Capitolo
19: essere
o non essere
Non
è solo per quello che facciamo
che siamo ritenuti responsabili, ma anche per quello che non facciamo.
(Molière)
Il
rintocco
sfuggente di passi che calpestano un suolo vuoto, esteso, abbandonato.
Il
silenzio maestoso
disperso nel buio, in un tetro eppure meravigliosamente raccapricciante
universo ove vigono regole che non possiamo controllare.
Le
regole del caos
più assoluto, della mente quando si libera dai vincoli della
razionalità, del
perbenismo, della sua costretta e ipocrita umanità.
Alzate
dunque il
sipario, guerrieri del sogno!
Alzatelo
e occupate
questo palco!
Date
sfogo a quello
che la mente umana rinchiude in un cassetto e decide di vincolare, di
occultare
e dimenticare a favore della propria falsa felicità. Date
sfogo alla sua
inconfessabile natura, ai suoi offensivi e perversi desideri. Alle
fiere che si
celano dietro le sue sante apparenze. Oscuri e detestabili istinti che
nella
notte, quando il raziocinio si abbandona al beato riposo, subentrano
appagano
finalmente la loro sete.
Perché
noi uomini
ci vincoliamo tanto? Perché da soli poniamo catene disumane
sulle nostre
braccia?
Perché
ci ancoriamo
alle mura di una felicità così falsa ed
evanescente?
La
paura ci ha resi dei codardi.
Tuttavia
non temete,
è quando avrete gli occhi aperti che dovrete tenere a freno
le vostre
preoccupazioni, i vostri istinti e i vostri pensieri
Quando
chiuderete
gli occhi, invece, nessuno vi farà del male. Potrete
riempire questo palco con
le immagini e i sentimenti che preferite. Che siano dolci, che siano
amari…che
siano di sangue o di clemenza.
Imbrattate
queste
mura! Scolpite e graffiate il parquet! Strappate e bruciate le sue
tende!
Fate
pure, tanto
dopo la notte tutto sarà già sparito.
Non
pensate però di
dimenticare.
Celato
in un angolo
di quella parte della vostra mente, quei feroci desideri egoisti
privati dai
vincoli dell’umanità, convivono con voi. Oh,
sì…convivono.
Vi
struggono. Vi
struggono perché anche per loro è dura aspettare
la notte.
Giacete
quindi.
Giacete
tranquilli.
Se
sia più vera una
vita imposta da regole e vincoli, nella quale viviamo quotidianamente
nelle ore
diurne, rispetto una completamente sciolta e immorale, che si mostra
solo una
volta abbandonato il nostro controllo razionale… in entrambi
i casi sarete
costretti a viverle.
Che
ci crediate o
no, siete entrambe le cose.
L’uomo
del giorno è
uguale alla bestia in cui si trasforma di notte.
Solo
che non avete
il fegato per ammetterlo. Non avete il coraggio per urlare che anche
voi
vorreste essere come quell’incubo. Un incubo crudo, sporco,
meschino, eppure
puramente libero.
Non
abbiate gli
occhi corrucciati, non disapprovate quelle immagini disturbanti che
ambite.
Siete
tutti esseri
umani. E tutti gli esseri umani convivono con tutto questo.
Possiamo
far finta
che non siano nulla, che siano solo “sogni”. La
verità invece è che l’uomo è
schifosamente ipocrita. Condanna il mostro che è dentro di
sé, convincendosi
che la vita è oltre i nostri incubi.
Invece
la vita è
proprio lì, proprio dove nessuno può
controllarci; dove nessuno può vederci.
Un
fascio di luce
bianca si diffuse nel vuoto, schiarendo l’immagine di un uomo
dagli abiti
aristocratici. Egli alzò il viso, lasciando ben evidenziare
i suoi tratti da
quella violenta illuminazione.
Il
suo viso era
sporco di polvere e di sangue, i suoi capelli pallidi erano appesantiti
e
disordinati, le sue vesti erano sgualcite e graffiate. La sua spalla
era
dolorante sebbene cercasse di non darlo a vedere. La foratura del
proiettile
che aveva lacerato la sua carne diverse ore prima aveva preso a pulsare
di
nuovo. Sentiva il viso caldo e la pelle fredda. Ciononostante il suo
sguardo
era fermo, severo, carico di forza.
L’ex
comandante di
Rockfort Island, Alfred Ashford, era un folle eppure fiero soldato.
Dietro
le sue gesta
eccentriche, la parlantina equivoca e la mentalità astrusa,
si mascherava un Re
rigido e imponente, capace di rialzarsi milioni e milioni di volte pur
di
difendere il suo regno inestimabile.
Egli
avanzò sul
parquet scuro e tirò con veemenza una corda vecchia e
impolverata eppure ancora
molto resistente; questa fece faticosamente sollevare un pesante
sipario di
velluto, dietro al quale erano celati dei meccanismi dalle forme
incomprensibili.
L’uomo
giostrò con
l’impianto di illuminazione posto sul muro, ricollegandolo in
modo corretto e
attivando finalmente tutti i fari dell’enorme teatro. Questi
puntavano verso
ognuno degli elementi che ornavano quel palcoscenico, suggerendo
perfettamente
l’idea che questi costituissero il trabocchetto che gli
spettava da risolvere.
Alfred
si avvicinò
di fronte una tela grande poco più di un metro, ubicata su
una parete ben
visibile della scena. L’immagine raffigurata era quella del
misterioso e
inquietante “Incubo” di Johann Heinrich
Füssli, risalente al 1782. Si trattava
ovviamente di una copia, tuttavia l’artista era riuscito a
riprodurre vagamente
la profonda concettualità ivi racchiusa, ove la mente si
abbandona ai suoi
desideri più istintivi durante il periodo inconscio della
notte.
L’opera
apre una
finestra sulla parte più oscura e irrazionale della mente
umana. In un momento
in cui dilaga la razionalità, Füssli porta in
superficie gli impulsi più
inspiegabili che sottostanno al meccanismo onirico.
L’immagine
vede uno
sfondo scuro, impalpabile, che abbraccia nel suo nero
l’intera scena ove la
protagonista è una giovane donna addormentata in una
posizione contorta. Ella è
supina e le sue braccia sollevate sono rivolte verso la base del tetto;
il suo
busto è ritorto e l’espressione sofferta e
abbandonata richiama l’agonia che
osteggia nei suoi pensieri. Un demonio è rannicchiato sul
suo addome, quale
simbolo di un astruso incubo inammissibile, materializzatosi come
simbolo
dell’oppressione che la soffoca. Da qui non è
difficile intuire per quale
motivo suddetta tela è denominata Incubo.
Una
cavalla dagli
occhi orbi e vuoti spia la scena fuoriuscendo da un tendaggio purpureo,
etimologicamente simbolo dell’incubo (in inglese nightmare:
‘night’ più ‘mare’,
ovvero notte e cavallina), tramutatosi come uno spirito mandato a
tormentare i
dormienti.
