L’ombra
del Beauceant
Nel 1877, lo storico tedesco
Mertzdorff dichiarò di aver rinvenuto ad Amburgo, all’interno di
una loggia massonica, una copia del famigerato Codice Ombra dei
Templari.
Nonostante ne sia stato
redatto un documento riassuntivo, non vi è più traccia del libro
originale, che si suppone si trovi attualmente presso gli archivi del
Vaticano.
§
Spagna, dintorni di Murcia
Il fuoco ruggiva ovunque. L'aria
torrida, resa opaca dal fumo, risuonava delle urla terrorizzate dei
contadini, dei lamenti delle bestie tratte a forza dalle loro stalle
e delle grida di guerra dei saraceni. Dalla stia dei porci incendiata
provenivano le strida e i tonfi della scrofa impazzita di paura.
Nascosto sotto un carro,
Francisco ansava con il cuore che gli scoppiava nel petto. Tossì
investito da una folata di fumo acre e si asciugò gli occhi che gli
lacrimavano, ma si impose di non muoversi. Nel cortile, i mori
stavano radunando tutto ciò che poteva avere un valore: provviste,
animali e abitanti della fattoria, soprattutto donne e ragazzi, il
cui orribile destino, lo sapeva bene, sarebbe stato quello di finire
schiavi.
Li vide spingere avanti Nuria,
fin da quella distanza la sentiva piangere e invocare la Vergine. La
ragazza si buttò a terra, e uno dei saraceni la prese per i capelli
per costringerla ad alzarsi. A quel punto sbucò dal fienile il padre
di lei, armato di un forcone, e si lanciò in una carica disperata
contro il guerriero moro. Questi non fece altro che spostarsi da una
parte, e con un gesto quasi svogliato gli tirò un fendente. L'uomo
crollò nella polvere e vi rimase immobile, lo strillo disperato di
Nuria lacerò l'aria.
“Santa Madre di Dio,” mormorò
Francisco facendosi il segno della croce.
Mentre seguiva sgomento lo
svolgersi degli eventi, sentì una mano pesante piombargli sulla
spalla. Istintivamente cercò di farsi indietro, ma la presa si
rinsaldò impedendogli la fuga. Il ragazzo si voltò e si trovò a
fissare quelle che gli parvero le fattezze di un demonio: un volto
scuro e scavato, con un'appuntita barba nera e occhi di bragia che lo
fissavano come se avessero voluto trapassarlo.
“Madre di Dio...” ripeté
terrorizzato. Il saraceno lo trascinò fuori dal suo nascondiglio,
quindi staccò dalla cintura una corda arrotolata e fece per
legargliela al collo.
In quel momento, Francisco vide
sopraggiungere qualcosa di grande e bianco, colse un baluginio di
rosso, e il guerriero moro crollò a terra con un lamento.
Ancora tremante, frastornato, il
ragazzo si fece indietro fino ad appoggiarsi con la schiena al tronco
di un albero. Vide passare un'altra sagoma bianca: pur nella caligine
degli incendi, riconobbe il manto candido e la croce color sangue dei
cavalieri del Tempio. “Dio, ti ringrazio,” mormorò.
Arrivò un terzo cavaliere,
Francisco lo vide abbassare la lancia e caricare un saraceno,
sbalzandolo di sella. Il cavaliere abbandonò poi il ferro nel petto
del nemico, estrasse la spada e si diresse verso un altro avversario.
In breve si scatenò nel cortile
una mischia furiosa, nella quale si udivano nitriti, urla e clangore
di spade. Nel polverone, Francisco cercava di seguire lo scontro come
meglio poteva. Per quanto da lontano i cavalieri cristiani
sembrassero tutti uguali, ne notò uno, in groppa a un grande cavallo
nero, che combatteva come l’Arcangelo Michele. Rimase a seguirlo
con lo sguardo: il cavaliere si lanciò in avanti, disarcionò un
saraceno con un fendente, quindi ne incalzò un altro con una punta,
passandolo da parte a parte. Successivamente fece girare il cavallo
per fronteggiare un attacco sul fianco, e di nuovo il suo avversario
finì a terra.
Il ragazzo rimase a fissarlo
affascinato, constatando che nel combattimento faceva il vuoto
intorno a sé.
Fece un lungo sospiro passandosi
la mano sul volto madido, poi cercò di deglutire, ma aveva la bocca
più arida che se avesse mangiato sabbia, e l'atto non gli diede il
sollievo sperato. Volse lo sguardo verso il saraceno con la lancia
nel petto: l'uomo era immobile.
Si avvicinò cauto, si piegò a
osservarlo: un volto legnoso, scuro anche nel pallore della morte,
rigato di sangue. Gli occhi erano spalancati, e sembrava che lo
fissassero con odio, come se il saraceno si rammaricasse di non
poterlo più uccidere.
Francisco si fece il segno della
croce e arretrò di nuovo. Guardò verso il cortile, dove la
battaglia ormai era finita. Uno dei Templari era smontato di sella e
la gente gli si stringeva intorno. Una donna con i capelli grigi, da
quella distanza gli pareva che si trattasse della vecchia Rufina, si
inginocchiò e cercò di baciargli la mano, ma il cavaliere scosse la
testa e la fece alzare.
Gli occhi fissi sui saraceni che
scappavano, fratello Roland spronò il suo robusto morello e abbassò
la lancia in posizione di attacco. La punta dell’arma baluginò
sinistra sotto il sole.
I due infedeli, che procedevano
qualche centinaio di passi davanti a lui, si voltarono a guardarlo da
sopra la spalla, quindi si scambiarono una voce e girarono i cavalli,
mettendosi a loro volta in posizione d’attacco.
Il Templare rinsaldò la presa
sull’arma e spronò di nuovo il destriero, che emise un nitrito e
si lanciò in avanti.
Fratello Roland tese i muscoli
preparandosi all’impatto, quindi incassò la testa fra le spalle e
mirò al torace del più avanzato dei due saraceni.
L’arma colpì, l’uomo fu
sbalzato di sella. Il Templare si lasciò sfilare l’asta di mano, e
mentre passava oltre estrasse la spada. Parò con quella un fendente
alto dell’altro saraceno, fece girare il destriero e gli sferrò un
tondo dritto. Il colpo raggiunse il bersaglio e l’infedele si
accasciò sulla groppa del cavallo.
Il Templare rimase a fissarlo in
silenzio per qualche istante, quindi mormorò a fior di labbra una
preghiera, rinfoderò la spada, raccolse la lancia e tornò sui suoi
passi.
Il tetto della fattoria nel
frattempo era crollato, e per quanto i contadini si affannassero a
fare una catena di secchi d’acqua, le fiamme ormai ruggivano senza
controllo, divorando qualsiasi cosa. Le donne stavano radunando nel
cortile le poche masserizie che erano riuscite a salvare.
Fratello Roland raggiunse i suoi
compagni. Uno di quelli che erano smontati di sella sollevò lo
sguardo verso di lui e chiese: “Tutto bene?”
“A Dio piacendo,” fu la
sobria risposta, quindi il cavaliere smontò a sua volta e si tolse
l’elmo, rivelando un volto giovane, anche se già segnato su una
guancia dal filo bianco di una cicatrice.
“Li hai presi?”
“Tutti e due.”
L’altro lo occhieggiò attento.
“Sei ferito?”
“No, fratello Ignacio, sto
bene.”
Le redini dei cavalli alla mano,
i due si allontanarono di qualche passo dal cortile. Subito si fece
loro incontro un ragazzo con una brocca d’acqua e una tazza di
terracotta. “Volete bere, signori cavalieri?” domandò loro.
I due Templari si scambiarono
un’occhiata, poi fratello Roland rispose: “Non siamo signori,
siamo umili servi di Dio. Puoi chiamarci fratelli, se vuoi rivolgerti
a noi.”
Il ragazzo annuì volenteroso.
“Fratelli,” ripeté, come per imprimerselo nella memoria.
