Capitolo 1
Dicembre 1991
“Diamoci una mossa, Martin ci aspetta,” disse Stuart Brennan mentre il
gruppetto usciva dal ristorante.
Sonny Butrick accelerò il passo, diretto alla macchina, mormorando un
‘ok, Stu’.
Piton lo ignorò, fermandosi ad accendere una sigaretta con calma:
“Voglio passare dal laboratorio, Sonny.”
Il ragazzo si bloccò: “Oh, certo, John.”
Brennan sbuffò: “È tutto a posto, là. I ragazzi hanno tutto sotto
controllo anche senza di te. Martin vuole parlare di contabilità.”
L’uomo diede una strizzata alla donna che aveva al fianco. “Profitti,” chiarì,
con un sorrisetto. Lei ridacchiò.
Piton non si curò di rispondergli. Si incamminò e l’altra donna del
gruppo gli si affiancò prendendolo sottobraccio in un gesto di possesso
che lui accettò con noncuranza.
Piton sapeva che insieme, lui con i capelli lunghi e vestito
completamente di nero, dalle scarpe alla cravatta al cappotto di
sartoria, lei bellissima nella sua pelliccia chiara, bionda e
appariscente, erano di molto sopra le righe; diversi dal resto dei
passanti che affollavano il centro approfittando della pausa pranzo per
lo shopping natalizio. Né l’altra coppia era più sobria: tacchi alti,
completo vistoso. Tutto gridava al mondo quello che erano, secondo lui.
Delinquenti, criminali. Non che fosse un problema, anzi era un effetto
voluto.
“Il nostro ambiente ha le sue regole,” gli aveva detto Martin Eggar una
volta. “Alcune riguardano l’apparenza. Ristoranti costosi, belle
macchine, ragazze disponibili con indosso bei gioielli. È una
manifestazione di potere. È importante che sia così,” aveva concluso,
come spiegando una cosa fondamentale a un bambino curioso.
La bionda accanto a Piton –Rarity- gli era stata presentata dallo
stesso Martin, poco tempo prima. Era una delle tante ragazze che
affollavano il loro ambiente, che finivano a tenere compagnia a uomini
come loro mentre parlavano di affari in locali alla moda e a farsi
scopare in begli appartamenti sul fiume.
Anche Sonny, che era corso ad aprire la macchina, sembrava esattamente
quello che era: una via di mezzo tra un lacchè e una guardia del corpo.
Come Rarity, e altrettanto misteriosamente, sembrava prediligere Piton,
rispetto a Brennan.
Il ragazzo aveva trovato un soprannome per Piton, e adesso in molti lo
chiamavano John Constantine. Il mago che ride.
“Ma John non ride mai,” gli aveva fatto notare qualcuno.
“Be’, ride per prenderti per il culo, no? Come si dice…con scherno,
ecco!” aveva ribattuto Sonny. “E poi, John è un mago, no?” aveva
aggiunto a voce più bassa.
Piton era sempre stato più che attento a non usare la bacchetta davanti
ai babbani, ma attorno a lui accadevano sovente cose strane: oggetti
che sembravano volargli in mano, luci che si comportavano in maniera
bizzarra quando lui era di cattivo umore, quella perenne sensazione che
potesse leggere il pensiero…
Piton aveva lasciato che si diffondesse la voce che era un appassionato
di occultismo. Era incredibile cosa i babbani finivano per accettare
per normale, se si forniva loro uno straccio di giustificazione, anche
tirata per i capelli.
Viveva tra i babbani da quasi dieci anni, ormai, e non finivano di
stupirlo. Né di disgustarlo, sovente. Ma non si poteva dire di meglio
del mondo magico.
Buffo. Aveva passato quasi tutta la vita odiando le sue origine
babbane, facendo di tutto per allontanarsi da Cokeworth, dal proprio
nome e dal sangue sporco che gli aveva donato.
Si era unito al Signore Oscuro e ai suoi Mangiamorte, finalmente parte
di qualcosa, finalmente uguale a tutti gli effetti agli altri
Serpeverde. Tutto ciò che avrebbe potuto allontanarlo dalla decisione
di prendere il Marchio Nero, l’amicizia di Lily, la speranza che lei un
giorno lo amasse, un giorno, era storia passata da tempo.
Finché non aveva ascoltato quella dannata profezia.
L’aveva ripetuta al Signore Oscuro, ma aveva realizzato subito dopo che
poteva essere interpretata in modo da indicare i Potter e loro figlio.
Il figlio di Lily.
Aveva pensato di implorare il Signore Oscuro di risparmiare Lily, ma
qualcosa l’aveva fermato: Lui voleva che Piton spiasse Silente? Così
avrebbe avuto una buona scusa per incontrare il vecchio Preside, e
avvertirlo del pericolo che minacciava Lily.
