vasca per lo spavento.
La
pausa che seguì fu così pesante che quasi la si
poteva toccare.
Lyall
aveva infranto il tacito accordo che vigeva in famiglia: mai nominare
la
licantropia di Remus; se proprio dovevano parlarne, si faceva
riferimento alla
“malattia” o al “disturbo”,
come se non nominarla rendesse la situazione meno
grave. Ma non era così, e Remus lo sapeva; e ogni volta che
i dolori della
trasformazione lo travolgevano e lo straziavano, l’ultimo
pensiero prima di
perdere la ragione umana era sempre rivolto all’ipocrisia di
quel modo di
parlare dei suoi genitori, la loro stupida idea che ridurre un tale
abominio a
qualcosa di più vago e innocuo rendesse il tutto
più sopportabile.
Hope
mormorò qualcosa che Remus non riuscì a
decifrare, ma Lyall rispose: “Essere un
lupo mannaro nella comunità magica è
come… una maledizione. I lupi mannari sono
dei reietti, vivono al di fuori della società, nessuno li
vuole accanto a sé;
figurarsi se possono desiderare un licantropo adolescente in mezzo ai
loro
preziosi pargoli! Non voglio che Remus soffra più di quanto
già gli capiti
durante ogni luna piena… farei di tutto per fargli vivere
una vita normale, ma
vedi anche tu che non è possibile, e controllarlo
è sempre più difficile man
mano che cresce”.
“Ma
se provassimo…”
“Hope,
lo so che sei un’ottimista, ma dobbiamo guardare in faccia la
realtà: Remus è
quello che è, non esiste cura, e quelli come lui vengono
allontanati da tutti.
Non voglio che soffra, ma non possiamo permetterci di mandarlo ad
Hogwarts e
far scoprire a tutti la sua situazione. Mi spiace, tesoro, ma
è la mia ultima
parola.”
A
quel punto Hope tacque e poco dopo la sentì spadellare in
cucina. Dalle scale
saliva odore di frittelle, ma questo non rese felice Remus: era la
prima volta
che poteva essere parte di qualcosa di grande, e come sempre gli era
preclusa.
Con un sospiro, andò in camera sua in attesa che lo
chiamassero a tavola.
La
cena fu particolarmente silenziosa, quella sera; e al momento del
dolce, mentre
la signora Lupin sgocciolava le frittelle, Lyall prese da parte Remus e
gli
disse: “Figliolo, devo parlarti di una cosa
importante”.
Remus
sapeva fin troppo bene cosa voleva dirgli: notizia buona, sei un mago
come
papà; notizia cattiva: non ci puoi andare perché
tutti pensano che tu sia un
mostro senz’anima. Decise comunque di assumere
un’aria innocente. “Di cosa
papà? Della lettera di oggi?”
“Ecco,
proprio a proposito di quella, volevo dirti che…”
Remus
non seppe mai quali parole avrebbe scelto il padre per spiegargli la
decisione,
perché proprio in quel momento qualcuno bussò con
una certa insistenza alla
porta. Fu sua mamma ad aprire.
“Buonasera.
Ho l’onore di parlare con la signora Lupin,
suppongo”.
“Ci
conosciamo? Mi perdoni” aggiunse in fretta, come per smorzare
il suo tono un
po’ brusco, “ma siamo nuovi in città,
non mi ricordo d’averla mai vista”.
“Ah,
mia cara signora, dubito fortemente che si possa ricordare di
me… ma mi scusi,
non mi sono presentato: professor Albus Silente, per servirla, madame”.
Remus,
che aveva approfittato della distrazione del padre per cominciare a
raccogliere
le Gobbiglie (“Mai lasciarle in giro”), si sporse
verso la porta qual tanto che
bastava per vedere un uomo dalla barba argentea e un naso lunghissimo
fare un
elegante baciamano alla mamma. Non l’aveva mai visto fare da
nessuno prima, e
la trovò una cosa molto buffa, ma anche molto deferente
(aveva trovato quella
parola su un libro quella mattina, e gli era piaciuta moltissimo).
“Mi
scusi per il disordine, professore, ma sa… non aspettavamo
ospiti” si scusò
Hope mentre con un vago cenno della mano indicava la cesta dei panni da
lavare
in fondo al corridoio, il vecchio calderone di Lyall pieno di riviste e
gli
stivali di gomma ammonticchiati in un angolo dell’ingresso.
