Premessa: questa
fanfiction sarà composta da tre capitoli che verranno
postati circa una volta a settimana, forse anche meno in base al
lavoro. E' dedicata, davvero di cuore, a Blair Behemoth che sul gruppo
SasuNaru Fanfiction Italia ha scritto una splendida 'letterina a Babbo
Natale' chiedendo una storia con delle tematiche che mi hanno ispirato
fin da subito.
Creare un'I.A. e il rapporto che ne consegue, con tutti i dubbi etici e
i percorsi da affrontare, similmente a quanto accade per
certi versi in Blade Runner 2049 con Her.
Cara Blair, spero davvero che il racconto ti piaccia; ho inserito tante
tematiche e tante cose emotive da non sapere se ho sforato forse dai
tuoi presupposti iniziali, sappi comunque che la storia è
stata fatta con il cuore e ti ringrazio per avermi dato
possibilità di scrivere sulla tua richiesta.
La trama è come sempre di mia invenzione anche se
c'è un omaggio generale a Blade Runner 2049, più
riferimenti ad Asimov e, in generale, al mondo della fantascienza.
Ulteriori note, spiegazione alle citazioni e ringraziamenti a fondo
capitolo.
I
Starman
Anno 180 S.I.
(dal primo Salto Interstellare)
La
base di lancio Bussard riluceva per via del suo rivestimento metallico;
molti trovavano la sua struttura affascinante, persino elegante nel
modo in cui era stata progettata al fine di convogliare le energie
necessarie per rapidissimi viaggi interstellari, dalle destinazioni
sempre più precise.
Ma in tutta onestà, Sasuke Uchiha, ingegnere addetto alla
manutenzione al monitoraggio della piattaforma di lancio da ormai
più di cinque anni, non vedeva in quell’ammasso di
energia cinetica ed elettroni nient’altro che un prodotto del
bisogno umano di non accontentarsi mai dei propri spazi. Poi, dopo
un’infinita routine di controlli sempre uguali, qualche
sporadica emergenza e notizia vaga da parte degli addetti alla
calibrazione del lancio riguardo navi perdute nello spazio, francamente
l’intera struttura gli era venuta a noia.
Diversamente valeva per la possibilità, preziosa, di stare
lontano dalla Terra. Una settimana, nella sua personale navicella, con
gli attrezzi per la riparazione, i computer, il sistema operativo Bardo
per quelle volte in cui gli occhi erano stanchi e aveva voglia di
sentirsi narrare un racconto. Solo lui, nessun altro, nessun uomo
invadente con scadenze e controlli da programmare, nessuna donna che lo
aspettasse al varco con una promessa di matrimonio che non avrebbe mai
più avuto intenzione di realizzare, niente. La solitudine.
Quant’era confortante quella parola, così vicino a
una stazione spaziale per esplorare altre galassie.
Ma ogni tanto, in quei giorni in cui la Terra sembrava più
blu, nonostante le sue immense città coperte di metallo,
macchine volanti e collegamenti rapidi con ogni emisfero, Sasuke si
chiedeva cosa comportasse, per un essere umano, stare lontano dal
proprio pianeta tanto a lungo da dimenticare l’odore della
salsedine dei mari, oppure quello della neve o del deserto, con i suoi
the e le sue spezie. E cosa significasse interagire con
un’altra persona, parlarci, sentirla arrabbiata, triste o
felice.
In quelle settimane di lontananza, di assenza di contatti dopo giorni e
giorni passati senza alcun dialogo, Sasuke pensava a quanto sarebbe
stato difficile condividere i propri spazi con un altro essere umano,
lì, tra le stelle. Da un lato ne era irritato,
perché mal tollerava doversi adattare ai ritmi di qualcuno
che non fosse lui stesso, dall’altro si rendeva conto che il
confronto gli mancava terribilmente; non necessariamente su cose
importanti, anche solo su argomenti stupidi, come sulla pessima
recitazione di attori in qualche film dalle elaborate proiezioni
olografiche o una canzone.
Scoprì, in quei cinque anni di contatto con altri ingegneri
e viaggiatori, che tanti, in fondo, cercavano una risposta alla
solitudine nello spazio, riflettendo il loro vuoto come esseri umani
sulla Terra. Solo che, allora, Sasuke si era ritenuto troppo superiore
per un bisogno così futile come quello di un dialogo o un
gesto d’affetto. Non disdegnava però un ulteriore
ingresso economico: il suo vecchio appartamento nella periferia della
Cittadella aveva un’infiltrazione d’acqua
decisamente troppo estesa e dopo anni di totale incuria da parte del
proprietario, decisamente quelle pareti necessitavano di una
ristrutturazione, prima di crollare miseramente su loro stesse; inoltre
aveva in programma una serie di spese per l’auto, che doveva
necessariamente upgradare alle nuove normative per la circolazione, o
sarebbe rimasto bloccato nel suo appartamento con la problematica
impellente di cui sopra.
Per tutta quella serie di motivazioni, nei suoi ultimi viaggi presso la
stazione di Bussard, Sasuke si era portato nella propria navicella
Viger un’attrezzatura informatica e di laboratorio
aggiuntiva, sostanziosa ma non in grado di causare troppi sospetti ai
severi controlli presso lo spazioporto terrestre.
L’intento era quello di cominciare a sperimentare nel tempo
libero un’alternativa per chi aveva poco spazio e risorse per
poter portare nei propri viaggi qualcuno con sé; una
compagnia, sostanzialmente, anche se Sasuke non avrebbe mai ridotto a
una banalità simile la sua rielaborazione di vecchi codici
informatici, specie con gente che probabilmente il giorno dopo si
sarebbe masturbata semplicemente dopo aver sentito una voce femminile.
In quei mesi di prova aveva già illegalmente venduto con
successo a diversi colleghi una versione migliorata di Bardo, un
cantastorie informatico, dotato della possibilità di rendere
il racconto interattivo e sviluppare una sorta di dialogo. Ma purtroppo
le opzioni erano limitate e nei viaggi più lunghi il tutto
rischiava di diventare ripetitivo; almeno, per i suoi standard, visto
che i mercanti diretti verso le galassie più prossime
sembravano esserne entusiasti.