Ma il signore Oscuro non aveva attaccato i Potter: loro erano appena
stati messi al sicuro con un Incanto Fidelius, che il signore Oscuro
colpì i Paciock, che Silente non era ancora riuscito a mettere al
sicuro.
Il resto era storia: il piccolo Neville, i cui genitori erano morti per
proteggerlo, era sopravvissuto all’Anatema che Uccide. La maledizione
rimbalzò su di lui uccidendo Voldemort.
O almeno, questo era quanto la maggior parte della comunità magica
credeva. Per Silente, le cose erano più complesse.
“Sono certo che ritornerà, Severus, e cercherà ancora il ragazzo.
Dovremo essere pronti.”
A Piton non era piaciuto, quel ‘dovremo’.
Il vecchio mago aveva cercato di legarlo a lui, dapprima facendo leva
sul senso di colpa che avrebbe dovuto provare verso i Paciock: “Che le
tue preoccupazioni siano andate per prima cosa alla tua vecchia amica
ti fa onore, Severus. Ma se tu fossi stato meno selettivo, nella
tua compassione, forse avremmo potuto salvare due vite.”
Ma Piton non provava alcun senso di colpa, verso i Paciock. Se avesse
potuto, avrebbe protetto solo Lily (ma Lily era ormai Lily Potter e i
Potter erano una soluzione inscindibile). Piton immaginava che fosse
proprio lei a sentirsi in colpa, per essere sfuggita al Signore Oscuro,
mentre i Paciock venivano torturati e uccisi davanti al piccolo
Neville.
Ma a lui personalmente sembrava che le cose fossero andate nel miglior
modo possibile: Lily era viva e il bambino dei Paciock aveva sconfitto
il più grande mago oscuro della storia recente, impresa che nessun
altro poteva sperare di uguagliare. Nonostante il disprezzo che
riservava a lui, Piton era convinto che Silente fosse della stessa
opinione.
Il vecchio aveva provato altro per convincerlo.
“Nonostante il tuo atto di coraggio, agli occhi del Ministero sei
comunque un Mangiamorte. Potrei intercedere per te, ma ci sarebbero più
probabilità di successo se accettassi di restare sotto la mia
supervisione. Ho un certo peso, nel Wizengamot, per tua fortuna, e amo
dare seconde possibilità.”
Piton, allora ventunenne, era rimasto sconvolto dalla minaccia
implicita: mettersi al servizio di Silente, o finire ad Azkaban. Lui
non sarebbe riuscito ad evitare la condanna, come i Malfoy, ad esempio.
Non aveva una famiglia alle spalle, né ricchezze, né altri mezzi per
fare ammenda. Il vecchio Preside lo sapeva bene.
“Che cosa…che cosa dovrei fare?” aveva chiesto, agghiacciato.
“Lavora per me. Ricordo che hai un particolare talento per le pozioni e
a me seve un professore. Forse addirittura un nuovo Direttore di
Serpeverde, Lumacorno ha espresso il desiderio di ritirarsi. Vieni ad
Hogwarts, Severus, e veglia con me sul giovane Paciock. Glielo devi.”
Piton ricordava perfettamente cosa aveva provato: era convinto di fare
la cosa giusta, ed ecco che il suo gesto diventava un cappio al suo
collo! Non doveva niente
a Paciock, Lily era al sicuro e l’idea che lui insegnasse ad Hogwarts
era semplicemente ridicola.
Chi lo avrebbe rispettato? C’erano ancora studenti che lo conoscevano,
che lo ricordavano come la perenne vittime di Potter e soci, che
avevano assistito alla sua quotidiana umiliazione. E Potter, Black e
Lupin gravitavano ancora attorno a Silente, li avrebbe dovuti
sopportare ancora (Minus era morto, appena dopo i Paciock. Nessuno
sapeva di preciso cos’era successo, ma si pensava che qualche
Mangiamorte particolarmente fanatico avesse voluto vendicarsi della
sconfitta del suo padrone, colpendo un amico dei Paciock e dei Potter,
ancora irrintracciabili). Piton era terrorizzato al pensiero di quello
che gli avrebbero fatto i Malandrini.
E un Direttore di Serpeverde mezzosangue! Le famiglie Serpeverde non lo
avrebbero accettato, nonostante il nuovo clima di tolleranza e
pentimento.