“Possiamo offrirle
qualcosa per rinfrancarsi?”
“Oh,
un tè caldo andrà benissimo… magari
accompagnato da una delle deliziose
frittelle che ha appena preparato. Mele, o sbaglio?”
“No,
non sbaglia” Sua mamma era un po’ perplessa: al di
là della famiglia del
marito, i suoi contatti col mondo magico erano limitati al Medimago che
aveva
in osservazione Remus; inutile dire che un mago come Silente la
lasciasse un po’
interdetta. “La prego, si accomodi pure in salotto. Io torno
subito”.
Silente
ringraziò in maniera molto compita e si diresse verso il
caminetto del salotto,
ai piedi del quale Remus stava raccogliendo le ultime Gobbiglie.
“Ah,
tu devi essere il giovane Remus!” esclamò Silente.
“Io sono il professor
Silente, preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Tu
sai cos’è
Hogwarts, suppongo”.
“Sì,
signore, mio padre me ne ha parlato molto” Abbastanza
da illudermi, avrebbe aggiunto volentieri, ma temeva che
suonasse troppo
drammatico. “Sono indiscreto se le chiedo perché
è qui, signore? Ovviamente, se
non vuole dirmelo…” aggiunse frettolosamente.
Anche se non sarebbe mai stato
allievo della sua scuola, quel mago dalla lunga tunica viola era pur
sempre uno
dei più grandi maghi del mondo, meritava rispetto.
Silente
sorrise. “Il perché è molto semplice,
Remus: devo parlare coi tuoi genitori.
Fino ad allora… che ne dici di una bella partita a
Gobbiglie? Sono anni che non
gioco più, ma sappi che ero imbattibile da giovane,
più o meno nell’età della
pietra” disse lui, con un sorriso divertito. Remus gli
sorrise di rimando e gli
diede le sue Gobbiglie migliori, mentre aspettavano che i genitori si
riprendessero
dalla sorpresa e accogliessero l’anziano insegnante. Questo
avvenne quando
ormai era in corso una lotta all’ultimo sangue che vedeva
Remus in schiacciante
vantaggio (anche se il ragazzino aveva l’impressione che
Silente perdesse di
proposito).
“Salve,
signor preside” La voce gentile del padre tradiva un certo
nervosismo davanti
al suo ex-insegnante. Era entrato in salotto accompagnato da Hope, che
portava
un vassoio con tre tazze da tè, la teiera fumante e le
focaccine di mela col
loro caratteristico profumo. Il tintinnio di stoviglie che aveva
accompagnato
il suo arrivo era dovuto al fatto che le tremavano le mani.
“Signora,
non si affatichi, lasci fare a me” disse con gentilezza
Silente, e con uno
svolazzo quasi noncurante della bacchetta sollevò il vassoio
dalle mani della
signora Lupin e lo fece atterrare con grazia sul tavolino. “I
miei complimenti,
le sue focaccine hanno un aspetto davvero invitante”.
“Oh,
grazie, preside Silente, signore” Hope era imbarazzata, e si
sentiva
decisamente a disagio – probabilmente il marito
l’aveva aggiornata rapidamente
sul loro ospite inatteso.
“Remus,
per favore, saluta il preside e dì buonanotte”
Lyall si rivolse a suo figlio
con un tono cortese ma irremovibile.
“Con
tutto il rispetto, Lyall – posso chiamarti così e
t’ho avuto come allievo per
tanti anni – ritengo che sia più giusto che Remus
rimanga con noi, dato che
discuteremo del suo futuro”. La voce di Silente era calma e
serena, ma il lampo
che gli brillò negli occhi dietro le lenti a mezzaluna non
ammetteva repliche.
Lyall ebbe come un fremito di nervosismo, ma la mano di Hope appoggiata
discretamente sul suo ginocchio lo rilassò.
“Ora,
signori Lupin, sono certo che abbiate già ricevuto la
lettera d’ammissione ad
Hogwarts… e del resto penso che lo sappia anche
Remus” aggiunse Silente. I
genitori guardarono il figlio, che distolse lo sguardo e
mormorò: “Potrei
aver sentito qualcosa quando mi
avete fatto salire prima di cena”. Non era proprio la
verità, ma in fondo non
era nemmeno una bugia, quindi si sentì a posto con la
coscienza.