“Ti ringraziamo per la tua
gentile offerta, ma va' dal nostro comandante con quell’acqua, e
mostraci dove possiamo far bere i cavalli.”
“E voi signori… fratelli non
volete bere?”
“Prima i cavalli, che devono
sopportare le maggiori fatiche.”
“E il comandante della
pattuglia,” intervenne fratello Ignacio. Indicò un Templare alto,
imponente, con il cranio rasato quasi a zero e una corta barba venata
di grigio. “Fratello Léon.”
“Sì, signore,” rispose
subito il ragazzo, poi si accorse dell’errore e rettificò:
“Fratello… volevo dire fratello.”
I due si scambiarono un’occhiata.
“Fa niente,” gli rispose con un sorriso fratello Roland. “Come
ti chiami?”
“Francisco.”
“Allora va da fratello Léon,
Francisco. Sicuramente sarà assetato.”
“Sì, signor fratello.”
Il Templare sorrise di nuovo.
“Dimmi solo dov'è l'abbeveratoio, poi provvederemo noi ai
cavalli.”
Il ragazzo lo indicò con un
gesto, poi corse via.
Il sole stava calando, l'aspro
vento della costa fischiava attraverso i cespugli di sparto. Fratello
Léon in testa, i cavalieri procedevano ordinatamente in fila per
due.
“Quanti erano oggi?” chiese a
un certo punto fratello Ignacio. La domanda non era rivolta a nessuno
in particolare, ma fu fratello Miguel a prendere la parola: “Un po'
più del solito, direi.”
“Beh, lo credo bene che gli
infedeli abbiano mandato più gente,” considerò fratello Ambrosio,
“la fattoria di Pozo Aledo era un bel boccone.”
“E noi gliel'abbiamo fatto
andare di traverso!” intervenne fratello Fermín. Ci fu qualche
contenuta risata.
Passò qualche istante di
silenzio, poi fratello Jorge disse: “E avete visto quando quella
vecchia ha cercato di baciare la mano a fratello Léon? Credevo che
gli venisse un colpo!”
Stavolta le risate furono più
forti.
“Ragazzi!” si sentì in
dovere di brontolare il comandante del drappello.
“Fratello Léon, bisogna
guardarsi dalla compagnia femminile!” lo prese in giro fratello
Ambrosio.
“Tu smettila subito, razza di
insolente,” ringhiò il primo, girandosi addirittura sulla sella
per fissarlo in cagnesco, “altrimenti ti mando a fare lo
scritturale di fratello Rafael.”
“A contare i sacchi di grano
che entrano ed escono dai magazzini? No no, non ci tengo!”
“Ti ricordo che hai fatto voto
di obbedienza,” intervenne fratello Miguel, “e il Tempio si serve
anche contando sacchi di granaglie.” Di nuovo tutti risero.
Quando l'ilarità si fu placata,
fratello Ignacio si rivolse a fratello Roland: “E tu non dici
nulla?”
L'altro sorrise. “Scusami, ero
assorto nei miei pensieri.”
“Quanti ne hai fatti fuori
oggi?”
Fratello Roland parve quasi
imbarazzato. “Non li ho contati.”
“Dovresti lasciarne qualcuno
anche per noi, fratello. Non ti hanno insegnato nulla le Scritture
sul valore della condivisione?”
“Ragazzi!” si fece sentire
ancora una volta fratello Léon.
Fratello Ignacio si finse
piccato. “Ehi, io stavo parlando delle Scritture. È un argomento
decoroso.”
“Conosco il tuo modo di
trattare gli argomenti decorosi, quindi fa' silenzio.”
Fratello Roland era ancora
immerso nei propri pensieri quando raggiunsero il castello di Murcia.
Entrò in silenzio nel cortile, smontò da cavallo e consegnò
l'animale al suo scudiero, ma quando si apprestò a seguire gli altri
verso il refettorio, apparve sulla soglia delle proprie stanze il
commendatario e lo chiamò.
Il cavaliere lo raggiunse.
L'altro lo condusse in una camera
che fungeva da studio, raccolse da un tavolo un foglio sul quale
c'erano ancora i residui di un sigillo di ceralacca, lo dispiegò e
lo scorse brevemente, poi disse: “Questa lettera è giunta oggi
dalla Francia.”
Fratello Roland si limitò ad
annuire, quindi gli rivolse uno sguardo interrogativo.
“È una lettera che parla di
te,” spiegò il commendatario. “Evidentemente, sono giunte
all'orecchio di qualche maresciallo le imprese da te compiute
all'ombra del Beauceant, perché si richiede specificamente la tua
presenza.”
“Dove, signore?”
“Alla commenda di Vaux.”
Fratello Roland quasi non
credette alle proprie orecchie, e dovette fare uno sforzo immane per
impedirsi di reagire. Incupì comunque lo sguardo e si morse il
labbro inferiore. L'altro notò il cambio di espressione e gli
chiese: “Vuoi dire qualcosa, fratello?”
“Ho dato cattiva prova di me,
signore?” fu la domanda.
“Perché mi chiedi questo,
fratello?”
“Vaux è in Lorena, signore,
lontano da ogni zona di combattimento. Qual è la colpa che devo
espiare?”
Il commendatario emise un
sospiro. “Colpe ne abbiamo tutti, fratello. Inoltre, ti ricordo che
tu hai fatto voto di obbedienza.”
Il cavaliere si limitò a
stringere i denti. “Non ho intenzione di trasgredire gli ordini,”
rispose dopo un po', “solo mi chiedevo perché mi si allontana
dalla lotta contro gli infedeli.”
“Non devi chiederti nulla,”
replicò il commendatario in tono più duro, “devi solo obbedire.”
Poi, dopo una pausa, citò: “Ogni persona stia sottoposta alle
autorità superiori; perché non v’è autorità se non da Dio; e le
autorità che esistono, sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste
all’autorità, si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si
oppongono si attireranno addosso una condanna [1].”
§
Lorena, dintorni di Metz
Gwenel de Jussy, figlio più
giovane del signore di Jussy, si affacciò alla finestra del palazzo
paterno e lasciò vagare lo sguardo sul sagrato della chiesa. Era
giorno di mercato, e dappertutto i venditori esibivano la loro merce.
C'erano donne con i prodotti della campagna, con uova, polli o latte;
c'erano venditori di stoffe, che esponevano pezze multicolori, nastri
e passamanerie ricamate; il fabbro con la sua fucina, che faceva
cantare l'incudine modellando ferri di cavallo; e poi c'erano i
venditori di pellami e quelli di cibi. In un angolo della piazza si
esibiva un saltimbanco circondato da un capannello di persone; da
un'altra parte c'erano dei musici, e qualche ragazza intrecciava
passi di danza al suono della viella.
L'aria era carica di odori, da
quello invitante dei cibi e delle spezie a quello sgradevole dello
strame e della carne appena macellata.
Un po' in disparte, come se non
avessero nulla a che fare con quello che si stava svolgendo nella
piazza, c'erano gli uomini della commenda templare, che vendevano i
prodotti della fattoria. Per la maggior parte erano servitori, ma li
accompagnavano anche uno scritturale e due cavalieri. Gwenel rimase a
fissarli assorto. Per quanto vestiti di un semplice manto bianco,
senza insegne se non la croce color sangue sulla spalla, quei
cavalieri gli parvero magnifici: imponenti, carichi di dignità,
autorevoli come patriarchi. Ricordò ciò che aveva sempre sentito
dire di loro: leoni con i nemici, agnelli con gli amici. Si chiese se
fosse per quello che il loro stendardo di guerra, l'onorato
Beauceant, era composto da due strisce orizzontali, una bianca e una
nera: forse simboleggiava i due diversi atteggiamenti.
Sospirò: avrebbe voluto essere
come loro.
Una voce alle sue spalle lo fece
sussultare: “Che stai facendo?”
Il ragazzo si girò di scatto e
si trovò di fronte suo fratello Vauquelin. “Ci sono i Templari
della commenda di Vaux,” disse per tutta risposta.