Aveva rigettato l’offerta di Silente, oltraggiato e spaventato,
convinto che sarebbe finito ad Azkaban. Ma alla fine, Silente aveva
comunque garantito per lui. Che lo avesse fatto per intercessione di
Lily, o perché sperava che Piton cambiasse idea per gratitudine, lui si
era ritrovato libero. E se non aveva accettato sotto la minaccia della
prigione, non vedeva proprio cosa avrebbe dovuto convincerlo a farlo
ora.
Be’, qualcosa c’era. Piton ci aveva messo mesi ad accorgersene, ma
aveva infine capito che nel mondo magico non c’era più posto per lui,
se mai c’era stato.
Povero, sgradevole, forse un assassino: era diventato un emarginato al
pari di Remus Lupin; la sua maledizione non era un morso, ma i contorni
di un tatuaggio sbiadito e l’ancora più grave stigmate di aver
rifiutato l’ala protettiva di Silente. Era forse il più brillante
pozionista della sua generazione e non poteva trovare lavoro. Tutta
l’ambizione che gli avevano instillato non gli sarebbe servita a niente.
Era stato allora che Piton aveva preso una decisione importante.
Per tutta la vita aveva disprezzato il proprio sangue babbano. Non si
era mai sentito a suo agio nel mondo comune, lo aveva sempre rifiutato.
Dei babbani, in fin dei conti, non sapeva nulla. Al di fuori di suo
padre, gli unici che avesse frequentato era stati i genitori di Lily e
sua sorella, prima che loro morissero e lei si sposasse. Ora gli
sembrava di capire la rabbia e l’odio di suo padre e di Petunia per
quel mondo di cui non potevano essere parte. Non lo volevano? Lo
avrebbero perso.
Aveva cercato suo padre e, per quanto l’idea lo ripugnasse, aveva
chiesto il suo aiuto. Doveva capire il mondo babbano, se voleva una
possibilità di sopravvivere. Suo padre aveva accettato.
Con lo stesso disprezzo che il figlio aveva riservato a lui da quando
aveva imparato a parlare, lo aveva aiutato a passare per babbano.
“Ma non ne farai mai davvero parte. Sei diverso, lo sarai sempre,” gli
diceva talvolta Tobias Piton.
Nel frattempo, Piton aveva studiato. Chimica, Fisica, Matematica erano
tutte materie che comprendeva senza difficoltà; quando qualche lacuna
lo bloccava, ricorreva alla sua solida preparazione alchemica.
Appena si era sentito pronto, Piton si era trasferito a Londra, e aveva
trovato lavoro in un piccolo laboratorio chimico. Non gli ci era voluto
molto per passare dal lavare le provette alle analisi e poi al
sintetizzare i composti più diversi, principalmente di uso farmaceutico.
Che al laboratorio si oltrepassassero gli stretti confini della
legalità non era propriamente un segreto, tra i dipendenti.
Uno dei suoi colleghi, un ragazzo poco più vecchio di lui, già
stempiato e con l’alito cattivo, raccontava che spacciava cristalli di
metamfetamina e pasticche di ecstasy nei locali e alle feste, per
arrotondare il loro misero stipendio.
“Ho un po’ di campioni del turno dopo mezzanotte,” diceva, alludendo a
quello che veniva preparato in segreto oltre l’orario di lavoro del
laboratorio. “Geoffery me ne ha lasciato un po’! Prendi qualcosa anche
tu, e può darsi che tu abbia fortuna, stasera, John.”
Piton usava già dei documenti falsi, all’epoca. Non voleva essere
rintracciato troppo facilmente: per il Ministero, Seveurs Piton viveva
ancora a Cokeworth con suo padre.
“Non dovresti fare nomi. Da dove vengo io, avere la lingua troppo lunga
significa rischiare di non usarla più,” aveva ribattuto lui, senza
preoccuparsi di celare il disgusto.
Ma l’idea che qualcosa si muovesse dietro le quinte così vicino a lui
l’aveva incuriosito.
Piton non era mai stato bravo a non ficcare il naso, specie se poteva
ricavare qualche vantaggio da quello che avrebbe scoperto. E in questo
caso, benché ci fosse pericolo, non è che lo aspettasse un Lupo
Mannaro, alla fine del tunnel.
Aveva teso le orecchie, indagato con discrezione, impiegato un po’ di
Legilimanzia. Aveva scoperto che Malcom Geoffrey si occupava delle
attività del laboratorio ‘dopo la mezzanotte’.
Piton aveva spiato quelli del turno di notte, osservato un paio di
consegne di merce. Tutto faceva capo a un certo Martin Eggar, che non
si muoveva mai senza il suo gorilla.
Una sera, per l’ennesima volta in vita sua, Piton era stato sorpreso a
spiare qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Ma quella sera era
esattamente quello che voleva succedesse.