Così, più per sfida con se stesso, Sasuke aveva
cominciato a rimettere mano sul successore di Bardo, con
l’intento di incrementare le sue nozioni di base e,
soprattutto, ampliare le capacità recettive del computer, in
modo che esso riuscisse autonomamente a rielaborare le informazioni.
Già altri prima di lui avevano compiuto un simile percorso,
ma la sperimentazione in quel campo non era progredita, anzi era stata
del tutto vietata, ritenendo troppo pericoloso dare libertà
eccessive a un’I.A.; inoltre, in termini di intelligenza
artificiale era meno oneroso e più rapido dare un set
esaustivo di conoscenze in un determinato campo, così da
rendere subito la controparte robotica attiva nel settore richiesto.
Dopo aver terminato la manutenzione ed essere passato nella camera di
decompressione, Sasuke aprì il pannello per entrare nella
compatta zona di Viger usata per lasciare la tuta, controllarne
l’integrità e indossare qualcosa di più
adatto, senza portare il tutto a gravità zero. Fluttuando,
con il casco in testa e la musica riprodotta, Sasuke attese la chiusura
del pannello.
David Bowie. A distanza di secoli, Sasuke ancora trovava affascinante
il personaggio del Maggiore Tom che, come lui, vagava con la sua
scatola di latta nello spazio.
La canzone finì. Sasuke si tolse il casco e la tuta,
agganciando anche gli attrezzi per evitare che gli oggetti
volteggiassero per il cubicolo. Dopo aver mangiato una barretta
energetica ed essersi idratato, l’ingegnere si mise al
computer, controllò la rotazione e il posizionamento nei
pressi della base di lancio e impostò la gravità
zero, visto che mentre lavorava alla programmazione proprio non aveva
intenzione di allacciarsi le cinture.
Oggi per la prima volta
tento la strada del dialogo con un’I.A. a cui non sia stato
bloccato lo sviluppo cognitivo, né il libero arbitrio.
“AL-76, attivati.”
Disse semplicemente. Gli fece strano sentire il suono della propria
voce, stupendosi di quanto raramente la utilizzasse.
In un istante una voce replicò:
“Sono attivo, creatore.”
Creatore.
Aveva qualcosa di divino. E di presuntuoso. Paradossale, per aver
semplicemente integrato nozioni di memoria e conoscenze generali a
un’I.A. evoluta da un cantastorie computerizzato.
Fece una smorfia, per mascherare la complessità emotiva del
momento: “Correggi. Chiamami – ci pensò
un istante – Uchiha.”
Passò qualche istante. Gli fece effetto sentire le parole
scandite in maniera fluida da un robot piazzato dentro
quell’insieme di circuiti. Se la voce artificiale era
così bella, il merito era dei programmatori di Bardo, questo
Sasuke doveva concederlo.
Era una voce maschile, vivace, vibrante paradossalmente di vita
nonostante le leggere interferenze meccaniche, come se provenisse da
uno spazio lontano, immersa in galassie, supernove e orizzonti degli
eventi.
Sasuke l’aveva modificata leggermente, rendendola meno
squillante e più marcata, avrebbe dovuto lavorarci ancora
per calibrare la dizione.
“Uchiha. E’ il tuo nome?”
Sasuke guardò lo schermo. Vide il segnale vocale della base
delle impostazioni melodiche alzarsi in un picco leggermente
più altro. Poi, il silenzio.
Quella domanda lo colpì. Perché si stupiva? Era
lui ad averlo programmato in quel modo. Per assorbire conoscenze
mediante l’interazione e la correzione.
“No. Il cognome.”
“Io come mi chiamo?”
Tempo fa, la conversazione non sarebbe mai andata oltre. Sasuke
avvicinò la mano all’interruttore centrale, per
non dare nemmeno il comando vocale.
“Mi vuoi spegnere?”
C’era una sorta di provocazione, in quella domanda. O forse
era solo Sasuke a crederlo, forse la vicinanza con tutta
quell’energia elettromagnetica gli aveva fatto più
male di quanto pensasse.
Si arrestò, guardando lo schermo con in testa
l’eco di quell’interrogativo.
“Proseguiamo.”
Non smentì, sentendosi infantile all’idea di
raccontare una bugia davanti a un computer che, comunque, non avrebbe
potuto vederlo.
“Io come mi chiamo, quindi? Non hai risposto,
Uchiha.”
Quest’ultimo schioccò la lingua, mormorando un
“Tsk.” Infastidito.
“Tsk?” replicò la voce.
Sasuke roteò gli occhi, piegandosi inconsapevolmente avanti
con il busto:
“No, quello è un gesto vocale. Per esprimere
fastidio.”
“Mi spiace che tu mi reputi fastidioso.”
Sembrava esserci rammarico. E vita, vibrante, un cuore pulsante di
circuiti; impossibile, le emozioni non erano prerogativa delle I.A.
specie di quel tipo al primo stadio. Si morse un labbro, per poi
replicare secco:
“Non dispiacerti, è inutile –
appoggiò la testa al sedile e dopo un istante disse
– AL-76 è il tuo nome. Per via delle linee guida
di programmazione standard a cui mi sono attenuto.”
Passarono alcuni secondi.
“AL-76 – ripeté l’I.A., in
un’onda di suoni sullo schermo – un giorno mi darai
un nome meno patetico, spero.”
Aveva una nota scherzosa. Sasuke assottigliò le labbra,
inarcando un sopracciglio. Bene, la prossima volta avrebbe dovuto
modificare i codici e ridurre la componente Ironia e Strafottenza,
prima di mettersi a minacciare di morte un robot.
“Perfetto, continua a sperare allora –
replicò, secco, per poi rendersi conto di essere
già parecchio infantile, dunque optò per una
virata drastica – non perdiamo tempo. Proseguiamo
l’approfondimento per tematiche, ho lasciato in elaborazione
nel tuo sistema le conoscenze geografiche base e principali
usanze.”