“Ritengo
che abbiate dei dubbi molto seri sul mandare un giovane licantropo a
scuola.
Oh, sì, Lyall, so della situazione molto particolare che
affligge Remus – ho
agganci fidati anche nella comunità dei lupi mannari
– e so per certo che il
vostro primo pensiero sia stato di ignorare la lettera o rifiutare
l’ammissione”.
“Ma
la sua situazione…”
“Lyall,
chiamiamola col suo nome: licantropia.
La paura di un nome non fa altro che aumentare la paura della parola
stessa”.
Il
silenzio che seguì l’affermazione di Silente tolse
a Remus ogni dubbio sul
fatto che aveva ragione: i suoi non volevano mandarlo ad Hogwarts,
anche se
poteva – anche se voleva.
“Signori
miei, vi assicuro che la scelta sarebbe poco saggia. Se è
innegabile che
Hogwarts è piena di adolescenti, è pur vero che
è un luogo sicuro, col più alto
tasso di esperti e studiosi del panorama magico britannico. Siate certi
che
all’interno del nostro corpo docenti e dei nostri assistenti
possiamo offrire
la possibilità a Remus di frequentare normalmente la scuola
nonostante le
trasformazioni e di assicurare al contempo la sicurezza di tutti i suoi
compagni di scuola. Remus è un lupo mannaro, ma è
anche un ragazzino di undici
anni che ha il diritto di vivere una vita il più possibile
normale, in
compagnia di ragazzi della sua età, cercando di crearsi un
posto in un mondo
che non è certo facile, specie di questi tempi”.
Silente fissò Remus negli
occhi per un istante che parve eterno, e al ragazzo parve di essere
trapassato
da parte a parte da quello sguardo acuto, come se potesse leggergli
dentro. “Da
parte nostra, possiamo assicurarvi che abbiamo già un
progetto per permettere
tutto questo. Ma ve lo esporrò solo nel momento in cui
assicurerete a Remus la
possibilità di scegliere cosa fare nel suo futuro.”
Dopo
una lunga pausa, Hope si girò verso il figlio, lo
accarezzò con delicatezza e
gli chiese: “Remus, tesoro, tu vuoi o non vuoi andare ad
Hogwarts?”
“Mamma,
so che mi vuoi bene, come papà, e anch’io ve ne
voglio, ma so anche che più
cresco, più divento un problema con la luna piena
– mamma, non negare, io sono
un problema. Penso che in un luogo
pieno di maghi adulti come Hogwarts si potranno trovare alcune
soluzioni per
gestire una bestia senza cuore”. Remus si sforzò
per non piangere, lo sguardo
fisso su una macchia nella moquette del salotto, ma non poté
impedire ad una
lacrima di solcargli silenziosamente la guancia.
“Figliolo,
non lasciare che la licantropia ti condizioni la vita. Tu sei innanzi
tutto e
soprattutto un essere umano, un ragazzo come altri ragazzi, che vuole e
merita
una vita e un futuro come loro”. Una mano si
poggiò sulla spalla del
giovinetto, e lui alzò gli occhi per guardare chi lo
sfiorava con tutta la
forza e la delicatezza dell’amore.
Con
stupore di Remus, suo padre, il suo incrollabile papà, che
da sempre indossava
una corazza di imperturbabilità davanti a lui ma che dentro
teneva il senso di
colpa per la condizione del suo unico figlio, dimostrava che aveva
sbagliato, che
ne era consapevole, e che Remus aveva il beneplacito per vivere
finalmente a
contatto con i coetanei. Il preside cominciò a parlare ai
signori Lupin di
passaggi sicuri e luoghi dove la trasformazione mensile sarebbe passata
inosservata, fuori dai confini della scuola, ma lui già
vedeva nella sua testa l’espresso
per Hogwarts, le torri del castello dal lago Nero, i vapori colorati
salire dai
calderoni, i lampi di luce degli incantesimi, e sapeva che quelle
storie che
per lui erano state solo favole stavano per diventare
realtà, e non poté fare a
meno di sorridere finalmente felice.
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