“Ci sono tutte le settimane,”
replicò l'altro noncurante, “non vedo cos'abbiano di strano questa
volta.”
Gwenel scosse la testa. “Niente.”
Tornò a volgere lo sguardo verso l'angolo della piazza dove si
trovavano i Templari. Considerò che intorno a loro c'era l'unica
zona pulita e ordinata. Un servitore stava spazzando via le deiezioni
di una capra, un altro raccoglieva i fili di paglia sparsi in giro e
ne faceva un mucchietto, un terzo allineava con cura le forme di
formaggio sul pianale del carro della commenda, sventolandole con un
ciuffo di fieno per scacciare le mosche.
Seduto a un tavolino portatile,
dopo ogni vendita lo scritturale contava le monete ricevute, poi le
metteva in una cassetta di ferro e scriveva qualcosa su un foglio.
Il ragazzo si girò verso il
fratello e disse: “Sono molto ordinati.”
“Sono molto furbi, più che
altro,” rispose Vauquelin, facendo adombrare il più giovane, “non
lo sai che il Papa li ha esentati da ogni decima, tassa e gabella?”
“Non ci credo.”
“Chiedilo a padre Guarin, se
non credi a me. Con i margini di guadagno che hanno, possono anche
sistemare le loro capre sulla porpora di Tiro invece che sulla
paglia, se lo desiderano.”
“Raccolgono denaro per
difenderci dagli infedeli,” rispose imperterrito il ragazzo.
“Lasciali perdere,” replicò
il maggiore. “Pensa a sposarti, piuttosto. Io alla tua età l’avevo
già fatto.”
“Non mi interessa sposarmi, io
voglio combattere per Gerusalemme.”
“Parli così perché non sai
ancora nulla delle donne.”
“E non voglio saperne nulla!”
ringhiò Gwenel in tono insolitamente duro, quindi abbandonò la sua
posizione vicino alla finestra e uscì dalla stanza.
Raggiunse le scale, le discese
rapido, attraversò il cortile del castello e da lì passò alla
piazza gremita di gente. Serpeggiò tra le bancarelle evitando i
mercanti, che attirati dalle sue ricche vesti cercavano di mostrargli
le loro merci migliori, quindi raggiunse la zona in cui si trovavano
i Templari.
Sembrava che qualcuno avesse
tracciato un cerchio invisibile intorno a loro, perché erano
circondati da silenzio e ordine. I musici non osavano avvicinarsi, i
saltimbanchi li scrutavano di tanto in tanto, indecisi se tentare una
burla, ma immancabilmente rinunciavano. Il selciato era sgombro da
ogni lordura.
Gwenel osservò le merci in
vendita: formaggi, capre ben pasciute, un vitello, vasi di miele. Si
sedette su un gradino poco lontano, puntò i gomiti sulle cosce e
appoggiò il viso sui palmi delle mani, poi fece girare lo sguardo
sulla piazza. In quel momento due donne stavano litigando a gran
voce, non riusciva a capire per cosa. Intorno al banco delle carni
c’era un tappeto di cascami, e rivoli di sangue riempivano le
commessure del selciato. Un cane randagio addentò una coda di vacca
e scappò inseguito dalle maledizioni del macellaio. Frattanto era
arrivato un mendicante storpio, accompagnato da un ragazzetto ossuto.
Il primo cominciò a cantare, cercando di sovrastare con voce
stridula gli strumenti dei musici, l’altro si infilò in mezzo alla
folla intenta a contrattare, e dopo poco si levò il grido rabbioso
di qualcuno che non trovava più la sua scarsella.
Si scatenò immediatamente un
parapiglia: tutti cercavano di agguantare il ragazzo, che schizzava
fra le gambe della gente come una specie di anguilla. Dopo aver
percorso in quel modo la maggior parte del mercato, il ladruncolo
corse nella direzione dei cavalieri, forse sperando di dileguarsi
attraverso il vicolo che si apriva dietro di loro, ma prima che
potesse raggiungerli, un uomo lo afferrò per la collottola e
trionfante esclamò: “Finalmente ti ho preso!”
Gli altri lo raggiunsero. “Ladro,
ladro!” si udiva gridare.
Si formò un capannello di gente,
e tutti sgomitavano per arrivare al ragazzo, per potergli dare almeno
un pugno o uno schiaffo. Colpito da tutte le parti, questi urlava e
si divincolava.
I due cavalieri si scambiarono
un’occhiata, poi uno di essi abbandonò il suo posto accanto allo
scritturale e si diresse a passi misurati verso il gruppo. Al suo
arrivo, la folla si divise come le acque del Mar Rosso al passaggio
di Mosè, ed egli si trovò faccia a faccia con l’uomo che stava
tenendo stretto il ladro.
“Che cos’ha fatto questo
ragazzo?” chiese pacato.
Il reprobo smise di agitarsi.
Alla vista del manto bianco, crollò in ginocchio e prese a
piagnucolare: “Pietà, buon signore, pietà! Vogliono uccidermi!”
protese una mano verso la veste del cavaliere, ma questi si fece
impercettibilmente indietro, e il ragazzo si accontentò di
appoggiarla al selciato e chinare la testa in segno di sottomissione.
“Pietà, buon signore!” implorò di nuovo con voce tremula.
“Che cos’hai fatto per
meritare l’ira di queste persone?” lo interrogò il Templare.
“Io? Niente, lo giuro sulla
Vergine!”
“Ha rubato!” intervenne un
uomo furibondo.
“Ha rubato, è un ladro!”
fecero eco altre voci.
Il cavaliere impose il silenzio
con un gesto. Fissò di nuovo il ragazzo. “Restituisci quello che
hai preso,” gli ingiunse.
“Non ho preso niente.”
“Non mentire. Posso fare
qualcosa per te se tu parli con cuore sincero e ti penti, ma se
permani nell’errore, come posso aiutarti?”
Il ladro fissò di nuovo il
cavaliere, poi fece girare lo sguardo sulla folla minacciosa che lo
circondava. Lentamente, a malincuore, si infilò una mano nella
camicia e ne trasse la scarsella rubata. La porse al Templare, che la
restituì al legittimo proprietario.
Fatto questo, il cavaliere
chiese: “Come ti chiami?”
“Mathias, buon signore.” Poi,
dopo una pausa, in tono accorato riprese: “Vi prego, salvatemi! Mi
vogliono uccidere.”
L’altro gli fece cenno di
tacere. “Sai lavorare, Mathias?”
Il ragazzo annuì energicamente.
“Sì, signore.”
“Allora puoi venire alla
commenda, ed espiare le tue colpe lavorando. Avrai da mangiare e da
dormire, e una veste nuova ogni volta che quella vecchia sarà
consumata.”
Per un attimo il ladro rimase
interdetto. Fissò poco convinto il suo interlocutore, poi volse lo
sguardo verso il mendicante storpio. “Signore, mio padre...”
cominciò esitante.
“È davvero tuo padre?”
L’altro annuì energicamente.
“Oh, sì. Certo che lo è. Mio padre, colui che mi ha generato. Io
sono sangue del suo sangue.”
“Voglio pensare che sia così,”
rispose il cavaliere. “Ma ricorda: posso avere pietà di chi ruba
per fame, ma non di chi mente per ottenere vantaggi.” Per quanto
fosse quieto, il tono lasciava trasparire un’inflessibilità
assoluta.
Mathias deglutì. “Come dite
voi, signore,” mormorò. Si voltò di nuovo verso il mendicante.
“Va’ da lui e portalo qui,”
gli disse il Templare, “se tuo padre, o quello che è, non può più
lavorare, lo accoglieremo come opera di carità.”
“Grazie, buon signore, che Dio
vi benedica.”
Gwenel, che aveva seguito tutta
la scena, si sentiva estasiato: che razza di uomini erano quelli, che
sapevano essere implacabili con i nemici di Cristo e al tempo stesso
pieni di carità con un povero mendicante?