“È uno dei tuoi, Geoffrey?” chiese il guardaspalle, spingendo Piton
nella stanzetta in cui Eggar e Geoffrey parlavano.
“Cosa? No…è uno dei dipendenti,” aveva risposto l’uomo, fissando
allarmato ora Piton ora Eggar.
“Noi stiamo parlando di affari, ragazzo,” aveva detto Eggar. “Dubito
che tu voglia entrarci.”
“E ficcanasare è sbagliato, non te l’ha insegnato mammina?” fece il
guardaspalle, alto come Piton, nero, muscoloso, con un sorriso
divertito. “Ma immagino che per te sia difficile, con quel naso.”
Piton aveva sorriso a sua volta, poi si era rivolto a Eggar: “Per come
conducete i vostri affari ora, no, non mi interessa entrarci. Le cose
cambierebbero se vi decideste ad usare un chimico degno di questo nome.”
Per poco non aveva detto pozionista.
“E chi cazzo sei tu per dirlo?” si imporporò Geoffrey.
‘Un idiota senza sangue freddo,’ aveva stabilito Piton, e aveva
continuato a parlare con Eggar: “Potrei produrre merda migliore di
quella che vendete ad occhi chiusi. Anzi, potrei produrre merda
migliore di quella che usi tu.”
“Oh, abbiamo un saputello arrogante,” aveva risposto Eggar, alzandosi.
“Ci piacciono i saputelli arroganti, Samuel?”
“No,” rispose il gorilla, e colpì Piton con forza inaudita sulle reni.
Piton crollò in avanti e l’uomo lo sorresse senza sforzo, come se fosse
stato un uno straccio. Si ricompose digrignando i denti ma tenendo a
freno la rabbia. Non era niente, rispetto a quello che aveva sopportato
tutta la vita (Era stato picchiato, umiliato, torturato per aver
deluso il Signore Oscuro, in un’occasione. E tuttavia era il viso di
Lily che gli era balenato davanti agli occhi, chiuso, definitivo, già
lontano. Scacciò in fretta il pensiero). E poi, aveva sempre la sua
bacchetta magica, in una manica della felpa.
“Sai perché non ci piacciono gli arroganti?” aveva ripreso Eggar. “Sono
tutte chiacchiere. È raro che l’arroganza si sposi con l’intelligenza,
o il talento.”
“Posso offrire una dimostrazione anche subito,” aveva ribattuto Piton,
con un sorriso tagliente.
“Ora tu esci di qui e sparisci per sempre, se vuoi continuare a
mangiare senza sbrodolarti e a pulirti il culo da solo!” aveva
strillato Geoffrey.
Eggar era parso irritato quanto Piton da quello sfoggio di mancanza di
controllo.
“Perché no?” aveva sussurrato.
Sotto lo sguardo sconvolto di Geoffrey e quello sempre divertito di
Samuel, Piton aveva cucinato cristalli di metanfetamina, con le mani
che un po’ tremavano per l’eccitazione, nervoso come non gli era mai
capitato agli esami di Pozioni. Ma anche se non era riuscito a dare il
massimo, il risultato era di molto superiore a qualunque partita il suo
collega gli avesse mostrato.
Eggar aveva esaminato i cristalli con cura: “Geoffrey, trova un banco
da lavoro al ragazzo nel turno dopo mezzanotte.”
“Cosa? Martin, sei impazzito?”
“Non si tiene uno che sa cucinare a lavare provette, Malcom. Vieni,
facciamo due passi, chiariamo un paio di cose,” aveva poi ordinato a
Piton.
Lui l’aveva seguito all’aperto, nell’area di carico. La guardia del
corpo, Samuel, li seguiva in silenzio.
“Come ti chiami?”
“John Price.”
“Bene, John. Ti sto offrendo un lavoro, con un piccolo periodo di
prova. Dopo vedremo se sarai in grado di giocare con i grandi.”
“Dovrei lavorare qui? Con Geoffrey? Forse vuoi prendere in
considerazione l’idea di fare qualche cambiamento,” aveva detto Piton,
aggrottando le sopracciglia. “Temo che ora come ora tu abbia un
problema di fuga di notizie. Dovresti…”
Eggar, più basso di una ventina di centimetri, lo aveva sbattuto contro
il muro umido del magazzino: “Con chi cazzo credi di parlare? Pensi di
poter venire a darmi ordini appena strisciato fuori da qualche college
prestigioso, su al nord? Di potermi dire come condurre i miei affari
perché parli come un libro stampato e sai tradurre il latino,
finocchio? Se uscito da quel tuo bel collegio maschile sei finito in
questo buco di merda, forse non hai tante ragioni di darti delle arie,
eh?”