“E’ stato interessante –
replicò AL-76 con la voce entusiasta che metteva nei
racconti d’avventura – la Cittadella è
il cuore politico, economico e commerciale della Terra. Ci sono
ambasciate di razze provenienti da altri pianeti. Tu vivi
lì, Uchiha?”
Sasuke si sentì minacciato e irrequieto di fronte a quella
domanda così diretta. Non amava che le persone si
interessassero a lui, per quanto avesse a che fare con un programma,
sostanzialmente, il che lo portò a dare una risposta
sommaria, forse inspiegabilmente spinto dalla voce energica.
“Sì. Ho un appartamento in periferia.”
“Hai un’altra I.A. come me, nel tuo
appartamento?”
Sasuke fissò lo schermo. Da dove arrivavano tutti quegli
interrogativi? Forse doveva calibrare gli input che stimolavano la
curiosità e quella serie di codici che portavano a domande
consequenziali. Anche se, obiettivamente, non vedeva la logica dietro a
quella richiesta d’informazione.
“Perché t’interessa saperlo?”
Domandò. Si sentì stupido a porre
quell’interrogativo, poteva rischiare di far entrare
l’IA in confusione perché troppo poco programmata
per avere un tocco così personale, anche se la base di
codici era molto evoluta in termini di libertà di
ragionamento.
“Perché ti riguarda.”
La risposta venne elaborata in fretta. Sasuke artigliò il
bracciolo del sedile, profondamente schivo e colpito da quello che
sembrava un sincero interesse.
“Non esiste alcuna altra I.A.”
Replicò brusco, vagamente a disagio, contemplando lo schermo
davanti a sé come in cerca di una reazione visiva, oltre che
uditiva, da parte della sua controparte robotica.
Anche se, un tempo...
“Mi fa piacere. Sono il primo?”
“Sì.”
Fu la sua risposta; un soffio leggero, polvere di stelle in uno spazio
di solitudine.
Dopo un istante, con la bocca più asciutta, la testa che
vorticava assorbendo quelle informazioni sperimentali che stava
ottenendo, Sasuke domandò:
“Il maschile. Perché hai usato il maschile
parlando di te?”
Se Sasuke avesse guardato fuori dal vetro temprato di Viger avrebbe
visto una nuova nave commerciale partire, altre approdare e altre
ancora orbitare presso la Terra. Ma, nonostante lo spazio stesse
vivendo così appieno attorno a lui e alla sua navicella,
Sasuke prestò attenzione solo ad AL-76 e alla sua voce,
domandandosi come sarebbe stato sentirlo ridere.
“Tu usi il maschile. Lo trovo appropriato, mi identifico di
più come uomo.”
Identificarsi?
“Da quando hai un’identità?”
“Da quando mi hai dato un nome, anche se fa schifo.”
Inaspettatamente, Sasuke si ritrovò a sorridere. Un sorriso
accennato sul volto, di chi non era abituato a usare i muscoli facciali
per mostrare quel genere d’espressività, tanto che
si rese conto solo dopo dell’istintività del
gesto. Si domandò, passandosi una mano sulle labbra come per
cancellare quell’eco di sorriso, se l’uso del
termine schifo
fosse un retaggio di Bardo e dei racconti per adolescenti.
“Guarda che non stai esattamente migliorando la tua
situazione. Posso sempre cancellarti.”
Si rese conto, dicendolo, che non sarebbe stato altrettanto facile
resettare il lavoro su AL-schifo-76,
e non per una qualche forma di difficoltà informatica.
“Saresti tu a rimetterci – replicò AL,
con una nota divertita, almeno, così parve a Sasuke che era
già in procinto di rimangiarsi ogni forma di dispiacere
– com’è la Terra?”
La domanda, improvvisa, lasciò Sasuke interdetto.
Istintivamente voltò lo sguardo verso
l’oblò che mostrava, oltre la stazione di lancio,
il Pianeta Terra, con il suo metallo, la sua terra appunto e i mari.
“Un sovrappopolato accumulo di gente ammassata in un posto
decisamente troppo piccolo. Per questo hanno colonizzato Marte e ci
sono centinaia di navi coloniali che partono verso altre
galassie.”
“Sei umano?”
Perché quelle domande erano così difficili da
digerire?
“Sì. Per quale motivo me lo chiedi?”
“Parli degli esseri umani come se non ti
riguardassero.”
Sasuke si morse un labbro, rabbuiato. Fissò lo schermo,
l’immobilità della linea vocale di AL-76 e un
senso di pesantezza nel torace. Decisamente, quella conversazione stava
prendendo una piega troppo personale e non gli piaceva; per
quanto… non gli capitava da tanto, di parlare
così spontaneamente con qualcuno.
Qualcuno.
Un programma, che ancora non aveva ricevuto il blocco dello sviluppo
del pensiero. La sua misantropia doveva aver raggiunto livelli
drammatici per far sì che lui trovasse soddisfacente una
simile conversazione.
Scosse la testa.
“Per oggi può bastare. Caricherò altri
dati tecnici di fisica astronomica e chimica generica. Poi
vedrò di aggiungere qualcosa di cultura generale.”
“Cibo.”
Sasuke inarcò un sopracciglio: “Come?”
“Cibo – ripeté la voce, in una nota
più alta, quasi fosse il suo modo di esprimere un sorriso
– magari del paese da cui provieni. Dai dati caricati
recentemente, la Cittadella ospita razze non terrestri ma raduna anche
umani provenienti da ogni angolo della Terra.”
“Ci penserò.”
Disse asciutto Sasuke che non aveva alcuna intenzione di assecondare
apertamente delle richieste, anche se a conti fatti si trattava di
qualcosa che prima o poi avrebbe comunque inserito nelle conoscenze di
AL-76.
“Super! Grazie, Uchiha.”
Super.
Sicuro, un divertimento. Sasuke si stropicciò gli occhi.
“Certo, come no.”
Sentì, quasi a pelle, che l’I.A. stava per
replicare qualcosa. Ma senza attendere oltre Sasuke spense il sistema,
mettendo a tacere il computer che aggiornava comunque in automatico i
dati.