L’insieme
di queste
forti immagini contrastanti, enfatizzati da chiaroscuri decisi e
violenti,
vanno a rappresentare il concetto di Incubo in modo penetrante.
Abbracciano
verità e sentimenti contrastanti, un libido spudorato e
sottaciuto che, nella
normalità del quotidiano, la fanciulla riesce a
celare…ma che nella notte si
sprigionano con tutta la loro veemenza.
Il
contrasto che vi
è fra la realtà rappresentata in primo piano nel
quadro, e l’incubo ove regnano
le figure in secondo piano.
Compito
di Alfred
era ordinare quel palcoscenico e ricreare la scena seguendo un ordine
ben
preciso.
Egli
si avvicinò
alla prima scultura e tirò via il lenzuolo che lo teneva
preservato. Era un
comodino ove erano poggiati pochi elementi, quali uno specchio e dei
cosmetici.
In
seguito svelò la
fanciulla addormentata. Una scultura dalle proporzioni umane,
realizzata con
una minuziosità impressionantemente realistica. Il biondo
Ashford avvicinò a
lei la figura di una cavalla realizzata su un elemento di scena. Infine
poggiò
sul suo addome la statuetta di un diavolo, che aveva già
reperito lungo il suo
percorso.
In
ultimo a tutto,
spense di nuovo le luci e attese.
Attese
ponendosi
accanto a quella donna affranta, accarezzandola dolcemente e
condividendo quel
doloroso eppure appagante incubo.
Conoscitore
della
meschina crudeltà dell’animo umano, del peso di
quegli spasmi crudeli ed
eccitanti che nessuno aveva il coraggio di ammettere nemmeno a se
stesso.
Incubi
raccapriccianti e desiderabili.
Incubi
che persino
lui non poteva controllare…
Clank
Il
rintocco di un
chiavistello risuonò nel buio. Alfred riaprì gli
occhi e guardò nella direzione
di quel suono. Egli sapeva dove avanzare, non ebbe nemmeno bisogno di
riaccendere
la luce.
Si
approssimò alla porta
e lasciò quell’ambiente, simbolo non solo
più dei suoi tormenti riguardo
Alexia…ma anche di quei desideri inconfessabili che
gravavano sul suo cuore.
Dolenti
e
meravigliosi.
Quando
fu
dall’altra parte dell’uscio, una spia verde
illuminava la zona. Alfred non
seppe se sentirsi sorpreso o non. Quel segnale indicava che il codice
1971 era
stato inserito nel tastierino, ciò ci traduceva nel fatto
che Claire Redfield era
riuscita a trovare l’insenatura nel muro così da
sbloccare il suo passaggio, prima
di collocare in modo ordinato i quadri dell’Amleto.
Sorrise.
Non
era dell’umore
per interpretare i suoi pensieri, tuttavia quella reazione si
materializzò
spontanea senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Lasciò
quindi
quella stanza evitandosi la lunga e noiosa scappatoia che in caso
contrario
avrebbe dovuto intraprendere, raggiungendo così direttamente
la sezione
successiva grazie all’aiuto della sua misteriosa e
incomprensibile partner che
gareggiava con lui in quel gioco di coppia.
Adesso
veniva il
difficile, proprio oltre quell’uscio.
Proprio
perché
Claire stava evidentemente avanzando con lui, era adesso necessario che
anche
lei si trovasse dall’altra parte.
Era
giunto
all’ultimo stage di quella trappola mortale che li aveva
divisi.
Subentrò
in un’area
cupa, umida, fredda; si trattava di un ambiente costruito direttamente
nella
roccia, le cui pareti erano bagnate e ammuffite. Su una pedana di marmo
posta
in fondo alla stanza vi era un grande portone di ferro, decorato con
l’immagine
di due figure di sesso opposto che aprivano le due ante. Nonostante il
muschio lo
avesse deturpato ricoprendo gran parte di esso, restava un elemento di
notevole
appariscenza. Alfred lo fece collocare lì sotto molti anni
prima, dimenticando
quasi la dedizione con la quale scelse quel materiale e quei preziosi
intagli
d’argento.
Fece
scorrere la
mano su di esso, nostalgico, dopodiché si soffermo sulle
numerose serrature che
tenevano ben sigillato quell’ingresso.
Erano
dieci toppe,
eccentricamente poste l’una dopo l’altra, tutte
molto grosse e rugginose. Il
tempo aveva fatto il suo crudele corso e per qualche istante persino
l’Ashford
si preoccupò del loro stato particolarmente gravoso.
Cercò di sbirciare oltre
ognuna di essere, come accertandosi che fossero come se le ricordava.
Era
restio ad
ammetterlo, ma in quell’istante faticava a ricordare senza
indugi l’esatta
combinazione da seguire. Questo perché c’era un
severo modo per aprila.
Doveva
però
assicurarsi che ci fosse Claire dall’altra parte.
Il
biondo corrucciò
gli occhi, detestando quella situazione. Odiava dover palesare quel suo
momentaneo stato di bisogno; doveva però ammettere che se la
Redfield era
riuscita a sopravvivere e ad arrivare fin lì, sarebbe potuto
tornare molto più
in fretta ai laboratori e assicurarsi che Albert Wesker non avesse
fatto danni
alla struttura. Si sarebbe vendicato di lui, oh, sì.
Mentre
era assorto
in quei pensieri, il suo orecchio percepì il rintocco di dei
passi.
Sebbene
quella
porta fosse molto prominente, i rumori dall’altra parte erano
pressappoco
nitidi; gli sembrava quasi di poter vedere chiaramente qualcuno
aggirarsi
dall’altra parte dell’uscio.
Calcolando
il
probabile peso e statura del soggetto dalla pesantezza dei passi, non
faticò a
immaginare qualcuno di leggiadro ed esile…ovvero la cara
Claire Redfield.
Alfred
cominciò a
battere sul ferro con un pugno ben saldo.
“Redfield?”
“Uh? Alfred! S-sei qui?”
L’Ashford
sorrise,
soddisfatto.
Fece
caso alla voce
lontana della giovane, così si apprestò a
rivelarsi meglio.
Appoggiò
la spalla
sulla porta adagiandosi con il resto del corpo, incrociando le braccia
e
tirando una sorta di sospiro di sollievo.
“Ben
ritrovata,
Redfield. Dove mi cerchi? Sono dietro il battente che dovresti avere
davanti ai
tuoi occhi. Avvicinati, non farmi alzare la voce. Devo spiegarti delle
cose.”
La
rossa obbedì,
schiacciandosi quasi contro la porta in ferro battuto.
“Ci
sono.”
Ci
fu un breve
momento di silenzio. Un’innocua contentezza di ritrovarsi?