Piton, le labbra che si arricciavano in un sorriso di scherno all’idea
che un babbano pensasse di spaventarlo, aveva replicato: “Il mio era un
collegio misto. Il tuo no, Martin?” Aveva sospirato: “Dev’essere stata
dura…”
Samuel aveva riso e dopo un attimo anche Eggar.
“Non sai quanto, cazzo. Ma non provare a darmi a intendere che tu eri
pieno di figa, John, perché so che non è così.”
Così aveva cominciato a lavorare per Eggar. Era una situazione
familiare, qualcuno più in alto lo teneva d’occhio, decidendo come
impiegarlo. Ma questa volta Piton non intendeva farsi legare o
controllare troppo facilmente.”
Pochi mesi dopo, sapendo che il suo lavoro era apprezzato, aveva detto
a Eggar che voleva un proprio laboratorio.
Il criminale lo aveva fissato, non troppo sorpreso: “Ecco il problema
con gli arroganti, Samuel. Vogliono essere viziati. Qual è il tuo
problema, John?”
“Sono ambizioso.”
“Arrogante, presuntuoso bastardo, io non affido un laboratorio a un
ragazzetto di vent’anni che non ha mai visto la strada, che non ha
nessuna idea di come funziona il mondo.”
Piton non aveva ribattuto, perché in effetti del mondo babbano
continuava ad aver sperimentato ben poco.
“Forse non sarebbe male per il ragazzo, farsi un po’ di strada,” aveva
suggerito Samuel. “Forse lo renderebbe meno arrogante.”
Eggar ci aveva riflettuto: “Potresti anche avere ragione. Lavorare a
stretto contatto con gli ultimi potrebbe smuovere la sua compassione…”
“Sei diventato completamente idiota?” aveva risposto Piton con ira.
“Vuoi che spacci? Che un tossico qualunque mi accoltelli in un vicolo?
Sono esattamente dove ti servo, invisibile e non collegabile
direttamente a te. Gli spacciatori devono farsi conoscere, essere
rintracciabili, e tutti sanno sempre per chi lavorano!”
“Vedi? Non sa nulla, ma afferra al volo,” aveva detto Eggar a Samuel,
che annuiva compito.
“Allora?” aveva strillato Piton.
“Allora chiudi la bocca, John. Hai l’aria di uno che l’ha capito,
quando è il caso di parlare e quando no. Sì, gli spacciatori devono
essere visibili per alcuni e invisibili per altri. Tutti sanno per chi
lavorano e ti assicuro che il fatto che si sappia che lavori per me non
mi disturba.”
Piton si era irrigidito: “È un marchio…”
“Sì! Non so cos’hai combinato, John, che ti ha spinto a usare documenti
falsi –sì, ho controllato- ma ti hanno insegnato bene,” aveva risposto
Eggar. “Ora, riguardo gli accoltellamenti…ovviamente non voglio che ti
accada nulla. Voglio che tu faccia un po’ di esperienza, non che mi
faccia guadagnare…”
“Gli si potrebbe mettere accanto qualcuno più svelto e non proprio
digiuno di guai,” aveva suggerito di nuovo Samuel.
Così, Piton si era ritrovato a spacciare, con Sonny Butrick che gli
guardava le spalle. Non che lui fosse disposto a far dipendere la
propria protezione dall’abilità di un babbano qualunque. Usava
incantesimi protettivi e talismani, e tutta una serie di piccole magie
che poteva eseguire senza bacchetta e che non attiravano l’attenzione
del Ministero. Era stato allora che Sonny si era fatto l’idea che Piton
fosse un mago.
“Sai, da quando sto con te, John, mi sento fortunato…quando quel tizio
ha dato di matto e ha tirato fuori il coltello…” Il ragazzo aveva
scosso la testa. “E poi è inciampato come un coglione! Se non è fortuna
questa!”
“È pericoloso sentirsi fortunati,” gli aveva risposto Piton con un
sorriso sardonico, accendendo una sigaretta.
“E sembra sempre che tu sappia tutto! Che tu sappia in anticipo quello
che farà la gente…”
“Quello si chiama usare il cervello, valutare la situazione. Non so se
ne sei in grado.”
Sonny ridacchiava, indifferente ad ogni insulto.
Spacciare in strada a contatto con il peggio dei loro clienti non aveva
sviluppato la compassione di Piton. Anzi, lui era convinto che avesse
prosciugato ogni residua traccia di indulgenza verso le debolezze
altrui, un sentimento che era certo di aver esaurito ben prima di
prendere il Marchio Nero. Tuttavia gli aveva concesso di sfruttare e
allenare le sue doti di Legilimante molto più di quanto avesse mai
fatto prima.