Sospirò, incapace di valutare obiettivamente i progressi
compiuti: non dare un freno a un’I.A. in costante sviluppo
era pericoloso, perché essa poteva arrivare a sviluppare,
oltre al collettivamente temutolibero pensiero critico, anche dei
sentimenti.
La Legge Interplanetaria della Robotica era molto severa in tal senso e
lui stava allegramente passando il limite, ben oltre i suoi sgarri con
programmi anticonvenzionali che prevedevano aperte interazioni con
l’uomo.
Prese il proprio registratore, usato per le relazioni tecniche, e
aprì tramite schermo olografico la sezione dedicata alle sue
personali sperimentazioni, accedendo per decriptazione.
Avviò la registrazione, cominciando a parlare dopo un
istante di silenzio:
“Anno 180 S.I. primo giorno di dialogo effettivo con
l’AL-76 così denominata al seguito della fusione
sperimentale della programmazione AL-76 che ha dato la matrice base per
lo sviluppo cognitivo dell’I.A. e Bardo, per la dialettica,
le impostazioni vocali e la caratterizzazione di base.
L’I.A. si è dimostrata recettiva, in forte
crescita intellettiva, reattiva agli stimoli esterni.”
Anche troppo.
“Ha autonomamente parlato d’identità e
mostrato interesse conoscitivo nei confronti del soggetto creatore e
dell’ambiente geografico di provenienza. Di rilievo nella
parte finale della sperimentazione l’espressione di una
preferenza da parte dell’I.A. AL-76. Riguardava il cibo. Concludo
inserendo nozioni di astrofisica, chimica di base e cultura
generale.”
Attese un istante. Fanculo.
“Per il... cibo, aggiungo tradizioni culinarie dei principali
paesi terrestri.”
Terminò la registrazione. Fissò la Terra,
consapevole di tutta la gente che l’abitava e che pure,
disperatamente, gli chiedeva di parlare con un’I.A.
inesistente per colmare la loro
solitudine. E lui… non era quello che stava facendo anche
lui, in fondo?
Gettò sul tavolo di lavoro il registratore,
sbottò e avviò la musica.
David Bowie cominciò a parlare di un uomo proveniente dalle
stelle e, all’improvviso, si sentì decisamente
meno terrestre, felice di trovarsi nello spazio.
*
Sasuke si massaggiò il collo con la mano, preparandosi a una
nuova sessione di dialogo; dopo tutti i controlli di routine compiuti
attorno alla base di lancio Bussard, nonché essersi
confrontato con gli altri tecnici manutentori e aver gettato in pasto
all’elaboratore dati le sue misurazioni, finalmente poteva
dedicarsi al suo lavoro parallelo: lo sviluppo dell’IA AL-76.
In realtà, nel corso delle settimane si era divertito
parecchio a confrontarsi con quella voce simulata, ma dargli una veste
lavorativa faceva sembrare a Sasuke l’intera faccenda molto
più professionale di quanto non fosse. Per sentirsi meno in
colpa e allo stesso tempo stare dietro alle piuttosto semplici
richieste dei suoi clienti, mentre conversava di tanto in tanto
inseriva qualche linea di programmazione per quanti volevano
un’I.A. con identità femminile capace di essere
seducente, oppure un qualcuno capace di fare battute sagaci.
Le possibilità erano tante, così come la
creatività bisognosa di ogni essere umano.
“AL-76, attivati.”
Dopo un istante, un saluto che sembrò caloroso:
“Ciao, Uchiha!”
Sasuke assottigliò le labbra, appoggiando il viso sulla mano
come per nascondere inconsapevolmente la sua espressione.
“Sembri contento.” Osservò, con una
leggera punta d’ironia, consapevole
dell’impossibilità sostanziale di provare emozioni
per un’I.A. Almeno, non che fosse mai stato raggiunto un
livello d’autonomia dell’I.A. tale da consentirle
di accrescere anche lo sviluppo emotivo.
“Lo sono sempre quando parliamo assieme.” Ammise la
voce, così energica e vitale da far pensare che ci fosse il
Sole dentro quei circuiti.
Come sempre, Sasuke cercò di passare oltre i sentimenti,
sentendo un troppo confortevole e pericoloso senso di
felicità per quelle parole.
“Hai qualche domanda sugli argomenti caricati in questi
giorni? Astrofisica teorica è una branca interessante,
possiamo integrarla con della fisica teorica che…”
“Ramen!”
Sasuke si interruppe di colpo. Fissò lo schermo in parte
stranito, in parte apertamente infastidito per essere stato interrotto
da…
“Come hai detto?”
Domandò in un sussurro pericoloso, per quanto contenuto
dall’evidente stupore causato da un intervento non solo del
tutto inappropriato, ma sicuramente privo di ogni qualsivoglia
connessione con l’astrofisica e qualunque galassia conosciuta.
“Bella l’astrofisica, molto interessante,
ma… il cibo che avete sulla Terra. E’ pieno di
cose fantasiose, creative. Tu sei di origini giapponesi, giusto? Ecco,
trovo che il ramen possa essere un piatto buonissimo, per come mischia
in una ciotola tantissimi ingredienti pur risultando armonioso.
L’hai mai mangiato?”
Sasuke rimase un istante in silenzio. Tutti i suoi buoni propositi, di
ascoltare l’interpretazione di nozioni scientifiche mentre
elaborava qualche codice, erano semplicemente stati gettati nello
spazio profondo. Solo per la malsana idea di dotare
un’entità robotica di conoscenze culinarie per
piatti che, tanto, non avrebbe mai potuto mangiare.
Il pensiero, in un certo senso, lo lasciò con una sensazione
amara in bocca. Per tutta la vita che stava sviluppandosi davanti a
lui, con fame di scoperta e di evoluzione, ma destinata comunque a
rimanere chiusa in una scatola di latta, a parlare se andava bene con
l’essere più asociale del Pianeta Terra.
Con un tono leggermente più ammorbidito, Sasuke
replicò: “Sì. Ma non è
niente di che.”
Occhieggiò lo schermo e vide un’onda
impercettibile. Quasi come se AL-76 avesse sospirato.