Sebbene
non potesse
scorgerla, Alfred ebbe come la sensazione di vederla… di
immaginarla mentre
sistemava i capelli dietro l’orecchio e timidamente cercava
di approcciarsi a
lui.
A
un uomo
complicato come lui……ne era cosciente.
“Stai
bene?”
Il
biondo sussultò
a quella domanda. Si ritrasse, profondamente scosso da quel tipo di
attenzioni,
era qualcosa cui non era abituato e soprattutto non voleva cedere alle
emozioni.
Dunque presto tagliò corto, scappando da quel disturbo.
“Non
è il momento
per parlare, ora. Hai trovato lo stiletto?”
La
ragazza si
sorprese di quel tono severo, tuttavia non vi diede peso più
del necessario. Le
circostanze non lo permettevano. Recuperò
l’oggetto e lo pose di fronte a sé.
“Sì,
ce l’ho in
mano proprio ora.”
“Bene,
introducilo
nella serratura più a destra e lascialo lì.
Quando senti scattare, non muoverlo
ulteriormente. Sarà certamente arrugginito, ma
funzionerà senza dubbio quindi
lavoraci un po’, senza spezzare la lama.”
L’Ashford
seguì i
movimenti di Claire ascoltando attentamente i rumori
dall’altra parte. Era come
se fosse esattamente accanto a lei. Poteva vedere il momento in cui
aveva
infilato lo spadino, i suoi sforzi nel farlo girare, il tremore, la
pressione
delle sue mani su di esso. Quando sentì il meccanismo
rispondere, la fermò.
“Perfetto,
non
muoverlo ulteriormente.” Si fermò.
“Ascoltami attentamente. Davanti a noi ci
sono dieci toppe ove inserire correttamente delle chiavi. Dal momento
nel quale
io girerò la prima, avremo un tempo prestabilito per aprire
questa porta. Un
tempo in cui: non potremo sbagliare, non potremo ritardare, ma
soprattutto dovremo
muoverci all’unisono; or dunque presta ascolto a ogni
passaggio.”
“D-D’accordo.”
La
sentì asserire,
leggermente incerta. Alfred sapeva che non sarebbe stato semplice, ma
confidava
nel buon senso di Claire, dopotutto si era dimostrata
abbastanza…intelligente.
Doveva ammetterlo.
Decise
di
abbandonare ogni dubbio e di cominciare subito a innescare la trappola.
Esatto,
‘trappola’.
Solo
attivandola
poteva infatti riuscire ad aprire quell’uscio.
Pescò
dunque una
chiave dalle sue tasche e la infilò nella prima delle
serrature che, dopo un
po’ di resistenza, scattò.
A
quel punto
un’appariscente armatura roteò
dall’altra parte del muro, apparendo nella
stanza. Questa sollevò le braccia e puntò una
balestra contro di lui.
La
stessa cosa
avvenne alle spalle di Claire, dall’altro lato della stanza.
Entrambi poterono
sentire il raccapricciante stridio del metallo che strisciava mentre
assumeva
quella posizione.
“Si
è…si è mossa
un’armatura!”
“E’
la stessa che
hai già visto nell’altra stanza, ricordi? Se
sbagli un passo, ti trafigge. Esattamente
come allora.” Disse serio, ma totalmente tranquillo.
“Questa trappola è stata
ideata per dividere in modo irreparabile la coppia e impedir loro di
proseguire,
condannandoli a morire nella più completa pazzia e
solitudine. Ragion per cui
muoviti con garbo e non fare niente di testa tua! Ora girerò
la seconda
serratura e succederà esattamente questo: si
solleverà da terra una colonna su
cui è appoggiata la ricostruzione in pietra di
un’aquila. Girala verso questa
porta e non muovere altro finché non prenderò
parola.” Si bloccò. “Appena senti
la serratura scattare, vai.”
Entrambi
si misero
nella propria postazione. Sia Alfred che Claire attesero di sentire la
seconda
serratura muoversi e appena questa girò, la colonna apparve
in entrambe le
stanze. Vi si affiancarono e presero a farla girare fino a portarla
nella
direzione desiderata. La rossa strinse i denti, affaticata dalla
pesantezza di
quella statua. Nonostante le mani completamente graffiate,
riuscì infine a
spostarla. Si voltò dunque verso la porta.
“Io
ho fatto!”
Non
ebbe nemmeno il
tempo di terminare la frase, che un rumore alle sue spalle la fece
scattare
d’un tratto. Sembrava come se una grata fosse caduta da
qualche parte. Pregava
in cuor suo che non fosse apparsa qualche b.o.w. proprio in quel
momento!
“Ehi,
ho sentito un
rumore.”
“Non
ora, Redfield.
La trappola è innescata. Presto la stanza sarà
pervasa da un potente gas
velenoso. Cerca di rimanere lucida fino alla fine, questo
inibirà i tuoi sensi
e la tua capacità cognitiva. Resta concentrata.”
Claire
sospirò
sconcertata. Perché stavano innescando quella trappola?
Era…era una follia!
Una
statua brandiva
un’arma pronta a colpirla, seguendo i suoi movimenti
diabolicamente e attendendo
un suo passo falso; un gas si stava propagando nella stanza e presto
l’avrebbe assopita,
condannandola a una morte infausta; oltre questo, lei non possedeva
nessuna
chiave per proseguire e doveva assecondare gli ordini di Alfred in modo
perfetto o avrebbe decretato anche la sua disfatta.
Era
una situazione
veramente tesa.
Non
si
tranquillizzò quando, oltre la porta, cominciò a
sentire gemiti di dolore a lei
molto ben noti; nella stanza ove era intrappolato il biondo
v’erano degli
zombie!
Claire
osservò con
rabbia il fucile da caccia che aveva…non poteva passarglielo
in nessun modo?!
“Alfred?!
Cosa
succede lì dentro?”
“Non
è un problema
tuo, bada alla tua posizione, non farmelo ripetere ancora. Cerca
inoltre di non
parlare troppo, stupida! Vuoi forse immettere nei tuoi polmoni una dose
letale
di veleno?”
Claire
non poteva
negare di essere notevolmente nervosa. Osservò la nebbia
densa e giallastra
cominciare a propagarsi nella stanza, costringendola a tossire. Gli
occhi
presero a bruciare nell’immediato, ragion per cui doveva
muoversi il più in
fretta possibile.
“Avvicinati
alla
terza serratura.
Ascolta…coff…coff…dalla tua parte
v’è la metà mancante della
chiave. Dovresti avere la parte del manico. La chiave dentro
è spezzata. Io
adesso infilerò la punta. Non dobbiamo perderla quindi gira
la chiave
esattamente quando mi muoverò io. Dovremo ripetere questo
gesto per tutte le
restanti chiavi, muovendoci nell’esatto ordine e con la
precisione che ti
chiederò man mano.”