Nel giro di un anno aveva acquisito una conoscenza del mercato che
sarebbe stato stupido non sfruttare a livello più alto, e Martin Eggar
non era uno stupido. A poco a poco, Piotn aveva risalito l’organigramma
aziendale, come lo definiva Eggar, in onore ai suoi studi economici,
mentre il loro giro si ingrandiva, gli affari si facevano più
complessi, i rischi più grandi.
Piton aveva avuto il suo laboratorio e un gruppetto di idioti da
istruire (a volte quasi rimpiangeva di non essere diventato professore
di Pozioni: per quanto gli studenti fossero incapaci, almeno il rischio
di far saltare tutto in aria non era quotidiano).
Si era ritrovato catapultato in una vita di lusso, apparenza e
violenza, molto più in fretta di quanto si sarebbe aspettato. Non aveva
ancora capito se ci stava bene, o no.
Rallentò e si liberò dalla presa di Rarity per buttare la sigaretta in
un tombino prima di salire in auto.
“Severus?”
Piton si girò, dando le spalle alla macchina, e a pochi metri da lui
vide Lily, con due marmocchi al seguito.
“Sei…sei proprio tu?” continuò Lily, incredula.
Piton la raggiunse e rimase fermo davanti a lei, senza sapere cosa dire.
“Lily…”
Liliy aveva il viso più rotondo, più dolce forse, ma poteva essere solo
la sua espressione sorpresa. Indossava un vecchio cappotto blu e
cappello e sciarpa color panna. I suoi capelli, più corti di come Piton
li ricordava, illuminavano la strada.
“Non sapevo abitassi a Londra, credevo che fossi tornato a Cokeworth,”
gli disse lei. “In effetti,” aggiunse con imbarazzo, “non ho più saputo
niente di te.”
“Credevo abitaste ancora a Godric’s Hollow. Che foste rimasti in
Scozia,” le disse Piton, invece di rispondere.
“Oh, ci passiamo quasi tutto l’anno!” rise Lily. “Quando tu hai
rifiutato, Silente ha offerto a me la cattedra di Pozioni.”
“Perfetto,” sorrise Piton.
“E James, da quando non gioca più da professionista, insegna volo e
segue le squadre della scuola,” continuò Lily, sorridendo nervosamente.
Piton fu certo di aver fatto una smorfia.
“I vostri figli,” considerò, costringendosi a guardare i bambini.
“Che sciocca! Certo, Harry ha undici anni, ha iniziato a frequentare
Hogwarts quest’anno…”
Piton sentì la smorfia cementarglisi sul viso: il piccolo Harry era
talmente rassomigliante al padre che lui provò il desiderio di fare un
passo indietro. Ma aveva gli occhi di Lily.
Chissà in quanti glielo avevano ripetuto, da quando il bambino era
nato. Riportò lo sguardo su Lily e fu felice di vedervi un’espressione
di divertita esasperazione, come se avesse formulato il suo stesso
pensiero. Non disse nulla e studiò la bambina.
“Lei è Rose. Ha nove anni,” disse la madre con dolcezza.
Piton si accosciò per essere all’altezza del visino della bambina.
Capelli rossi, lentiggini, occhi vivaci anche se castani e non verdi. E
il sorriso, esitante e sicuro allo stesso tempo, la posa con cui teneva
la mano della madre, il modo in cui inclinava la testa…Somigliava
incredibilmente a Lily alla stessa età. E quello non poteva averglielo
detto nessuno, perché lui era l’unico dei suoi amici che l’avesse vista
a nove anni, a parte Petunia.
“Sei bella quanto tua madre alla tua età,” sussurrò, rialzandosi.
Rose sorrise con trionfo, ora, ma Harry lo guardò sospettoso.
“Severus e io ci conosciamo da quando eravamo bambini,” gli spiegò la
madre, senza mitigare il suo cipiglio.
“State andando a Diagon Alley?” chiese Piton, cercando inconsciamente
il suo pacchetto di sigarette.
“Volevo che visitassero la Londra babbana,” gli raccontò Lily. “Sai,
tutto sommato è riduttivo che conoscano solo Hogwarts, Hogsmeade e
Diagon Alley, oltre a casa. James e io –fece una piccola pausa quando
Piton infilò una sigaretta tra le labbra- stavamo pensando di prendere
un appartamento vicino a Londra…” Rimase in silenzio, fissando Piton
con attenzione. “Sai, non mi sarei mai aspettata di vederti…qui. Con
indosso abiti babbani. E da quando fumi?”
“Fumare fa male!” lo redarguì Rose, con lo stesso piglio di Lily quando
lo sgridava da bambina.