Si avvicinò cauto, e subito uno
dei due cavalieri lo salutò. “Voi siete il figlio del signore de
Jussy?” gli chiese.
“È così.” Con le sue vesti
dai colori sgargianti, bordate di vaio, Gwenel si vergognava come se
avesse avuto addosso i più sordidi stracci. Ripensò al 'De laude
novae militiae', di Bernard de Clairvaux. Lo conosceva
praticamente a memoria, ma in particolare gli tornò in mente il
passo in cui il santo monaco criticava i costumi della cavalleria
laica: voi appesantite i vostri
cavalli con tessuti di seta; coprite le vostre cotte di maglia con
chissà quali stoffe; dipingete le vostre lance, i vostri scudi e le
vostre selle; tempestate d'oro, d'argento e di pietre preziose i
finimenti dei vostri cavalli... [2]
“Ammiro la vostra veste,” si
decise a dire.
“È gentile da parte vostra,”
fu la sobria risposta del Templare.
“Anche tutte queste cose...”
indicò i prodotti esposti, “...sono molto belle.”
“Siete molto cortese. Qual è
il vostro nome?”
“Gwenel... Gwenel de Jussy,”
rispose il ragazzo.
“Io sono fratello Séverin,”
si presentò il cavaliere, poi indicò il compagno, che stava
aiutando il mendicante a sedersi sul carro, e soggiunse: “E lui è
fratello Philippe.”
Il ragazzo prese un gran respiro,
e prima di pentirsene chiese: “Come si fa per entrare nell'Ordine?”
Con un sorriso di vaga
indulgenza, come quello di un nonno saggio che ascolta un nipotino un
po' sventato, fratello Séverin scosse la testa. “Non ve lo
consiglio, giovane signore.”
Il ragazzo, che aveva raccolto
tutto il suo coraggio per porre la fatidica domanda, trasecolò.
“Perché?”
“Voi siete nobile. Vorreste
rinunciare alla vostra volontà, e fare ciò che vi si ordina per
tutto il resto della vostra vita?”
Gwenel citò di nuovo Bernard de
Clairvaux, questa volta a voce alta: “Vanno e vengono a un cenno
del loro comandante; portano le vesti che egli dà loro, non cercando
né altri abiti, né altro nutrimento. Evitano ogni eccesso, nel cibo
come nelle vesti, desiderano solo il necessario. Vivono tutti
insieme, senza donne né bambini. E poiché nulla manchi loro della
perfezione angelica, vivono tutti sotto lo stesso tetto senza
possedere niente di personale, uniti dalla loro Regola nel rispetto
di Dio.” Si interruppe. Ansimava leggermente e si sentiva le guance
in fiamme. “In verità, fratello Séverin, io non ambisco ad altro
nella vita,” concluse.
Di nuovo, il Templare sorrise con
una certa indulgenza e disse: “Lo so, vista da fuori la nostra vita
può sembrare bella e perfetta, ma è intrisa di sacrificio e
rinuncia.”
Gwenel stava per ribattere quando
alle sue spalle echeggiò un richiamo. Il ragazzo si voltò e vide
suo fratello Vauquelin fermo al limitare della piazza. “Nostro
padre ci aspetta,” disse questi.
“Arrivo,” fu la svogliata
risposta, poi Gwenel rivolse nuovamente la propria attenzione al
cavaliere. “Non pensate che io parli con leggerezza,” gli disse.
“Se vi dico che non ambisco ad altro nella vita, fidatevi che è
così.”
Un secondo richiamo lo costrinse
ad allontanarsi.
§
Livonia, Castello di
Ritterswerder
Fratello Friedrich stava
misurando a grandi passi la sala del Capitolo. Percorreva lo spazio
in un senso, quindi faceva un dietro-front così brusco che il manto
bianco descriveva un arco di cerchio dietro di lui. Poi attraversava
di nuovo lo spazio, e arrivato alla parete opposta faceva la stessa
cosa.
A un certo punto si fermò, si
voltò verso una porta chiusa e la fissò torvo, quindi riprese a
camminare.
Passarono lunghi minuti, poi
finalmente la porta che ogni tanto il cavaliere scrutava si aprì, e
sulla soglia comparve uno scrivano. Fratello Friedrich interruppe il
suo nervoso camminare e si voltò verso di lui.
“Potete venire, cavaliere,”
disse questi, vagamente intimidito dal suo sguardo tagliente.
L'altro annuì senza parlare e si
mosse nella sua direzione. Piegando la testa all'indietro per
riuscire a guardarlo in faccia, lo scrivano disse: “Il priore vi
sta aspettando, fratello.”
“Lo so,” fu la secca
risposta, poi il cavaliere lo oltrepassò, percorse un breve
corridoio e senza bussare aprì una seconda porta.
Al di là c'era una stanza ampia
e illuminata da due alte bifore. Il soffitto era sostenuto da volte a
sesto acuto, le pareti erano di pietra chiara. Il fuoco che
scoppiettava nel camino rendeva la temperatura confortevole.
Al centro del locale c'era un
pesante tavolo di quercia, dietro cui sedeva un uomo imponente, dai
capelli appena venati di grigio, che indossava un abito bianco con
una croce nera sul petto. “Fratello Friedrich,” sospirò questi.
“Priore,” rispose l'altro. I
suoi occhi chiari, dallo sguardo acuto di rapace, non lo
abbandonavano.
“Vieni avanti, fratello.”
Il cavaliere si avvicinò,
fermandosi a un passo dal tavolo.
“Che cos'hai da dire a tua
discolpa, fratello?” gli chiese allora il priore.
L'altro si erse in tutta la sua
considerevole altezza e rispose: “Non devo discolparmi di nulla.”
A quella frase fece seguito un
silenzio rotto solo dal crepitare del ceppo nel camino e dal fischio
del vento che si insinuava tra le merlature.
“Di nulla, fratello?” fece
eco il priore dopo un po'. “Hai ucciso degli ambasciatori lituani,
mettendoci in una situazione piuttosto spiacevole con il loro
sovrano.”
“Non erano ambasciatori, erano
spie.”
Il priore sospirò di nuovo. “E
tu come fai a saperlo?”
“Li ho sorpresi sugli spalti,
mentre mandavano messaggi a qualcuno fuori.”
“Di nuovo, fratello Friedrich:
come fai a sapere che stavano mandando messaggi? E a chi, poi?”
Il cavaliere strinse gli occhi.
Per un attimo serrò le labbra, quindi sibilò: “Priore, non sono
due giorni che combatto qui in Livonia. Conosco benissimo le usanze
di quei pagani senza Dio, la loro lingua e i loro modi. So come si
scambiano messaggi, perlopiù a nostra insaputa.” Fece una pausa,
non scevra di un certo cupo compiacimento, quindi soggiunse:
“Purtroppo per loro, questa volta non si sono imbattuti nel solito
credulone ingenuo.”
Il più anziano non poté fare a
meno di aggrottare le sopracciglia. “Nella tua superbia, fratello,
dimentichi che io sono qui da più tempo di te.”
“E allora mi chiedo, priore,
perché non siate d'accordo con me. Quelli non erano ambasciatori, e
se li avessi lasciati liberi di comunicare con l'esterno, ora il
castello sarebbe perduto.”
“Avresti dovuto arrestarli e
chiedere l'intervento del Capitolo.”
“Sì, e intanto quelli facevano
la pantomima e smuovevano mezza Livonia per farsi liberare, e alla
fine avremmo dovuto lasciarli andare con tante scuse.” Fece una
pausa, poi soggiunse: “Così invece il problema è risolto.”
Di nuovo ci fu un lungo silenzio,
infine il priore si alzò lentamente in piedi, rivelando un'altezza
di poco inferiore a quella del suo interlocutore. Lentamente disse:
“Certo, fratello Friedrich, forse questo problema è
risolto, ma di certo la tua impulsività e il tuo orgoglio ne hanno
creati molti altri. Farai parte del contingente che scorterà i
cavalieri feriti alla Komturei [3] di Metz, e poi rimarrai là fino
anche non verrai richiamato; hai bisogno di schiariti un po' le idee,
e di meditare sul voto di obbedienza che hai formulato al momento di
entrare nell'Ordine.”