“Oh. Peccato – dopo un istante domandò
– nel mio database ho solo una serie di nomi, di tradizioni
culinarie e di tecniche di preparazione. Mi hanno affascinato.
Però potresti descrivermi com’è fatto,
con i tuoi occhi, il ramen?”
Così come non aveva bocca, l’I.A. non aveva
nemmeno occhi. Per vedere e valutare criticamente ciò che
assorbiva con i sensi. Quante privazioni, per
un’entità sostanzialmente senziente che avrebbe
potuto calcolare il lancio di una nave spaziale e memorizzare qualunque
concetto con la facilità con cui un essere umano respirava.
“Può essere un valido esercizio di elaborazione
delle informazioni – buttò lì Sasuke,
per poi incrociare le braccia e cercare di rendere più
elementare possibile la descrizione – è in un
contenitore di forma tendenzialmente semisferica, al cui interno
c’è dell’acqua riscaldata insaporita,
del cibo suddiviso in stringhe, altro cibo di forma quadrata che
è tendenzialmente carne, proveniente da un animale chiamato
maiale, un altro cibo di forma ellittica chiamato uova, a volte
c’è del granchio lavorato con il nome di Kamaboko,
arrotolato in forma circolare che prende il nome di naruto, ma non
è poi così tipico. E’ una variante,
come in matematica o in fisica.”
“Descrivi bene, Uchiha. Mi piace l’idea della
variante. Naruto. Suona bene.”
Sasuke inarcò un sopracciglio, testimone come sempre della
continua capacità dell’I.A. di esprimere
preferenze o apprezzamento.
“E’ una rotella di granchio. Una stupidaggine
rispetto a tutto il resto.” Osservò, quasi
guardingo, incapace di prevedere la reazione dell’altro, cosa
che gli sembrò assurda.
“Una variante – lo stava correggendo?
– l’hai detto tu stesso. Senza varianti sarebbe
tutto uguale, no? E le cose sempre uguali a se stesse alla lunga
annoiano.”
Sasuke si prese un attimo per riflettere e domandare, con una punta di
entusiasmo soffocata dal bisogno di non mostrare mai troppo di se
stesso, specialmente con quell’I.A. che sembrava scavare
dentro ogni pensiero, rivelandosi più umana di lui:
“Da dove hai elaborato tutti questi concetti? E
l’idea di preferenza, di ciò che ti piace o non
piace.”
“Mi hai dato la conoscenza e, soprattutto, la
curiosità. Tutto parte da lì, Uchiha. Voglio
essere il naruto sulla scodella di ramen, non il cibo suddiviso in
stringhe impossibile da distinguere affondato nel mare di
brodo.”
C’era una nota di orgoglio e fierezza, in quella sorta di
dichiarazione dalle sfumature di romanzo d’avventura, nel
quale il viaggiatore spaziale percorreva intere galassie con il suo
equipaggio di eroi.
Senza rendersene conto, Sasuke provò un moto
d’affetto, immerso a sua volta nel brodo
dell’indifferenza e dell’incapacità di
relazionarsi con altri esseri umani. Ma c’era,
quell’affetto, e lentamente emergeva, come spinto dal fondo
tramite una portentosa bolla d’aria.
“Naruto.” Disse d’istinto, tra le labbra
sottili.
Quella volta AL-76 dovette rielaborare le informazioni, probabilmente
con scarsi risultati: “Ripeti, prego?”
Sasuke deviò lo sguardo dal monitor, facendo una leggera
smorfia, come se davvero l’I.A. potesse vederlo e comprendere
qualcosa di lui: “Puoi chiamarti Naruto. La tua variante, in
un nome. Mi sembrava che AL-76 ti facesse schifo, giusto?”
Usò del leggero sarcasmo e fece un mezzo sorriso.
Vide un picco più alto nella voce: “Naruto. Questo
mi piace, sì è meglio, decisamente meglio.
Naruto.”
Ripeté dopo un istante.
“Sei… –
l’ingegnere tacque in istante, incrociando le braccia, come
per difendersi – felice?”
“Sì. E’ quello che voi descrivete uno
stato di euforia dovuto a un evento piacevole, una consapevolezza o una
situazione di benessere. I miei dati fanno coincidere tutte e tre le
cose, dunque possiamo addentrarci nel superlativo e utilizzare
felicissimo.”
Sasuke accennò un sorriso che tramutò in una
leggera smorfia ironica: “Se potessi assumere zuccheri, direi
che sei persino sovraeccitato per una cosa tanto semplice come un
nome.”
“Se fosse tanto semplice perché non mi hai subito
detto il tuo, di nome?” domandò, diretto e
cristallino. Capace, come sempre in quelle settimane, di smuovere tanti
aspetti di Sasuke che questi avrebbe preferito evitare.
“Perché chiamarsi per nome implica un rapporto di
confidenza. E noi, appunto, non
ci conosciamo.”
“Quanto la fai difficile, Uchiha. Mi hai creato, direi che mi
sembra già un rapporto di confidenza piuttosto intimo,
ti pare?”
Sasuke assottigliò gli occhi: “Certo che per avere
poche settimane di vita ne hai di arroganza. Non
c’è proprio niente di intimo in una serie di imput
informatici – sbottò, per poi scuotere la testa,
rendendosi conto di dover necessariamente ritrovare la calma, anche se
quella sottospecie di scatoletta in overdose da felicità
sembrava fare di tutto per attentare alla sua pazienza e provocarlo
– ti dico il mio nome, dopodiché vedi di non
intrometterti in altri dettagli che riguardano la mia vita
privata.”
Si rese conto dell’assurdità di quanto stava
dicendo, visto che non aveva chissà quale fantastica vita
privata per la quale si potesse sentire attentato nella privacy, ma le
sue parole furono istintive, consapevole di aver parlato più
in quei giorni con un’I.A. che in mesi e mesi di vita con
altri esseri umani. E di essere stato bene, come non gli capitava da
tempo; non tutti, infatti, sono in grado di gestire una condizione di
benessere, forse perché destinata a durare così
poco.
“Guarda, avessi i codici per ridere, lo farei. Sei
incredibilmente serio e asociale Uchiha, ma ipotizzo che tu sia una
brava persona.”