La
ragazza stette
in silenzio, facendo caso solo in quel momento che più
d’una serratura pareva
avere la chiave incastrata.
“Gira
ora!”
Claire
obbedì.
L’uomo la fece poi spostare direttamente verso la quinta
serratura, che
dovettero di nuovo muovere all’unisono, così come
le altre successive. Intanto
il gas veniva sempre più a galla, annebbiandole la vista e
impedendole di avere
la lucidità che avrebbe voluto.
Dal
suo canto sentì
dei colpi d’arma da fuoco. L’Ashford stava
combattendo le b.o.w. da solo e al
col tempo doveva rimanere concentrato sulla soluzione di
quell’enigma.
Possibile
che tutto
ciò che potesse fare era girare delle chiavi?!
Tutto
d’un tratto,
quando finalmente arrivarono all’ultima serratura,
partì un suono di slancio
che pietrificò la rossa.
Portò
tempestivamente lo sguardo verso dove ipoteticamente era il ragazzo e
urlò
spaventata.
“Cosa
è stato?!”
Alfred
osservò la
sua spalla trafitta. Una freccia di legno durissimo aveva passato da
parte a
parte la sua spalla, ferendolo poco sopra lo stesso foro di quel colpo
d’arma
da fuoco procuratosi quando aveva assunto le sembianze di Alexia.
Tremava.
Il sangue
prese velocemente a rigare il suo corpo, imbrattando di rosso le sue
vesti. Non
poteva quasi muoversi; ogni più piccola contrazione del
muscolo gli avrebbe
provocato una fitta lancinante. Ciononostante non riuscì
proprio a restare immobile
e dovette lentamente scivolare sul suolo. Questo mentre
l’odore di quel liquido
organico stava attraendo le b.o.w. sempre più prossime a
lui.
Tentò
di mirare ai
loro punti vitali con una pistola d’epoca che aveva portato
con sé, tuttavia il
braccio cascò a terra, incapace di sopportare quel dolore.
Digrignò
i denti,
questo mentre Claire incominciò a sbattere le mani contro la
porta.
Dal
suo canto, per
la ragazza quello era stato un evidente suono di una freccia scoccata
ad una
velocità mortale. Quel fruscio che taglia l’aria
prepotentemente e in modo
inesorabile era inequivocabile.
Era
evidente che la
freccia dell’arciere era stata scoccata, e se non era stata
colpita lei, allora
era stato colpito Alfred.
Perché?
Cosa
avevano sbagliato? L’Ashford aveva ricordato una combinazione
errata? Com’era
possibile?!
“Rispondi!
Cos’è
successo?!”
Ripeté
sperando che
quel prolungato silenzio non presagisse alcuna tragedia.
Portò intanto una mano
sulla bocca, non riuscendo a trattenere più di tanto il
respiro. La testa
doleva, si sentiva sempre più venir meno.
Si
guardò alle
spalle. Il suo arciere era invece ancora fermo, tuttavia imperterrita
puntava
contro di lei. Doveva uscire da quella stanza al più presto.
“Eh..eh…Redfield.”
ridacchiò Alfred, al che la rossa si girò. Lui
intanto tese una gamba e cercò
di adagiarsi nella posizione meno dolente possibile.
“Ti……..ricordo che questa
trappola è stata….. creata appositamente
per…..per uccidere. Non è tecnicamente
possibile che vi si sopravviva. Non v’è un modo
per salvarsi.”
Claire
alzò il viso
sforzandosi di tenere ancora gli occhi aperti. Le parole del biondo la
fecero
rabbrividire.
“Cosa
intendi?”
chiese, ormai certa che qualcosa dovesse essere andato storto.
“Intendo…ugh…che
sapevo che la freccia avrebbe scoccato. Ho solo fatto in modo che a
colpire
fosse il mio arciere. Tu…non avresti mai saputo muoverti in
modo da non
rimanere uccisa. Tsk.”
“Cosa
stai dicendo?
Sei stato ferito? Apri questa cazzo di porta, Ashford!
Maledizione…!”
La
ragazza riprese
a tossire, sentendo i polmoni bruciare. Ciononostante
continuò a battere sulla
porta, disperata.
“Ora
ritira lo
stiletto. Infine utilizza la chiave che…che dovresti aver
reperito da quel
cuore spezzato. L’hai trovata, no? Dentro il suo petto,
squarciando la sua
pelle raggrinzita.”
La
Redfield cercò automaticamente
nelle tasche e la trovò. In seguito recuperò lo
stiletto e finalmente un bocca
d’aria aspirò tutto il veleno, facendo tornare
l’aria respirabile finalmente.
Utilizzò
prontamente la chiave per aprire la serratura finale
dopodiché spalancò la
porta in metallo.
Dovette
darvi
diversi colpi per far cedere quello strato di sporco che la teneva
bloccata Dio
solo sa da quanti anni, ma oramai ci aveva fatto l’abitudine.
Dopo
quattro o
cinque colpi ben assestati si aprì uno spiraglio dal quale
scivolò attraverso
velocemente, portando prontamente il fucile all’altezza del
viso.
“Stai
attenta, qui
è pieno di mostri, mia cara…”
Con
la coda dell’occhio
individuò Alfred accasciato a terra, sanguinante; tuttavia
dovette mantenere
l’obbiettivo perché le assetate b.o.w.
strisciavano e si appropinquavano
violente verso di loro.
Un
paio erano già
crollate a terra, esamine; erano quelle che aveva colpito Alfred; le
altre
bramavano ancora le loro vite, attirate avidamente dal sangue fresco
che colava
sempre più copioso dall’ex-comandante di Rockfort.
Claire
si mise
davanti a lui, abbattendo una dopo l’altra quegli essere
insaziabili. Scaricò
l’intero caricatore ancora a sua disposizione, dovendo
completare l’opera con i
pochi colpi rimasti ancora nella sua 9mm.
Quando
l’ultimo di
questi cascò a terra, la ragazza si piegò verso
l’Ashford, pronta a intervenire
sulle sue ferite.
“Ehi,
resisti.
Devo, devo toglierti questa freccia. Cerca di non muoverti.”
Mentre
fece per
toccarlo, Alfred le bloccò prontamente il polso. La rossa si
ritrovò così a
specchiarsi nei suoi occhi pallidi, stavolta estremamente sofferti
eppure
ancora penetranti.
“Non…puoi.
Se ti
muovi ancora, non usciremo vivi di qui. Io non
ho……alcuna intenzione di morire,
Redfield. Perciò ora alzati e…..usa di nuovo
quella dannata chiave e andiamo
via di qui.”
“Okay.
Lascia però
che ti aiuti.”
Disse
offrendosi
come appoggiò per lui, cosa che rifiutò
categoricamente. Alfred si mise
arrogantemente in piedi da solo e una fitta lo trafisse da parte a
parte
facendolo piegare dal dolore.