A quelle parole, gli occhi di
fratello Friedrich si accesero di furore. “A Metz?” ringhiò. “Ma
Metz è in Lothringen [4]!”
“So dove si trova Metz.”
“E quindi che cosa dovrei fare
laggiù? Imboccare i malati dell'ospedale? Tenere in ordine i
registri come una specie di scrivano zoppo? Io sono qui per
combattere i nemici della fede!”
“Tu sei qui per obbedire,”
replicò il priore con voce dura, “E finché non l'avrai capito te
ne rimarrai in Lothringen, a meditare sui tuoi peccati d'orgoglio.”
Fratello Theobald, priore del
castello di Ritterswerder, stava camminando sugli spalti. Al suo
fianco procedeva il suo più fidato aiutante, fratello Richard.
A perdita d'occhio, le campagne
erano coperte di neve, le bandiere con la croce nera dell'ordine
schioccavano investite dal vento gelido, mentre le loro corde
tintinnavano contro i pennoni.
“Allora lo mandi via?” chiese
a un tratto fratello Richard.
Il priore emise un sospiro. “Non
posso fare altro, questa volta l'ha combinata troppo grossa.” Poi,
dopo una pausa: “E considera che sono già stato molto generoso, un
altro gli avrebbe come minimo fatto perdere l'abito.”
“Il che sarebbe stato un gran
peccato,” considerò fratello Richard, “perché non c'è nessuno,
qui a Rittersewerder, più ardimentoso ed entusiasta di fratello
Friderich.”
“Non lo so,” replicò pensoso
il priore. Si fermò e per un po' rimase a guardare i soldati che
facevano esercitazioni con la spada. “Se ognuno di quelli durante
una battaglia decidesse di fare di testa sua, perché pensa di essere
il migliore e di aver capito la situazione meglio dei suoi
comandanti, tu cosa credi che succederebbe?”
Fratello Richard non rispose.
Ripresero a camminare.
Dopo un po', fratello Theobald
disse: “Capisci che questa volta non posso fare finta di niente,
anche per rispetto degli altri fratelli, che si aspettano da me
imparzialità e giusto rigore.”
“Fratello Friedrich è come un
cavallo selvaggio,” lo giustificò fratello Richard, “bisogna
saperlo prendere.”
Il priore scosse la testa, quindi
rispose: “Direi che hai usato un paragone appropriato: se un
cavallo selvaggio non accetta sella e briglie, può essere anche lo
stallone più bello e forte che si sia mai visto, ma non serve a
nulla.”
§
Lorena, Commenda di Vaux
Fratello Roland raggiunse la
commenda di Vaux salutato dalle ombre lunghe del tramonto. Il suo
destriero teneva la testa bassa per la stanchezza, e a lui stesso non
pareva vero di essere finalmente arrivato alla fine del suo viaggio.
Allontanarsi dalle zone di guerra
era stato come discostarsi da un fuoco ruggente. All’inizio,
dormire in pace tutta la notte e non dover fare la conta dei morti
dopo ogni uscita era stato quasi un sollievo, ma ormai lontano da
quelle fiamme sentiva solo freddo e nostalgia. Gli mancava il calore
dei suoi fratelli, quella sensazione unica di comunione spirituale
che nasceva dal condividere rischi e fatiche, e dava la
consapevolezza di potersi fidare ciecamente gli uni degli altri in
ogni momento.
Si guardò intorno: abituato ai
paesaggi aspri dell’Andalusia, alle dune flagellate dal vento e
alle forme contorte delle querce da sughero, la vista delle dolci
colline coperte di vigneti gli dava quasi una sensazione di disagio.
Per quanto la sua terra d’origine
non fosse distante da quella regione, si sentiva come un pesce fuor
d’acqua, e ogni casa a graticcio, ogni contadina che spingeva
placida un branco di oche, ogni bambino spensierato che lo salutava,
con nessuna preoccupazione se non quella di correre dietro a una
palla di stracci, gli faceva crudelmente rimpiangere le robuste mura
di pietra del castello di Murcia, il clangore del ferro e l’odore
salmastro del mare.
Gli era capitato spesso di
ripensare all’assalto della fattoria di Pozo Aledo, e qualche volta
aveva anche sorriso tra sé e sé rievocando le battute che i suoi
confratelli si erano scambiati sulla via del ritorno.
Una voce lo riscosse bruscamente
dai suoi pensieri: “Fratello!”
Rialzò la testa, istintivamente
la mano gli corse al pomo della spada.
“Fratello, affrettatevi, stiamo
per chiudere le porte.”
Roland si raddrizzò sulla sella:
la strada terminava davanti ai portoni della commenda, e un fratello
di mestiere [5] con le maniche rimboccate e i piedi nudi lo stava
chiamando con ampi gesti.
Osservò la struttura che gli si
profilava davanti: un insieme di edifici immacolati, dal tetto di
paglia, lunghi e bassi, disposti in un ampio circolo e circondati da
un muro di pietra. La porta che stava per essere chiusa non avrebbe
retto il più fiacco degli assalti dei saraceni. Vi erano solo due
edifici in pietra, ed erano la chiesa e la sala del Capitolo. Essi
apparivano decisamente più robusti degli altri, e il Templare si
domandò se fossero stati pensati come estrema difesa in caso di
attacco. Anche se di attacchi non si poteva certo parlare, nel cuore
della Francia cristiana.
“Fratello, non si può fare
tardi!” lo richiamò il portinaio.
Roland convinse il suo stanco
destriero ad aumentare un po’ l’andatura, oltrepassò la porta,
che in effetti venne subito serrata dietro le sue spalle, ed entrò
nel cortile.
Gli si fecero incontro latrando
due cani ben pasciuti, dal pelo lustro. Girarono un po' tra i piedi
del suo cavallo fiutandolo con interesse, poi tornarono ad
accucciarsi senza degnarlo di ulteriori attenzioni. Più lontano, un
garzone stava buttando del grano a polli e anatre, che gli si
assiepavano intorno chiocciando. Davanti alla scuderia c'erano due
cavalli da tiro che attendevano di essere strigliati, e dalla fucina
proveniva il battere ritmico del fabbro ferraio.
Fratello Roland fece girare lo
sguardo tutt'intorno e poi abbassò gli occhi sui propri abiti: cotta
di maglia, spada. La veste bianca sporca per il lungo viaggio. Emise
un sospiro.
Mentre si apprestava a scendere
da cavallo udì un rumore di passi, e subito dopo una voce lo salutò:
“Tu devi essere il fratello che stavamo aspettando!”
Si girò in quella direzione e
vide sopraggiungere un cavaliere che vestiva la tunica e il manto
bianco dell'Ordine, ma non aveva né spada né usbergo. Questi
procedeva a grandi passi verso di lui, con le braccia aperte in un
gesto di accoglienza e sul volto un sorriso benevolo.
Fratello Roland smontò da
cavallo e si presentò.
L'altro sollevò le sopracciglia
con espressione soddisfatta. “Ah, molto bene,” disse poi. “Molto
bene. Io sono fratello Geoffroy, commendatario di questa magione. Qui
abbiamo proprio un bel posticino, non trovi, fratello? È vero che la
Regola impone di bere con moderazione, ma sono ansioso di farti
assaggiare il nostro vino: sono certo che ti rinfrancherà meglio di
un'intera notte di sonno...”
Mentre il nuovo arrivato parlava,
si fecero avanti altre persone. C'erano dei fratelli, tutti
disarmati, dei garzoni, degli operai e addirittura, cosa che lo
riempì di stupore, un paio di donne. Vestite con la più grande
decenza e di età ormai matura, ma donne.
Tutti lo fissavano con curiosità,
e fratello Roland ebbe l'impressione che fosse tanto tempo che non
vedevano un cavaliere proveniente da una zona di guerra.