Certo, ci mancano solo
le modifiche vocali della risata. Al prossimo giro ti intesto
l’appartamento.
“Come sono io non ti deve interessare, né sono
tutto questo granché di persona –
tagliò corto, per poi aggiungere secco, prima che Naruto
potesse interromperlo – allora, proseguiamo o hai altre
osservazioni non richieste nel mezzo da farmi?”
L’I.A. sembrò capire la domanda retorica e non
tirò oltre la corda, limitandosi a esortarlo: “No,
prego, sono tutt’orecchi.”
“Sasuke.”
Disse semplicemente, incrociando le braccia per ostentare
un’indifferenza che non possedeva.
“Sasuke Uchiha – ripeté la voce da oltre
il monitor – suona bene. Piacere di conoscerti,
Sasuke.”
Aveva un tono allegro, persino entusiasta. Inspiegabilmente,
l’ingegnere sentì il petto farsi più
leggero, il volto bisognoso di distendersi in un sorriso. Dopo un
istante si schiarì la gola e rispose, guardando fuori
dall’oblò:
“Piacere di conoscerti, Naruto.”
*
Una nuova nave
coloniale era partita: l’idrogeno era raccolto da sistemi
discoidali per fare da propellente per l’astronave,
alimentata da un impianto laser installato in ogni nave spaziale per
scaldare il propellente e creare la spinta. Il vero spettacolo
però, se solo fosse stato possibile vederlo con occhio
umano, era il campo elettromagnetico esteso attorno alla base di lancio
Bussard per centinaia e centinaia di chilometri.
La tuta
spaziale serviva per proteggere anche da fenomeni come
l’elettromagnetismo, inoltre le navi erano logicamente
costruite in modo da difendere i viaggiatori all’interno da
ogni possibile contaminazione, anche una ben più modesta
navicella come quella di Sasuke, il quale era stato a suo modo contento
di aver assistito a quel lancio.
Non tanto per
una qualche forma di fascino che, in seguito ad anni di spettacoli
tutti uguali, l’ingegnere aveva smesso di provare,
bensì perché dopo due mesi di lavoro nello spazio
Sasuke poteva rientrare e prendersi uno stacco di due settimane nel
quale ricaricare le pile.
Quella volta
aveva dovuto prolungare la sua permanenza più del
necessario, date le modifiche apportate assieme ai suoi colleghi
all’impianto di lancio e, a conti fatti, anche la pausa di
due settimane non era poi tutto questo granché, ma per
Sasuke era più che sufficiente: giusto il tempo di respirare
atmosfera terrestre, attivare le gambe e i muscoli in un vero terreno
con gravità originale, non simulata, mangiare cibi magari
non eccelsi eppure sicuramente meglio delle robe liofilizzate che ormai
si sorbiva quotidianamente nella navicella.
L’unica
cosa per cui si dispiaceva, era l’I.A. Portarla con
sé, al momento, era impensabile. Non solo perché
avrebbe dovuto trovare un impianto in cui caricarla, ma il vero
problema era il divieto di possedere I.A. a cui non fosse stato
bloccato il libero arbitrio: se avessero trovato Naruto, ormai ex
AL-76, non solo Sasuke avrebbe rischiato punizioni esemplari, quali
l’ergastolo o la deportazione, ma Naruto stesso sarebbe stato
cancellato in maniera definitiva.
E, al di
là delle finte minacce di quei mesi trascorsi assieme, a
Sasuke dispiaceva profondamente l’idea di non poter
più interagire con quell’ammasso di circuiti un
po’ chiassoso che si era dimostrato tanto capace di
comprenderlo, meglio di quanto avesse mai fatto un qualsiasi essere
umano. Per quelle due settimane sulla Terra, dunque, niente
più I.A. Solo il suo appartamento, con il frigo vuoto, il
cibo d’asporto e i mobili dall’arredamento
essenziale coperti di polvere.
Appena si
richiuse la porta della camera di decompressione e l’ossigeno
tornò a circolare nell’ambiente, Sasuke si tolse
il casco e udì dopo neanche un istante le note di una
canzone di David Bowie. Sì, aveva lasciato a Naruto libero
accesso al suo database di canzoni terrestri vecchie centinaia e
centinaia di anni.
Mentre Ziggy
Stardust suonava la chitarra assieme ai ragni da Marte, Sasuke si
cambiò, bevve, afferrò una barretta energetica e
riattivò la gravità simulata. Quando
entrò nella zona computer sentì una voce ormai
nota salutarlo:
“Bentornato
Sasuke! Andato bene il tuo bagno nel campo elettromagnetico?”
“Bene,
considerato che non ci sono state falle e abbiamo completato i test di
resistenza allo stress dei materiali.”
Avrebbe voluto
aggiungere che tra qualche ora la base di lancio Bussard gli avrebbe
dato l’ok per il rientro sulla Terra ma tacque, consapevole
che invece Naruto si sarebbe ritrovato in uno spazioporto, zona franca
di nessuno, senza però alcun contatto con il resto del mondo.
“Ti
ho scaricato le analisi e i dati dei test. Sono arrivati anche dei
messaggi dalla Terra di altri esseri umani. Identificativo: Suigetsu.
Me ne risulta uno vecchio di anni mai aperto, con identificativo
Sakura.”
Quando
udì quel nome, Sasuke drizzò le orecchie e
domandò di scatto: “Li hai ascoltati?”
“No.
Li ho solo scaricati. Perché? Hai qualcosa di compromettente
da nascondere, eh, vecchio filibustiere?”
Nonostante
tutto, Sasuke riuscì a trovare ridicola in una maniera adorabile la terminologia da
romanzo d’avventura importata da Bardo. Per il resto,
mangiò l’ultimo boccone della barretta e
borbottò, con un peso inconsistente all’altezza
della gola: “La cosa più illegale che ho in mio
possesso sei tu, quindi fossi in te farei meno lo spiritoso, stupida
rotella di granchio.”
Gli
sembrò di sentirlo vagamente offeso: “Ma che gran
minaccia! Uuuuuh sono tutto un tremito! Aspetta che faccio sbandare
Viger per farti presente quanto sono terrorizzato.”