A
quel punto Claire
mise prepotentemente un braccio attorno a lui e lo portò via
con sé. Lo vide
estremamente pallido e sudato. Egli cercava ancora di mantenere un
aspetto
altolocato, ma la sua bruttissima cera stavolta lo tradiva enormemente.
Lì
per lì ebbe il
timore che non ce l’avrebbe fatta.
Prese
nuovamente
fra le mani la chiave e la usò per scappare da quella
stanza. Non sapeva per
quanto ancora potesse portare Alfred in quelle condizioni. Fece un
esame veloce
del nuovo ambiente, si trattava di un corridoio dall’aspetto
molto cadente.
Poteva avanzare liberamente, o qualche ostacolo albergava crudelmente
fra quelle
pareti? Sbirciò in direzione del biondo che faticava a
restare cosciente.
Claire
non indugiò
e avanzò comunque avanti, ma a quel punto
l’Ashford si scostò da lei e si pose
dinanzi in modo stentato. La ragazza si tenne pronta a sostenerlo al
primo
tentennamento, al contempo impegnata a seguire gli zombie
già pronti a tornare
all’attacco; evidentemente non li aveva atterriti del tutto
prima.
L’erede
Ashford
intanto azionò un meccanismo muovendo uno strano ingranaggio
sulla parete
simile a un orologio. Questo fece innalzare una porzione del muro che
liberò un
passaggio segreto.
Avanzarono
velocemente, dopodiché l’apertura si chiuse alle
loro spalle repentinamente. Il
biondo a quel punto traballò, trovando subito appoggio sul
muro; la Redfield
gli si approssimo, stavolta più decisa.
“Non
puoi
continuare in queste condizioni…”
“Lo
so.” pronunciò
irritato da quella costatazione evidente. Poi aggiunse.
“Siamo arrivati…poco
più avanti…dobbiamo avanzare.”
Egli
fece per
muoversi, ma era totalmente impossibilitato.
La
rossa si morse
le labbra non sapendo come aiutarlo. Sapeva che ogni passo lo avrebbe
trafitto
di dolore, in più non sapeva nemmeno come toccarlo e
offrirgli un appoggio
adeguato. Dovevano però avanzare e dovevano farlo in fretta.
Osservò il tunnel
dinanzi a loro, pregando che fosse molto meno profondo di quanto
sembrasse.
[…]
Centro
di Ricerche artiche dell’Umbrella Co. – Sotterranei
Stanza
nascosta
Una
volta
lasciatosi alle spalle quella trappola mortale, Claire e Alfred si
ritrovarono
in una stanza ove potettero mettersi al riparo. Sembravano essere
giunti in una
qualche zona del laboratorio abbandonato lontana dal territorio
calcareo
dov’erano prima.
L’ambiente
era
spazioso, sgombro, non era impregnato dall’umidità
e la muffa presente nel resto
di quei sotterranei.
Si
trattava di una
stanza semplice, solo molto impolverata, il che andava più
che bene
rappresentando le circostanze.
Purtroppo
dovettero
sistemarsi a terra, non v’era nulla che potesse fungere da
materasso, o coperta
o che potesse offrire un po’ di sollievo e calore al giovane
erede della
famiglia Ashford, in quel momento in balia degli spasmi di dolore.
Claire
scivolò sul
pavimento con lui, muovendosi con estrema delicatezza, cercando di non
urtare
in nessun modo le sue ferite.
Il
biondo intanto
rimase in silenzio ad osservarla: la sua pelle bianca era sporca e
graffiata, i
suoi occhi erano stanchi, i suoi vestiti laceri e impolverati, i suoi
capelli
scomposti e arruffati.
Anche
lei doveva
essersela vista brutta, lo sapeva.
Non
gli era mai
successo, ma era la prima volta che si sentiva in colpa.
Egli
avvicinò la
mano tremante al suo viso; lui che era l’artista che aveva
visto in lei la sua
magnificenza e una volta l’aveva trasformata nella sua somma
Regina, bramava il
folle desiderio di sistemarla.
Sentendosi
sfiorare, Claire alzò lo sguardo verso di lui; sembrava in
uno stato quasi
incosciente. Stava perdendo i sensi.
Scostò
la mano dal
suo viso e gliela adagiò a terra.
L’Ashford
le mostrò
il profilo e così una ciocca di capelli ormai appesantita
gli cadde sul viso.
Claire,
prima di
farlo appoggiare con la schiena sul muro, sapeva di dover togliergli
quella
freccia. Non c’erano altrimenti, non poteva restare
così ancora per molto.
“Devo
toglierla,
stringi i denti solo qualche attimo. Farò veloce.”
Detto
questo,
spezzò la stecca cercando di scheggiarla il meno possibile,
dopodiché la sfilò
con veemenza, cercando di far durare quell’attimo di estremo
dolore il meno
possibile.
Alfred
gemette
rumorosamente, contenendo il dolore piuttosto dignitosamente, ma la
ragazza
sapeva bene quanto dovesse aver sofferto.
Tuttavia
ora poteva
fargli assumere una posizione più corretta, lasciando che si
adagiasse sul muro
in modo naturale.
Doveva
ora occuparsi
della ferita, però.
Non
seppe capire se
Alfred la lasciò fare o se i suoi nervi avessero ceduto. Ad
ogni modo lui non
proferì parola né tentò di ribellarsi.
Claire
gli aprì la
giacca, sfilò la cravatta e disfece la sua camicia
completamente imbrattata,
lasciando dunque scoperto l’intero torace.
All’altezza della spalla aveva un
aspetto orribile; livido e sanguigno. Era una ferita veramente brutta,
doveva
pulirlo e bendarlo al più presto.
“Scusa…”
Disse
prima di
mettere fra le labbra un lembo della camicia e strappandolo,
utilizzandolo così
come fasciatura. Purtroppo lei non aveva nulla da utilizzare al suo
posto.
Alfred
aprì gli
occhi e la osservò silente mentre si prendeva cura di lui.
Probabilmente non
pensava a nulla; lasciò soltanto che lei alleviasse quel
dolore insostenibile
che affannava non solo il suo corpo, ma anche il suo spirito.
Passarono
minuti,
forse ore.
Alfred
Ashford aprì
gli occhi; si sentiva dissociato, inerme, la sua mente
faticò a prendere
coscienza. Notò che la spalla gli doleva molto di meno,
invece; se ne sorprese.
Scrutò
in giro e scorse
poco distante da sé Claire mentre lasciava sciolti i suoi
lunghi capelli
rossicci. Ella li stava pettinando con le mani, cercando di levar via i
nodi e
la forma della coda di cavallo che li aveva pieghettati sotto la nuca.