Piton stava per ridere, ma sentì i passi di Rarity avvicinarsi. La
bionda sorrise a tutti e lo prese di nuovo sottobraccio.
Lily rispose al sorriso incerta, di sicuro un po’ sorpresa.
“Scusate se vi interrompo,” fece Rarity. “ma dovremmo andare, se vuoi
passare dal laboratorio, John.”
Lily aggrottò la fronte.
“John? Non usi il tuo nome?” chiese, prima di riflettere.
Piton non distolse lo sguardo da lei: “Arrivo.”
Ma Rarity aveva ottime orecchie.
“Non usi il tuo nome? John non è il tuo vero nome?” chiese, scostandosi
un po’ da lui, come se il fatto che uno spacciatore avesse mentito su
una sciocchezza del genere fosse importante. Come se il fatto che
scopassero da un paio di mesi comportasse un rapporto di fiducia, tra
loro.
“Perché?” le domandò Piton, con il suo sorriso più sprezzante,
soffiando fumo azzurro. “Non vorrai farmi credere che Rarity sia il tuo
vero nome?”
Rarity ritrasse le lunghe unghie colorate dal suo braccio e rimase in
silenzio.
“Aspettami in macchina,” le ordinò Piton dandole un’occhiata di
sfuggita.
Lei si allontanò ubbidiente.
“Non intendevo creare problemi…” iniziò Lily, ma Piton sorrise di
nuovo: “Nessun problema.”
Ma Lily stava ancora guardando Rarity, la gonna corta sotto la
pelliccia, poi il suo sguardo avrebbe proseguito fino a vedere Brennan
e la sua zoccola che lo aspettavano fuori dalla macchina, e Sonny al
volante, tutto voltato per seguire la scena, e avrebbe visto loro e
lui, e avrebbe capito quello che solo cinque minuti prima a Piton non
importava di gridare al mondo. Ed eccola di nuovo, quell’espressione
chiusa, contrariata, mentre giudicava le persone che frequentava e lui
stesso.
Piton rimase in attesa della stoccata, una smorfia sardonica sulla
faccia. I bambini mormoravano tra loro.
“La tua amica ha parlato di un laboratorio. Che lavoro fai?” lo
interrogò Lily.
“Il chimico,” rispose Piton, con assoluta serietà.
Lei lo esaminò di nuovo da capo a piedi e il cercapersone di Piton
scelse quel momento per suonare.
Il numero di Simon. Guai al laboratorio. Imprecò tra i denti mentre
Lily stringeva le labbra.
“Temo di dover proprio andare,” le disse.
“Certo. Abbi cura di te,” replicò Lily, fredda.
Piton diede un’ultima occhiata ai bambini (soprattutto alla splendida,
piccola Rose) e alla madre. Poi si girò e finalmente salì in auto.
“Una vecchia fiamma?” domandò Brennan con un ghigno volgare.
“…già,” esalò Piton.
I bambini si alzarono per andare a giocare e reclamarono ‘zio Sirius’
perché andasse con loro.
“Sono felice che Harry sia di buon umore. Con Neville, Ron ed Hermione
a scuola…Tu lo sai cosa stanno combinando, tra parentesi?” le chiese
James.
Lily scosse la testa, scambiando un sorriso con Remus: se i suoi amici
non fossero stati altrove, anche James avrebbe preferito passare il
Natale al castello. Ma Harry e Rose erano praticamente nati lì dentro,
avevano bisogno di passare del tempo in altri posti.
Remus la aiutò a sparecchiare, mentre James guardava i figli e il suo
migliore amico rincorrersi e fare un baccano d’inferno. Lily sapeva che
pensava a quanto i ragazzi si sarebbero divertiti con Peter se fosse
stato lì con loro, e avvertì a sua volta una punta di tristezza.
Remus provvide a distrarla: “Com’è andata la gita a Londra?”
“Oh, bene,” rispose lei meccanicamente. Poi, lentamente, aggiunse: “Ho
visto Severus Piton.”
Avvertì, più che sentirlo, James che si irrigidiva, seduto al tavolo.
“Davvero?” chiese Remus, interessato.
Lei annuì: “Davvero. All’inizio non ero sicura, perché era vestito da
babbano. Vestito bene, molto credibile, in effetti.”
Severus era sempre stato un disastro, con gli abiti babbani. Sua madre
non ne capiva nulla e crescendo lui aveva sviluppato una tale
repulsione per i vestiti comuni, che Lily aveva smesso di chiedergli di
uscire nel mondo babbano. Il loro universo si era rimpicciolito alla
sola Diagon Alley, se e quando avevano abbastanza Polvere Magica per il
viaggio via camino.
“Che faceva?”