“Prendi
il controllo dei comandi e sarà l’ultima cosa che
farai prima di venire cancellato da ogni sistema informatico
interplanetario.” Lo minacciò l’altro,
consapevole della falsità di quelle parole.
“Addirittura
interplanetario? Mica sono un virus che mi diffondo
nell’Universo!”
“Peggio
– replicò Sasuke, caustico – sei una
piaga. Tipo un’erbaccia, una volta radicata non la togli
più.”
Si morse un
labbro, consapevole di aver dato un peso aggiuntivo a quelle parole.
Poi,
all’improvviso, una risata.
Naruto,
l’I.A. un tempo AL-76, nata da dei racconti e dalla
concessione del libero arbitrio, aveva riso. Una risata che sembrava
cristallina, nonostante la provenienza elettronica, e che
lasciò Sasuke immobile, così poco abituato a un
suono tanto umano dopo tutti quei mesi nello spazio, proveniente
dall’unica entità con cui avesse dialogato fino ad
allora.
Tacquero
entrambi.
Dopo un
istante Sasuke fece presente, più serio per controllare
meglio cosa dire: “Me l’avevi chiesto, no? Di poter
ridere.”
“Non…
– sembrò che Naruto dovesse a sua volta calcolare
cosa dire – non mi avevi detto di aver caricato i codici.
Stavo pensando a come trasmetterti l’idea e mi sono trovato a
poter attingere a qualcosa di così concreto.”
Ci fu ancora
un istante di silenzio, mentre la musica continuava ad andare. I Pink
Floyd. Che parlavano di un grande spettacolo nel cielo e riflettevano
sulla morte, rispecchiando il suo pensiero. Sasuke non ne aveva mai
parlato con nessuno; magari, un giorno, avrebbe avuto
l’occasione di confrontarsi con Naruto anche su quello.
“Grazie.”
Disse alla fine l’I.A. Per la prima volta, usò un
tono più basso del solito, ma in qualche modo estremamente
profondo.
Sasuke
assottigliò le labbra, quasi le compresse tra i denti, per
soffocare tutto il resto.
“Prego
– disse dopo un istante, per poi aggiungere – hai
una bella risata.”
“Modestamente.”
Scherzò Naruto, dopo un istante.
Infine, fu
Sasuke a dire, all’improvviso: “Tra qualche ora
farò rientro sulla Terra. Per un po’ ti
lascerò in stand-by.”
Non aggiunse
altro. Le parole non erano mai state il suo forte e, a conti fatti, non
aveva mai parlato così tanto come in quei mesi.
“Lo
so. Ho il programma di lancio.”
Sembrava
triste, in qualche modo. Dopo un istante, dato che Sasuke taceva,
Naruto aggiunse:
“Sarai
contento, di tornare sulla Terra. Anche se sei un umano che odia gli
altri umani.”
L’ingegnere
scrollò le spalle e deviò lo sguardo verso lo
spazio, ironizzando: “Diciamo che non mi dispiace
l’atmosfera terrestre. Anche se mi hanno detto che nemmeno
Marte è poi così male e gli anelli di Giove sono
stati rivalutati parecchio, nel Sistema Solare.”
Naruto rise.
Ancora, la sua risata si espanse nell’habitat artificiale di
quel cubicolo, costretta tra mura metalliche ingiustamente
così piccole rispetto al resto dell’Universo.
Sasuke provò una fitta di qualcosa di simile alla nostalgia.
Fu allora che
l’I.A. ammise: “Mi piacerebbe, un giorno, vedere la
Terra. Calpestarla, con gambe vere. Sentire il profumo del ramen, del
mare dei racconti che parlano d’intrepidi pirati
avventurieri; sfiorare i mobili vuoti della tua casa. Mi piacerebbe
– aggiunse – vedere come sei fatto, dopo averti
parlato per tutti questi mesi.”
E
toccarti. Tastare il tuo volto, la pelle accaldata dopo aver corso,
passare le dita tra i capelli, intrecciati a me come se fossero il
firmamento e le stelle che vivono, non viste, sotto il Sole.
Sasuke avrebbe
voluto dire quelle precise parole che sfrecciarono rapide,
incontrollate, nella sua testa. Ma… se le avesse espresse ad
alta voce sarebbero morte, le avrebbe uccise, rendendole solo il frutto
di un’emotività non controllata.
“Un
giorno, Naruto – espirò, sollevando gli occhi
verso le pareti della sua navicella – Un
giorno…”
Tacque. Anche
Naruto non disse nulla. Poi, si aprì una comunicazione dalla
base Bussard.
“Uchiha,
qui è la Base Bussard, mi ricevi?”
“Forte
e chiaro, Base Bussard.” Disse, straniato dal dover parlare
con qualcuno di diverso da Naruto, dopo quello che lui gli aveva detto.
“Dallo
spazioporto terrestre della Cittadella hanno dato
l’autorizzazione per il tuo ingresso nelle prossime ore
nell’atmosfera. Procedi con l’elaborazione dati per
il viaggio.”
“Ricevuto
– confermò Sasuke dopo un istante –
invio le coordinate e la traiettoria tramite sistema una volta
calcolate.”
“Roger.
Buon rientro a casa, Uchiha.”
La
comunicazione si concluse, dopo un istante di statico dovuto alle
interferenze. Infine vi fu il silenzio, anche la musica era cessata,
come se loro fossero fuori, nello spazio, dove il suono non si
propagava.
“Suppongo
che dovremo salutarci, Sasuke.” Disse infine Naruto.
L’altro
inarcò un sopracciglio, scoprendosi bisognoso di
temporeggiare: “Ci sono ancora i calcoli da eseguire
e…”
“Già
fatto, sono stati caricati sul sistema – un accenno di
risata, meno luminosa delle precedenti – un po’
troppo efficiente, vero?”
“Ti
ho insegnato bene, tutto qui.” Ironizzò, anche se
in maniera per nulla convincente.