Era
davvero molto
affascinante con quella chioma ora allisciata che le contornava il
viso,
scivolando lungo il suo busto raggiungendo l’altezza del
petto. Lei si voltò
verso di lui, accorgendosi di essere osservata. Sorrise notando che
fosse
sveglio.
Lui
invece si sentì
a disagio. Non gli venne di proferir nulla, temeva quei momenti in cui
si
stabiliva una certa confidenza fra loro. Il suo corpo la guardava con
desiderio, ma la sua mente lo puniva e lo lacerava imponendogli di
allontanarla, di odiarla.
Eppure
lei gli si
avvicinò con spontaneità, come se quei pensieri
non la scalfissero, come se non
provasse assolutamente nulla di tutto ciò.
Questo
lo
incuriosiva e lo spaventava al tempo stesso. Perché lei era
così assurdamente
istintiva? Cosa la rendeva così aberrante?
La
giovane si mise
in ginocchio di fronte a lui, inconsapevole della tortura mentale che
gli stava
facendo mostrandosi così bella ai suoi occhi. Il biondo
rimase inerme,
completamente in silenzio. Era la sola reazione che poteva preservalo.
“Ti
sei svegliato.
Come ti senti?”
Era
solo una
sciocca domanda di cortesia, ne era consapevole, eppure la cosa lo
seccò molto.
Non aveva intenzione di instaurare una conversazione di nessun genere.
Piegò
dunque il
viso e allontanò lo sguardo, decidendo di essere chiaro con
lei, sebbene la sua
stessa mente fosse in verità abbastanza confusa.
“Lascia
perdere,
Redfield. Ti sono ovviamente grato per avermi curato la spalla, ma
questo non
significa nulla, benché meno che voglia aprirmi a te. Sai
bene che prima che
accadesse questo incidente, ero venuto a cercarti per porre fine alla
nostra
amara disputa. Non costringermi a dimenticare che dobbiamo proseguire
assieme
in questo labirinto per sopravvivere. Evitiamo tali parvenze e bada
anche tu agli
affari tuoi.”
La
ragazza
corrucciò il viso, non aspettandosi nell’immediato
una freddezza simile. Era
consapevole della difficoltà di Alfred
nell’ammettere di aver bisogno di aiuto.
Fino a quel momento un po’ l’aveva provocato
rispondendogli a tono, un po’
l’aveva evitato cercando di superare mentalmente quegli
atteggiamenti. Stavolta
voleva parlargli e basta, sfruttare quell’occasione per
trattarlo finalmente
con naturalità, alla luce della sua recente comprensione dei
suoi sentimenti.
Non voleva fare calcoli, se Alfred avesse rifiutato l’avrebbe
accettato e si
sarebbe fatta immediatamente da parte.
“Alfred…”
prese
parola timidamente.
“Non
accetto che mi
chiamo per nome, Redfield.”
Claire
si morse le
labbra.
“Ashford.”
Si
corresse. “Non voglio entrare nella tua vita privata,
né crearti disturbi di
alcun genere. Non è mai stata mia intenzione, fin
dall’inizio. Volevo solo
trovare mio fratello, Chris, e uscire dalla prigione di Rockfort. Non
ho mai
avuto nulla a che fare con tutto quello che è successo dopo.
L’attacco alla tua
base, gli zombie…sono cose che hanno terrificato anche me.
Ho solo cercato di
sopravvivere. Non sono un tuo nemico.”
Stranamente
il
biondo era ancora in silenzio, si chiese quindi se la stesse lasciando
parlare
per attaccarla al primo sgarro, oppure magari era sinceramente
concentrato.
Temeva quale sarebbe stata la risposta.
“Io…io
non sono
come te. Sono una persona molto più semplice e certamente
non ho mai vissuto
pressioni e traumi come i tuoi. Lo capisco e mi faccio da parte, so che
non
potrò mai capire. Però non penso che tu possa
continuare ad affrontare questa
cosa da solo. Hai accollato su di te una grande
responsabilità, ti sei fatto carico
di un compito importante che hai gestito al tuo meglio, con tutte le
tue forze.
Sono certa che Alexia e la tua famiglia sarebbero fieri di te, senza
dubbio. Ciò
nonostante, non puoi pensare di portare avanti tutto questo da solo.
Per quanto
tu possa essere forte, non credo non ti sei reso conto che hai bisogno
di fare
qualcosa per te stesso. Qualcosa che sia giusto per
te…Ashford.”
Alfred
teneva gli
occhi fissi su di lei, mettendola in grande soggezione. Claire non
sapeva se stesse
parlando troppo, se fosse riuscita a trovare le parole giuste o se da
un
momento all’altro lui si sarebbe fatto prendere da uno scatto
d’ira e avrebbe
inveito contro di lei. Ragion per cui si sentì di mettersi
in dubbio e scosse
la testa, cercando di essere invasiva il meno possibile.
“O-ovviamente
non
devi parlarne con me. Io non so niente di te, lo ammetto. Non ti sto
dicendo
tutto questo per…per spingerti a fare qualcosa di
particolare. Credo solo che
tu non possa vivere da solo e…” si
fermò e si specchio nelle sue iridi enigmatiche.
“e…..io volevo dirtelo. Nessuno te lo ha mai
detto. Nessuno lo ha mai fatto.”
L’uomo
la osservò
mentre stringeva le dita sulle ginocchia, dando segno di tensione,
inquietudine.
Per
lui era
complicato ascoltare parole simili, non era abituato a parlare di se
stesso.
Era suo dovere soltanto proteggere la sua famiglia e il suo onore. Ad
ogni
costo.
Discostò
lo
sguardo, ferendo così i sentimenti di Claire con
quell’atteggiamento di
chiusura. La rossa vide sfumare davanti a sé tutta la
sincerità che aveva
cercato di trasmettergli.
Egli
non si era né
arrabbiato, né aveva parlato o fatto qualsiasi. Aveva fatto
di peggio.
Aveva
deciso di
ignorarla del tutto.
Lei
aveva già
parlato troppo, non poteva allungare ulteriormente il discorso
rischiando di
diventare odiosamente polemica; dovette ingoiare le milioni di parole
non dette
che avrebbe ancora voluto dirgli.
Si
sentì solo di
aggiungere un’ultima cosa prima di azzittirsi anche lei.
“Volevo
che tu ti
salvassi assieme a me quando sono caduta nel tranello. Non ho smesso un
attimo
di pensare a te.”
Disse
con un filo
di voce, trafiggendo l’altolocato uomo dai capelli pallidi
posto dinanzi a lei;
in seguito la ragazza fece scivolare le gambe di lato e si sedette. Non
fece
nient’altro.
Alfred
invece alzò
il viso, serio.
“Saresti
tu la
donna che proverebbe ad affrontare le chimere che osteggiano il mio
spirito?