“Usciva da un ristorante, credo, con altre persone. Era a braccetto con
una bella donna bionda,” rispose Lily.
Si era sentita così a disagio per quella ragazza. Non avrebbe dovuto
permettersi di giudicarla per il suo aspetto.
“Mocciosus con una bella donna?” fece James con tono esageratamente
incredulo.
“Non cominciare, James,” lo frenò sua moglie.
Remus ridacchiò: “Devi ammettere che è inaspettato, Lily. Severus con
una ragazza babbana…”
“Uhm,” fece Lily. Quando parlò di nuovo, si rivolgeva soprattutto a se
stessa: “Sono contenta di averlo visto. Che abbia conosciuto i bambini.
I ragazzi, Rose soprattutto, non la finivano più di chiedere di lui.”
Pensava a Severus molto spesso, lei. Pensava costantemente a lui, dopo
la nascita di Rose. Era merito suo se erano vivi, se Rose era nata. Era
un caso, secondo Silente, che Voldemort avesse cercato i Paciock e non
loro (come era un caso che loro avessero finito per scegliere Silente
come Custode Segreto invece di Sirius o Peter, come avevano deciso
all’inizio). Quindi, ai suoi occhi, Severus li aveva salvato tutti e
lei gli sarebbe stata grata per sempre.
James pensò a quell’untuoso, arrogante idiota vicino alla sua preziosa
bambina e avvertì un malessere quasi fisico.
“Però non hai l’aria molto contenta…” notò Remus.
Sirius strillò qualcosa dal soggiorno e i bambini risero forte.
“È solo che…” Lily gesticolò, senza trovare un modo per esprimere
quello che aveva provato. “È solo che mi è sembrato…un criminale,” si
arrese.
“Un criminale?” le fece eco Remus.
Lily sbuffò: “Mi ha dato quest’impressione. Vestiti costosi,
cercapersone…credo che uno degli altri uomini avesse una pistola.”
“Magari hai frainteso,” le disse Remus, gentile.
Lily gli prese la mano, sorridendo.
“Mocciosus un criminale, perché no. Sarebbe da lui. Un mafioso.
Scommetto che è un pedofilo, quell’unto…”
“James, piantala!”
“Dico solo che ha sempre avuto la faccia da maniaco,” fece James,
alzando le mani.
“Detto da te, Ramoso. Hai stalkerato questa donna per anni,” intervenne
Remus.
Lily si voltò, adirata. Ora James e Sirius, quando fossero saliti sul
tetto a parlare come facevano spesso, avrebbero preso in giro Severus,
ripetendo idiozie e calunnie sull’uomo che aveva salvato i suoi figli.
Non era neanche certa di quello che aveva visto. Avrebbe fatto meglio a
tenerselo per sé. Però…però Severus aveva la stessa espressione di
quando lei cercava di fargli capire che razza di persone erano gli
amici che si era scelto. Un misto di paura e sfida, e collera, perché
lei si permetteva di giudicarlo. E non poteva neppure parlare con lui,
cercare di capire: non aveva neanche capito se abitava davvero a
Londra; e non avrebbe osato mandargli un gufo, dopo essersi fatta
sfuggire davanti a quella donna che lei lo conosceva con un altro nome,
questo lo avrebbe sicuramente messo in una posizione scomoda. E a
pensarci bene: perché Severus non usava il suo nome?
Poteva sempre cercarla lui, se ci teneva. Sapeva che insegnava a
Hogwarts. Forse l’avrebbe fatto, anche se non era successo nei dieci
anni precedenti.
In ogni caso, si disse infastidita, non era come se nella sua vita ci
fosse posto per Severus Piton.
Note:
Questa storia è nata in un momento particolare in cui dovevo prendere
una decisione importante, quindi è stata scritta in buona parte di
getto per sfogare un po' d'ansia. Ciò significa che non è curata come
l'altra mia storia, Echoing Green, Poison Tree', ma ci sono comunque
affezionata.
L'idea che avevo avuto era una AU in cui Piton abbandona per sempre il
mondo babbano, e noi lo seguiamo nella sua ascesa a signore della
droga...Mi sono resa conto abbastanza in fretta che non avevo nè le
conoscenze nè l'interesse a scrivere una cosa del genere, sono proprio
argomenti che non mi attirano, quindi tutto prenderà una piega un po'
diversa (anche se nella mia mente continuo a chiamare questa storia
'Breaking Bad'!XD). Forse l'idea che Piton rifiuti di aiutare Silente
sapendo che questo potrebbe portarlo dritto ad Azkaban è un po' fuori
dal personaggio, poco Serpeverde, ma ho voluto immaginare un momento di
avventato orgoglio. E poi se no la storia non andava avanti!
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui!
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