Notando che uno stalliere si
apprestava condurre il suo cavallo alle scuderie, egli staccò le
bisacce della sella, quindi frugò in una di esse e ne trasse una
lettera sigillata, che poi porse al commendatario.
Questi interruppe il monologo
sull'ultima vendemmia, abbassò gli occhi sulla missiva e chiese:
“Che cos'è?”
“È una lettera per voi,
signore. Ve la manda il commendatario di Murcia.”
“Ah, molto bene. Dev'essere
proprio la lettera che aspettavo.” Fratello Geoffroy lo prese
familiarmente per una spalla. “Vieni, fratello, andiamo dentro,
così potrai riposarti dopo che avremo parlato.”
Una volta che furono all'interno
dell'edificio del Capitolo, fratello Geoffroy lo condusse in una
stanza che fungeva da studio, e mentre lui lo fissava in rispettoso
silenzio, accese una candela, poi aprì la lettera, la spiegò e la
lesse con attenzione.
Alla fine sollevò lo sguardo e
semplicemente apprezzò: “Molto bene.” Poi si voltò nella sua
direzione, e notando la sua espressione tesa, chiese: “Qualcosa non
va, fratello?”
“Posso fare una domanda,
signore?”
“Ma sì, certo che puoi. È
ovvio.”
“Lì c'è scritto qual è la
mia colpa?”
L'altro sollevò stupito le
sopracciglia. “La tua colpa?”
“Il commendatario di Murcia non
me l'ha voluta dire, ma se mi ha mandato via, è chiaro che devo aver
commesso qualche grave mancanza.” Fece una pausa, poi soggiunse: “È
da quando sono partito da Murcia che ci sto pensando, signore, e il
fatto di non riuscire nella mia limitatezza a capirlo da solo mi sta
distruggendo: dove ho sbagliato?”
Fratello Geoffroy scosse la
testa. “Tu non hai sbagliato in nulla, fratello,” gli rispose.
“Proprio in nulla. Anzi: se vuoi saperlo, sei stato scelto.”
Fratello Roland incupì
l'espressione. “Scelto? Che significa?”
L'altro levò gli occhi su di
lui, e il primo notò che il suo sorriso bonario era scomparso per
lasciare il posto a un'espressione di serietà attenta. Vi era
silenzio nella stanza, e l'unica luce era quella che promanava dalla
candela che il commendatario aveva acceso. Il cavaliere fissò il suo
interlocutore con aspettativa.
“Ci sono compiti per cui non
tutti sono adatti,” disse questi. “Livelli di conoscenza
superiori, per i quali non è sufficiente essere prodi, coraggiosi e
leali.”
Fratello Roland si mosse a
disagio, facendo tintinnare gli anelli della cotta di maglia. “Che
significa?” chiese. Si accorse che aveva involontariamente
abbassato la voce, forse contagiato da quello strano clima di
mistero.
Fratello Geoffroy si alzò in
piedi facendo frusciare il mantello nel movimento. “Immagina dei
prigionieri, legati fin dalla nascita all'interno di una caverna, con
la faccia rivolta contro la parete,” cominciò. “E immagina che
ci sia un fuoco, alle loro spalle, che proietta su quella parete le
ombre di vari oggetti. Quei disgraziati si farebbero l'idea che il
loro mondo è costituito da quelle ombre, non ti pare?”
Il cavaliere ebbe qualche istante
di esitazione, poi rispose: “Sì, signore.”
Fratello Geoffroy annuì come il
precettore che vede l'allievo seguire attentamente la lezione. “Ora
immagina di liberare uno di quei prigionieri,” proseguì. “Che
cosa pensi che succederebbe?”
“Credo che quell'uomo vorrebbe
uscire dalla caverna, signore.”
“Certo, ma inizialmente sarebbe
abbagliato dalla luce e proverebbe dolore. Inoltre, all’inizio il
mondo reale gli sembrerebbe paradossalmente meno reale di quello che
ha sempre visto all'interno della caverna.”
Fratello Roland rimase in
silenzio.
“Quello che voglio dire,”
riprese l'altro dopo un po', “è che tutti noi viviamo all'interno
di quella caverna, ma solo i più forti e i più coraggiosi possono
sopportare il dolore di uscirne.”
“Non capisco, signore,”
mormorò il cavaliere. Illuminati dalla candela, gli occhi scuri di
fratello Geoffroy sembravano animati da una fiamma interna, che li
faceva ardere come tizzoni.
“Capirai,” disse il
commendatario. Prese la lettera, la piegò di nuovo e la infilò in
un cassetto, quindi proseguì: “Starai qui e ti ambienterai. Al
momento giusto, verrai presentato a fratello Urbain. Ora puoi andare
a riposarti.”
Fratello Roland uscì dallo
studio del commendatario in preda a pensieri contrastanti. Da una
parte lo sollevava sapere di non aver commesso alcuna mancanza, ma
dall’altra non gli era per niente chiaro che genere di compito
avrebbe dovuto svolgere.
Se non si trattava di combattere
per la fede, che cosa avrebbe dovuto fare?
Si guardò intorno disorientato.
Nel frattempo era calata la sera, ed egli riusciva a vedere qualcosa
unicamente grazie alla lama di luce che filtrava da sotto la porta
dello studio di fratello Geoffroy.
Ricordava la strada che portava
all’esterno, quindi pose una mano alla parete e cautamente prese a
camminare in quella direzione.
Non aveva fatto tre passi che
cominciò a sentire dei rumori alle sue spalle. Immediatamente si
irrigidì: qualcuno si stava avvicinando.
Si girò lentamente e vide un
alone di luce che andava facendosi man mano più intenso. Qualcuno
disse: “Fratello Roland? Sei qui per caso?”
“Chi mi chiama?” ringhiò
l’interpellato, facendo un istintivo passo indietro.
In fondo al corridoio comparve
una figura vestita di bianco con una lanterna in mano. “Sono
fratello Olivier,” si presentò.
Ancora diffidente, l’altro non
si mosse. “Come fai a sapere il mio nome?” chiese.
Il nuovo arrivato si avvicinò,
rivelandosi un giovane fratello di alta statura, con i capelli e gli
occhi chiari. “Diciamo che l’ho dedotto dagli indizi. Sapevo che
doveva arrivare un fratello di nome Roland dalla Spagna,” disse con
un lieve sorriso, “e quando ti ho visto nel cortile, ho capito
subito che eri tu.”
“Come hai fatto a capirlo?”
“Basta guardarti per accorgersi
che vieni da una zona di guerra, fratello.”
“Qui è buio,” replicò
Roland, senza abbandonare la posizione di guardia. “Come hai fatto
a capire che ero la stessa persona del cortile?”
“Oh, via. Sei appena uscito
dallo studio di fratello Geoffroy, nel quale praticamente non è mai
entrato nessuno di noi. Questo significa che sei un ospite di
riguardo.” Fece una breve pausa, poi soggiunse: “Come vedi, basta
osservare e ragionare.”
Fratello Roland rimase in
silenzio e lentamente assunse una postura più rilassata. “Scusa se
sono stato scortese,” disse infine, “Devo ancora abituarmi a
questi luoghi.”
L’altro annuì e chiese: “Dove
prestavi servizio?”
“Murcia.”
Fratello Olivier sollevò le
sopracciglia. “Un'assegnazione molto dura.”
“La conosci?”
“Ne ho sentito parlare.” Si
incamminò, facendo cenno a Roland di seguirlo. “Ora ti accompagno
in camerata,” disse poi, “così potrai lasciare l’usbergo prima
di venire in refettorio.”
L’altro si limitò ad annuire.
A Murcia si mangiava con usbergo, elmo e spada al fianco, e non era
raro che si abbandonasse il pasto a metà per rintuzzare qualche
assalto dei saraceni. L’idea di andare in refettorio con addosso
solo tunica e mantello lo faceva sentire praticamente nudo.
“Sai, per certi aspetti ti
invidio,” gli disse dopo un po' fratello Olivier. “In senso
buono, s'intende,” soggiunse poi.