Oh, Redfield, conosci di me qualcosa che non amo ammettere. Hai visto
cose che
non credo ne sopporterei anche solo il ricordo. Mi hai fatto rivelare
realtà
inammissibili per chi conduce un’esistenza come la mia. Quel
che mi chiedi non
è più possibile nella mia posizione.”
Claire
sgranò gli
occhi. Era un suo…raro momento di lucidità?
Poteva…parlargli davvero? Era
disposto a conversare con lei?
Eppure
la sua
speranza di aiutarlo ad aprirsi fu più forte e
così istintivamente posò la sua
mano calda sulla sua, per fargli coraggio.
“Va
bene.” ripeté
rassicurante. “Va bene, Alfred. Nessuno ti
obbligherà a fare o dire cose che tu
non approvi. Voglio solo parlare con te, voglio…voglio che
tu comprendi che non
sono meschina come credi. Non voglio farti del male.”
“Farmi
del male…”
sussurrò. “Non essere sciocca, so che non puoi
farmi del male. Semmai quello cattivo
sono io, lo sai.” disse con un
velato sarcasmo.
“Invece
l’ho fatto.
Il male che una come me può infierirti è quello
di ricordarti cose dolorose; cosa
che non ho fatto di mia volontà.”
Alfred
si sorprese
di quella risposta e si sentì a disagio. Egli internamente
sapeva che era
sempre stato lui a dare battaglia a Claire. L’aveva
detestata, aveva maledetto
il giorno in cui l’aveva incontrata. Ed era anche vero che la
sua bellezza e la
sua armoniosità
l’aveva…l’aveva irrimediabilmente
indotto in tentazione,
facendogli sentire sulla sua pelle e nel suo animo quel calore che in
tutta una
vita gli era stato privato, riducendolo a un uomo solitario e
arrabbiato. Lei aveva
toccato un tassello che aveva oramai ucciso il suo cuore.
Tuttavia,
come
aveva detto anche lei, se doveva chiedersi come Alfred Ashford cosa
desiderava…non desiderava che questo.
Non
desiderava che
essere amato.
Soltanto
che lui…
…aveva
forse… “paura”…?
Il
suo cuore
sussultò.
Sgranò
gli occhi.
Le sue mani erano ghiacciate.
Osservò
invece la
mano di Claire che era calda, dolce, forte, e premeva sulla sua.
Lei
era lì, era
viva, era vera. Era tutto…reale. Troppo pesantemente reale
per quell’uomo che da
sempre viveva dietro il sipario di un teatro di macabra fantasia.
Arricciò
le dita e
a quel gesto la Redfield comprese che doveva tirar via la sua mano. Non
voleva
disturbarlo.
“Sei
una persona
poco comune, Redfield. Dovresti essere qui per uccidermi, invece sei in
ginocchio di fronte a me, attualmente stanco e ferito.
Perché?”
“Perché
adesso so
cose che non ti rendono più un mio nemico. Adesso lo
so.”
“C’è
già Alexia per
me. E’ solo lei che può guarire le mie
ferite.”
Claire
temeva il
momento in cui egli avrebbe messo in mezzo la Regina.
Deglutì, decisa a fare
breccia dentro di lui.
“Hai
amato Alexia,
sei stato più di un fratello. Hai dimostrato con tutta la
tua vita quanto lei
fosse importante. Ma credo che anche lei concorderebbe con me, se dico
che non
avrebbe mai voluto che tu distruggessi la tua vita. Se anche lei ti
amava, non
lo avrebbe mai voluto. Lei desidera la tua felicità, come tu
desideri la sua.”
“Alexia
vuole che
io sia felice?”
La
Redfield
sorrise.
“Sì.”
Il
biondo fece
spallucce. Era davvero molto pallido. La ragazza osservò il
suo viso stanco e
la carnagione così bianca. Temeva che fosse allo stremo
delle sue forze,
necessitava di cure mediche più appropriate.
“Alexia…
non può
farcela da sola. Ci sono stato sempre io per lei. Anche se non potevo
aiutarla.
La più grande cosa che avrei potuto fare era un puntino di
fronte la
sua…intelligenza. Però lei aveva bisogno di
qualcuno che le rimanesse accanto,
ed io le ho promesso che l’avrei attesa e l’avrei
protetta fino a quel momento.”
“Che
tu la amassi
non significa che tu non possa…amare qualcun altro, oltre
lei.”
“Cosa
intendi?”
“Lei
è…era tua
sorella, giusto? Oppure…” si fermò.
“…la ‘amavi’?”
Alfred
comprese che
tipo di domanda gli stesse facendo.
“Vuoi
sapere se
provavo un sentimento incestuoso per lei?”
La
rossa si
pietrificò, spaventata dall’idea che si fosse
giocata l’intera conversazione in
quel momento.
“N-non
ho
intenzione di giudicare i tuoi sentimenti. Non fraintendermi. A me va
bene, sul
serio. Non sentirti soppesato.”
“Redfield,
non mi scomporrei
di fronte al giudizio di chicchessia, né tanto meno me ne
importerebbe. Siete
voi stolte persone comuni a credere che l’amore carnale sia
l’unica forma di
amore per l’essere umano. Ma non lo biasimo. Io stesso ho
sperimentato i
piaceri dell’atto d’amore più
comunemente concepito dal resto del mondo.
Sensazioni di calore viscerali e istintive, meravigliosamente
inebrianti. Nulla
può esservi paragonato in tutta l’esperienza
sensoriale umana.” disse con una
strana coscienza di causa che Claire non immaginava. “Quello
che v’era fra me e
Alexia era tutt’altro.”
Detto
questo inarcò
il busto verso Claire e portò le mani sul suo viso. La
ragazza riconobbe quel
gesto; il gesto di fidata unione che spesso lui cercava di stabilire.
Il beato
calore umano della pelle di un altro essere umano che soffia sulla
propria.
L’unione mistica che Alfred aveva disperatamente cercato in
tutta la sua vita e
che l’aveva portato alla pazzia.
Intanto
lui
continuò a rispondere alla sua domanda.
“Io
e Alexia
eravamo questo. Eravamo un tutt’uno. Lei era parte di me, e
io di lei. Due
perfette metà, ove in mancanza della quale la nostra
esistenza rimane sospesa,
orribilmente deturpata. Il meschino fato ci ha separati, promettendoci
un
destino più grande in cambio di quel sacrificio. Il prezzo
da pagare è stato
alto, lo è stato davvero molto. Entrambi abbiamo corrisposto
il nostro pegno;
non potevamo permettere che quello fosse il nostro solo destino.
Tuttavia il
premio alla fine sarà inestimabile, credimi.”
Claire
non si
divincolò da quella presa, al contrario fu lei ad
avvicinarsi a lui,
consapevole che lui non fosse abituato a essere cercato, a essere lui
stesso il
principale soggetto. Voleva che quell’uomo tornasse padrone
della sua vita. Dei
suoi più intimi e veri desideri.