“Sai
– disse infine l’I.A. – avrei voluto
tenerti nascosti i dati e fingere di doverli ancora elaborare, per
passare più tempo assieme. Ma… tra tutte le
infinite e splendide cose che mi hai dato occasione di conoscere, non
mi hai insegnato a mentire, Sasuke.”
Questi tacque,
in un primo tempo. Poi si alzò in piedi e disse con fare
apparentemente casuale: “Devo sistemare le ultime cose, prima
di partire. Possiamo ascoltare un po’ di musica nel
frattempo. Poi, ci sentiremo ancora, tra qualche settimana.”
Si
guardò attorno, consapevole che Naruto non era in grado
vedere nulla di ciò che lo circondava. Contemplò
gli oggetti, pochi, compattati e perfettamente allineati, oltre
all’ordine in realtà assoluto della navicella. Non
c’era davvero nulla da sistemare.
Ma…
Sasuke era umano. E, a differenza di Naruto, sapeva mentire, come ogni
essere umano dell’intero Universo.
Naruto lo
salutò. Lo congedò, prima del viaggio, mentre
Sasuke infilava la tuta, con le note di Starman in sottofondo, di David
Bowie. Sembrava la sua canzone preferita.
La musica
infine cessò. Ogni cosa era pronta, mentre Naruto, spento,
taceva. Sasuke ascoltò solo un messaggio olografico
scaricato sul sistema; quello di Suigetsu.
“Perché
è così difficile parlarti, Sasuke? Due mesi. E
solo qualche sporadico messaggio. Dove va a finire il tuo
tempo?”
Gli chiedeva.
Sembrava arrabbiato. E triste per lui, nel suo modo amichevole e un
po’ folle di ragionare. Una cometa sfolgorante di gas
bruciati che trapassa l’atmosfera, estinguendosi. Aveva tutte
le ragioni per sentirsi così; una volta, forse, Sasuke
parlava di più, nonostante la sua natura chiusa. Ma dopo
tutti quegli anni… quante cose si erano arrugginite, in
quegli anni.
Sasuke Uchiha
spense l’ologramma. E anche il senso di colpa piantato nel
petto tacque di conseguenza, un soffocamento temporaneo, come un
antidolorifico per placare il dolore.
Trasmise le
coordinate alla base di lancio Bussard e, infine, fece ritorno sulla
Terra, smettendo di essere un uomo delle stelle. O, forse, il suo uomo
delle stelle era lì, in quell’astronave, e lui lo
avrebbe lasciato solo, fino a che non fosse tornato nello spazio.
Riferimenti,
citazioni e canzoni di riferimento:
Bussard: un
collettore progettato come propulsore
spaziale. Da qui, ho omaggiato la base di lancio interstellare a nome
del
fisico che ha ipotizzato il sistema di propulsione.
Cittadella: in Mass
Effect, base spaziale importantissima
e centro politico dove vengono prese importante decisioni da parte di
un
consiglio che rappresenta le principali specie.
Bardo: Nella storia
‘Un giorno’ di Asimov, Bardo è
un computer per bambini
capace di
narrare storie.
Bowie (per i Pink
Floyd... al prossimo capitolo): Space
Oddity, Ziggy
Stardust e i Ragni da
marte (ne parla nel testo della canzone), Starman;
AL-76: Tratto dal
racconto di Asimov ‘Il robot
scomparso’, bellissima storia di un robot che si trova per
sbaglio sulla Terra
e grazie alle esperienze su di essa, in un certo senso cresce.
Viger: Tratto dal
primo film di Star Trek del 1979. Un’entità
aliena afferma di chiamarsi Viger; in realtà scoprono che
alcune lettere di
questa sonda sconosciuta erano state cancellate dal tempo: si tratti
infatti di
una sonda spedita centinaia di anni prima dalla Terra. Sono sempre
stata
affascinata da questo fatto, sin da bambina
Un giorno...: Tratto
dal racconto di cui sopra ‘il
robot scomparso’
Cervello positronico: il
cervello dei robot secondo Asimov, animato da un flusso di positroni.
Sproloqui
di una zucca
Ohibò,
ohibò, chiedo umilmente perdono: so che mi erano state
chieste cose non troppo fantascientifiche ma... c'è una
ragione ben specifica, per ogni cosa che ho scelto e che è
stata detta. Dal prossimo capitolo l'ambientazione oltretutto
cambierà.
Spero che i dialoghi
tra Sasuke e Naruto siano graditi e che i personaggi, per quanto
mooooolto distanti dal loro contesto, risultino IC. In questo primo
capitolo più... carico d'affetto, se vogliamo, si affrontano
tematiche che mi sono sentita di toccare nel parlare d'I.A. e di
sviluppo dell'intelligenza artificiale, cercando sempre di usare il
massimo realismo possibile.
E' importante
l'identità, la scoperta del genere di appartenenza, l'uso
dei nostri recettori sensoriali e, più in maniera
approfondita, l'idea della solitudine e di come ogni essere umano la
affronti o, parallelamente, decida di non affrontarla affatto. Per
questo nel primo capitolo ho scelto lo spazio, in contrapposizione con
la sovrappopolata Terra.
Avviso che non
è un racconto leggero emotivamente; almeno, per me che lo
scrivevo non lo è stato. Ho messo tanto di me, al punto da
essere consapevole, alla fine, di aver scoperchiato il mio lato
più emotivo ma... giudicherete alla fine, quando valuterete
cosa vi è rimasto una volta conclusa la storia.
Ringrazio come sempre
Sunako, aka Ilenia, perché se qualcuno ha un Betareader io
ho direttamente tutte le lettere dell'alfabeto e la persona
più preziosa che potessi trovare con cui condividere le mie
vulnerabilità e i miei sentimenti, messi in ogni storia.
Ancora grazie infine a
Blair, alla quale, come detto, dedico ogni riga di questo racconto:
spero davvero che riesca a trasmetterti qualcosa.
Grazie anche a
chiunque abbia letto e deciso di intraprendere la lettura di questo
Sasuke (perché, perché i miei Sasuke sono
così complicati emotivamente?) e questo Naruto che in un
certo senso cresceranno, assieme, dopo essere nati tra le stelle.
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