“Perché?”
“Tu hai difeso davvero la fede,
con le armi in pugno.”
Fratello Roland non rispose. Un
po' per la stanchezza, ma un po' perché non avrebbe saputo cosa dire
per non offendere il suo interlocutore. Era passato da un castello
fortificato a una tranquilla fattoria, e ancora non riusciva a
capacitarsene.
Fu fratello Olivier che dopo un
po' aggiunse: “In ogni caso, la fede si serve in tanti modi, e a
Murcia non si potrebbe certo combattere, se non ci fosse chi
rifornisce il castello del necessario.”
“Già, hai ragione,” sospirò
Roland, più che altro desideroso di dargli ragione e far cessare il
chiacchericcio.
Fu fratello Olivier che concluse:
“Desiderare la gloria delle armi è sbagliato, bisogna desiderare
solo la gloria di Dio.” Tacque per qualche istante, forse in attesa
di una risposta, poi soggiunse: “Non nobis domine [6],
giusto?”
§
Fraello Roland pose le redini sul
collo del cavallo e afferrò un ciuffo di criniera per montare in
sella, ma qualcuno dietro di lui esclamò: “Aspetta!”
Il cavaliere si voltò: stava
arrivando a grandi passi fratello Adrien, uno dei cavalieri più
anziani di Vaux, che ormai a causa dell'età raramente usciva dalla
commenda. “Fatti vedere,” disse questi. Fece un passo indietro e
lo squadrò con una lunga occhiata dal basso verso l'alto.
Il più giovane colse uno sguardo
di disapprovazione, ma rimase in silenzio.
“Pensi di essere a posto?”
gli chiese allora l'altro.
Fratello Roland abbassò gli
occhi sulla propria tenuta, quindi rispose: “Spada affilata ieri
sera, usbergo, basilardo in cintura, elmo alla normanna, bendaggi di
emergenza nelle bisacce della sella e otre d'acqua. Credo di non aver
dimenticato nulla, fratello Adrien.”
Il maggiore emise un sospiro. “È
un mese che sei qui e ancora non hai capito niente,” brontolò
deluso, e prima che fratello Roland potesse replicare, proseguì: “La
fede non si difende solo con la spada in pugno, non si difende solo
tagliando la testa a chi la minaccia. Noi diamo un'immagine di
ordine, di pulizia fisica e morale, di rigore. Ci mostriamo
affidabili e disciplinati. Se tu vai in giro come se ti fossi appena
allontanato dal campo di battaglia, che immagine darai alla gente?”
Il più giovane non rispose.
“Cerca di adeguarti, fratello.
Ostinarsi a fare le cose a proprio modo quando tutti le fanno
diversamente è segno di superbia.”
Roland chinò appena la testa.
“Mi dispiace, fratello Adrien,” rispose, “sono abituato a
vestirmi così, l'ho fatto senza pensarci.”
L'altro occhieggiò il convoglio
che si andava formando nel cortile. In quel momento, due garzoni
stavano conducendo fuori dalla scuderia la mula bianca che ogni mese
trasportava a Metz le cassette con i guadagni della commenda.
“Parlerò col guardarobiere,” sospirò alla fine, “vedrò se ha
un mantello decente da assegnarti. Non puoi andare in città conciato
in quel modo.”
Fratello Roland rimase a
guardarlo mentre si allontanava, poi abbassò di nuovo gli occhi sui
propri abiti. A Murcia, nessuno si sarebbe sognato di riprenderlo
perché non aveva un mantello abbastanza candido. Anzi, laggiù era
raro che non ci fossero tuniche macchiate di sugna, polvere o sangue.
In quel momento, sopraggiunse
fratello Olivier. “Che voleva il Cerbero?” gli chiese.
“Al solito.”
Il nuovo arrivato sollevò le
sopracciglia. “Oh, capisco. Abiti disordinati, giusto?”
Fratello Roland si limitò ad
annuire. Sistemò meglio la testiera del suo cavallo, gli pettinò il
ciuffo con le dita, quindi soggiunse: “Non voglio essere diverso
dagli altri, ma vengo da un posto dove essere vestiti nella maniera
più comoda poteva fare la differenza tra vivere o morire. Certe cose
ormai le faccio senza nemmeno rendermene conto.”
Fratello Olivier sorrise. “Non
preoccuparti,” gli rispose, “fratello Adrien è solo dispiaciuto
di non poter essere lui a scortare la mula bianca. Devi avere
pazienza.”
Quando uscirono dalla commenda,
fratello Roland notò un ragazzetto vestito di stracci saltare in
piedi e allontanarsi di corsa. Si rivolse a fratello Olivier, che
cavalcava al suo fianco: “Chi è quello?”
L'altro si strinse nelle spalle.
“Non saprei. Ogni giorno vengono qui tanti poveri a prendere le
elemosine.”
“Ma quello l'avevi mai visto?”
“Mi pare di no.”
Fratello Roland si voltò nella
direzione in cui il ragazzo si era allontanato, ma non notò nulla di
strano.
“Che c'è?” volle sapere il
confratello.
Il primo si strinse nelle spalle.
“Niente, credo. Forse sono io che vedo pericoli anche dove non ce
ne sono.” Rivolse lo sguardo alla mula, che procedeva tranquilla,
tenuta per la cavezza da un fratello di mestiere, e poi si guardò
intorno: un contadino si fece il segno della croce quando li vide
passare, un paio di ragazze ridacchiarono fra loro. A parte ciò,
nessuno sembrava prestare loro attenzione.
Quando si furono allontanati di
qualche centinaio di passi, fratello Roland si voltò indietro,
addirittura girandosi sulla sella per vedere meglio, ma tutto gli
parve a posto.
Prese allora a osservare la
strada.
Dopo un po', fratello Olivier lo
affiancò. “Qualcosa non va?” gli chiese. “È da quando siamo
partiti che sei inquieto.”
“C'è troppa calma.”
L'altro si guardò intorno. “Non
più del solito, direi. Non c'è mai molta gente su questa strada.”
Il primo emise un sospiro.
“Scusami, fratello. Forse non sono ancora riuscito ad abituarmi a
questi posti. Penso sempre a qualche pericolo.”
La strada serpeggiava attraverso
un alternarsi di boschi e campi a maggese. Non c'era nessuno in giro
e gli unici rumori che si udivano erano lo stormire delle fronde e il
cinguettio degli uccelli.
Fratello Roland però rimaneva
inquieto. Continuava a pensare al ragazzetto che era scappato via
quando il convoglio era uscito da Vaux, e la cosa gli sembrava sempre
più sospetta. “Quanto manca a Metz?” chiese.
La risposta non fece in tempo a
giungere. Con la coda dell'occhio Fratello Roland colse un movimento
nella vegetazione. In un gesto istintivo afferrò fratello Olivier e
lo tirò verso il basso: la freccia che avrebbe dovuto piantarglisi
nel collo si perse tra le fronde.
Sfoderò la spada e si guardò
intorno: nel sottobosco c'erano delle sagome, gli parve anche di
riconoscere la giubba azzurra del ragazzo che era scappato a Vaux.
Smontò da cavallo.
“Che fai?” gli chiese
fratello Olivier.
“Prova tu a combattere in sella
qui in mezzo.” Colse un'ombra in avvicinamento, balzò in avanti:
tra le frasche c'era un uomo con una spada. Lo impegnò in
combattimento, ma già alle sue spalle si udivano nitriti e voci
concitate. La mula scartò, facendo tintinnare il carico che
trasportava.
Fratello Roland abbatté
l'avversario dopo appena due scambi, quindi si girò e corse accanto
a fratello Olivier, che nel frattempo era smontato a sua volta.
C'erano altri uomini intorno al convoglio, vide uno afferrare le
redini della mula. La bestia fece una mezza impennata e poi scartò
di nuovo, con maggiore forza, appiattendo le orecchie sul collo.
“Tenetela!” urlò fratello
Roland, “Non fatela allontanare!”