“Tu
lo sai che non
è così.”
L’Ashford
si sentì
confuso da quella risposta. Per una volta, furono i meravigliosi occhi
blu di
Claire ad essere indecifrabili, ricchi di fascino e di mistero. Ebbe un
sussulto.
Cosa
riusciva a
provocare in lui quella donna? Chi diavolo era?
“Tu
lo sai…che
avresti solo voluto qualcuno al tuo fianco. Avresti solo voluto un
sorriso, un
sincero abbraccio. Saresti stato felice anche solo di questo.”
Alfred
socchiuse
gli occhi, riflettendo.
Era
vero.
Era
tristemente
vero.
Lui…
“Sei
stato lasciato
solo troppo a lungo e non è giusto. Nessuno ha cercato di
capirti. Nessuno si è
accordo di quante altre cose fossi, oltre Il Fratello Gemello di
Alexia. Sei
stato un bambino dotato, intelligente, poi un adulto che ha studiato e
ha
ottenuto eccellenti lodi e riconoscimenti. Sei stato anche un soldato.
Hai
amministrato la tua casa e lo hai fatto da solo proteggendo cosa ti era
di più
caro. Però ti è stata tolta la vita; vivere ed
essere felice…non significa non
amare tua sorella.”
L’uomo
discostò gli
occhi, lei però richiamò la sua attenzione
avvicinandosi ulteriormente.
Il
biondo si sentì
fortemente turbato.
“Lascia
che ti
aiuti.”
Infine
posò le sue
labbra su quelle di Alfred Ashford. Lo fece in un momento di profonda
comprensione spirituale del suo bisogno di amore, di
calore…lui aveva la
necessità di comprendere la sua umanità.
Lui
era un uomo, un
uomo come tutti. Con i suoi desideri, i suoi sogni, le sue idee, le sue
ansie,
i suoi tormenti, i suoi problemi.
Doveva
cominciare
finalmente a vedere tutto questo.
Non
poteva immolare
la sua intera vita a un fantasma che non gli avrebbe mai dato
ciò che cercava.
L’avrebbe
sempre
deluso alla fine.
Si
sarebbe sempre
accorto di essere un uomo con il vestito e la parrucca di una donna che
non
esisteva.
Il
riflesso di uno
specchio non avrebbe mai mostrato due volti complici, ma un singolo
uomo che
pur di cercare quella felicità, aveva gettato in pasto alla
demenza il suo
intelletto.
Ciò
si era tradotto
in violenza, in crudeltà raccapriccianti con cui avrebbe
fatto i conti prima o
poi.
Però
non era quello
il momento.
Adesso
doveva solo
riconoscere i suoi bisogni, i suoi tormenti…e
infine…lasciare Rockfort Island.
Lasciare i laboratori in Antartide. Lasciare tutto.
Claire
lo baciò a
lungo, dandogli il tempo di rassicurarsi e abbandonarsi. Per lui fu
difficile
ammettere quella realtà, non gli era forse più
possibile ricordarsi come era
essere un semplice uomo. Forse non lo era mai stato.
Aveva
soltanto
dodici anni quando era iniziato tutto, quando Alexia era caduta nel suo
solenne
sonno.
Era
solo un
bambino…
…e
da allora era
iniziato il suo tormento.
…il
suo crudele
tormento.
Ed
in verità, anche
prima di allora la sua vita era stata brutalmente pretenziosa. Fin
dalla sua
nascita Alfred Ashford non era stato che una pedina che si era mossa
ovunque
nella sua scacchiera.
Era
stato pedone,
cavallo, alfiere, torre, regina, aveva interpretato ogni
pezzo…pur di mantenere
in piedi il Re. Aveva sconfitto e divorato ogni ostacolo, ogni
affronto,
persino se stesso.
Tuttavia
lui chi
era? Chi c’era davvero dietro quell’uomo che aveva
portato avanti da solo
quella lunga battaglia?
Aveva
oramai
dimenticato…chi era.
Strinse
dunque la
traviatrice Altra Donna che lo aveva dannato. Lo aveva dannato da
quando aveva
fatto rinascere quell’Alfred addormentato, tenuto segregato
nel suo cuore.
Quell’Alfred che sembrava incapace di essere
qualcos’altro oltre il Re che
avrebbe protetto la sua Regina.
Lei
aveva messo a
nudo le reali angosce che avevano spento la sua anima, legato a un
compito che
nel giro di poco aveva tradotto i suoi malanni in violenza e rovina.
Poteva
fidarsi di
Claire? Poteva abbandonarsi a quella donna, sfidando di nuovo la paura
di
essere abbandonato?
Alfred
non avrebbe
potuto sopportare un’ulteriore ferita come quella, era
lacerante la solitudine
che fino a quel momento lo aveva sia preservato, sia fatto impazzire.
Non
sapeva se
quell’abbandono avrebbe successivamente portato altro dolore
dentro di lui.
Se
lei credeva di
poter accollarsi quella responsabilità…la
responsabilità di curare il suo
cuore, di ricomporne i pezzi, di darvi calore e
umanità…allora lei doveva
essere folle.
Folle
almeno quanto
lui.
Accettò
dunque
quelle labbra dolci e delicate che avevano toccato le sue, quelle del
folle comandante
di Rockfort Island. Quelle che rappresentavano lui come uomo.
Fu
come tornare a
quella passione accecante che lo traviò quando aveva deciso
di nascondersi
dietro le sembianze della sua amata sorella. Quella maschera perfetta
che leniva
le sue pene, ma che era caduta di fronte l’autentico calore
umano, concreto e
tangibile.
La
maschera-Alexia
era caduta quando aveva avuto Claire al suo fianco.
Ed
adesso era di
nuovo a quel punto, a provare quegli stessi sentimenti. Tuttavia li
stava provando
come Alfred; fieramente come Alfred Ashford.
Penetrò
dunque
nella sua bocca, affondando le dita fra i suoi capelli.
Temeva
che fosse un
inganno.
Temeva
che tutto
potesse finire.
Temeva
il crudele
destino che da sempre gli era avverso e aveva fatto di tutto per
renderlo solo
e infelice.
Ma
quello stesso
fato ingiusto gli aveva donato una sorella gemella per compensare quel
dolore…e
adesso anche Claire.
Restava
però un
ultimo passo da fare.
“Claire...”
sussurrò nel mentre di quel contatto. La ragazza schiuse le
labbra, prendendo
respiro. Lui le sorrise. “Voglio farti conoscere la mia
Regina.”
“Alexia?”
disse
confusa, ancora persa nei suoi sentimenti. “Ma lei
è…”
“No.
Lei esiste. E’
qui in Antartide. Vieni con me.”
Rivelò
e la prese
per mano.
[…]
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