Nessuno si mosse: dei fratelli di
mestiere, un paio erano troppo spaventati per fare qualsiasi cosa,
uno era a terra sanguinante e gli altri non erano in vista. Fu
fratello Olivier che recuperò le redini della bestia e la trattenne.
Un brigante gli si avventò addosso, ma fratello Roland estrasse il
pugnale, lo afferrò per la veste e lo strattonò all'indietro, poi
gli piantò la lama nel petto. Subito dopo, estrasse l'arma e si girò
fulmineo, e con un tondo rovescio tagliò la gola a un secondo
brigante che stava per assalirlo alle spalle. A quel punto, i
superstiti si diedero alla fuga tra gli alberi.
Quando i passi dei
malintenzionati si persero nella foresta, Fratello Roland rinfoderò
l'arma, quindi fischiò per chiamare il suo cavallo, che si avvicinò
obbediente. Staccò l'otre dalla sella e bevve qualche sorso d'acqua,
poi lo porse al compagno. “Hai sete?”
“Mi hai salvato la vita,”
ansimò questi per tutta risposta.
“Te l'avevo detto che quel
tizio non mi piaceva.” Gli porse di nuovo l'otre. “Bevi un
sorso.”
Fratello Olivier si dissetò.
Si occuparono poi del ferito, che
era uno dei garzoni della scuderia. Il ragazzo, di nome Amé, giaceva
a terra col volto cereo, ma fortunatamente le sue condizioni non
erano gravi.
Fratello Roland tolse dalla
bisaccia della sella le bende che vi aveva riposto, quindi si chinò
accanto a lui e gli aprì la tunica, mettendo a nudo un taglio sul
fianco. La ferita era poco profonda, e aveva già smesso di
sanguinare. Il cavaliere la bendò con la disinvoltura
dell'abitudine. “Possiamo andare,” disse alla fine.
“Un momento,” intervenne
fratello Olivier.
Fratello Roland gli rivolse uno
sguardo interrogativo.
“Amé Non può venire in quelle
condizioni,” spiegò allora il primo. “Darebbe un'impressione di
debolezza e disordine, cosa che non sarebbe certo opportuna.”
L'altro aprì la bocca per
replicare, ma si accorse che tutti li stavano guardando. “Certo,
naturalmente,” si limitò a dire.
“È meglio che torni a Vaux.
Thibault lo accompagnerà.”
Il chiamato si fece avanti.
“Certo, cavaliere,” rispose con deferenza.
“Non date spettacoli
sconvenienti lungo la strada.”
“State tranquillo, cavaliere,”
assicurò Thibault per entrambi.
“Ora possiamo andare,” disse
fratello Olivier. “Anzi, muoviamoci. Non vorrei arrivare in
ritardo.”
§
La prima cosa che fratello Roland
notò quando arrivarono a Metz, fu un imponente castello a cavallo di
un corso d'acqua, con un giro di mura merlate e due alte torri dal
tetto conico ai lati del portone d'ingresso. Si fece schermo con la
mano per guardare le bandiere che garrivano sul maniero, ma col sole
del primo pomeriggio che gli batteva sugli occhi, non riusciva a
distinguerne il disegno.
“È quello?” chiese.
Fratello Olivier scosse la testa.
“No, quello è il castello dei cavalieri tedeschi.”
“I cavalieri teutonici?”
“Sì, ne vedrai qui in città.
Hanno anche un ospedale.” Fece una breve pausa, poi soggiunse: “E
quindi, capirai che a maggior ragione non possiamo sfigurare.”
“Non siamo in buoni rapporti
con i cavalieri tedeschi?”
“Ma certo. Dobbiamo mostrare
benevolenza per i nostri fratelli minori.”
Roland lanciò un’altra
occhiata al castello e tutto gli parvero quei cavalieri, fuorché
fratelli minori, ma preferì non replicare. Mentre stava ancora
osservando il maniero, vide il portone schiudersi lentamente. Da esso
uscirono alcuni uomini a cavallo.
Il primo montava un alto
destriero grigio, la cui corporatura poderosa era accentuata da una
gualdrappa bianca con le croci nere. Portava l’abito bianco,
l’usbergo e il mantello con la croce nera sulla spalla, ma la cosa
che lo colpì maggiormente fu che indossava un Grande Elmo che ai
lati aveva due imponenti ali bianche e nere, arcuate a semicerchio.
Rimase a fissarlo perplesso finché fratello Olivier non lo richiamò
alla realtà: “Non avevi mai visto un cavaliere tedesco?”
“Qualche volta, ma mai in
armi.”
“Hanno una certa predilezione
per le apparenze, non ti pare?”
Fermi sul ciglio della strada,
Michel e Bertrand, due membri della milizia, appoggiati alle
rispettive alabarde guardavano passare il gruppetto di Templari.
“Eccoli qui, come ogni mese,”
considerò il primo. “Puntuali come la Quaresima.”
L'altro rimase in silenzio.
“Mi piacerebbe proprio sapere
quanti soldi portano,” buttò lì Michel dopo un po'. “Sarei
curioso di dare un'occhiata a quelle cassette, una volta o l'altra.”
“Perché?” gli chiese
Bertrand.
L'altro assunse una vaga aria di
mistero, poi rispose: “Lo sai che nessuno è mai riuscito a mettere
le mani su uno dei loro libri mastri? Rispondono solo al Papa.”
“Conosco uno che è diventato
fratello di mestiere,” disse Bertrand dopo un po', “e lui dice
che sono bravi.”
“Bravi? Che significa?”
“Danno molte elemosine ai
poveri, curano gli infermi. Loro stessi non possono possedere più di
quattro denari a testa. Una volta un fratello cavaliere morì, e
quando guardarono nella sua scarsella trovarono più soldi del
consentito. Lo sai cosa successe?”
“No, che cosa?”
“Lo seppellirono senza la veste
bianca!”
Michel annuì. “Una punizione
terribile,” considerò poi in tono sarcastico.
Tra i due calò il silenzio. Di
comune accordo si misero in movimento e percorsero un tratto di
strada con passo misurato, sogguardando di tanto in tanto all'interno
delle botteghe, e ricevendone occhiate di torva diffidenza in
risposta.
Attraversarono la piazza della
cattedrale, e da lì Michel fece cenno di svoltare in un vicolo
stretto, al centro del quale correva un canaletto di scolo. Un paio
di bambini che stavano giocando sulla soglia di una casa scomparvero
all'interno dell'abitazione, da un davanzale un gatto li fissò e poi
scappò via. Rimase solo una vecchia silenziosa che filava seduta su
uno sgabello, ma probabilmente perché ormai non ci vedeva quasi più
e non aveva capito che erano sbirri.
“Perché passiamo per di qui?”
chiese Bertrand.
“Voglio vederli arrivare alla
commenda.”
“Sì, ma perché?”
“Voglio capire cosa fanno,
quella è gente strana. Non danno confidenza a nessuno, guardano
tutti dall’alto in basso.” Abbassò la voce. “C’è chi parla
di eresia, lo sai?”
“Eresia? Cavalieri della fede
che praticano l’eresia?”
Michel annuì energicamente. “Se
ne sentono tante, sui quei cari fratelli guerrieri. Anche che
facciano proprio tutto fra di loro.” Sogghignò, e dando una
gomitata nelle costole del collega, con aria complice gli chiese:
“Capisci cosa intendo?”
“Ecco, veramente no. Cosa vuoi
dire?”
“Tutto fra di loro, pensaci un
po’.”
[1] Romani 13:1,2 (NR)
[2] San Bernardo di Chiaravalle,
De laude novae militiae (In lode della nuova milizia).
[3] Equivalente teutonico della
commenda templare.
[4] Lorena.
[5] Contadini e artigiani
appartenenti all’Ordine, che svolgevano il loro servizio nelle
commende.
[6]
Non nobis domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam
(Non a noi, Signore. Non a noi, ma al tuo nome dà gloria). Motto dei
Templari, tratto dal Salmo 114 della Bibbia (CEI).
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