L’illusione dei
gelsomini
“Poi si erano
lasciati,
ma in quel modo che non è un lasciarsi
veramente:
lui era un po’ matto, lei troppo bella, ma si
volevano da morire.
Non potevano stare insieme, non potevano stare
lontani:
non ci esci, da quelle storie.”¹
Cozzasti contro il muro fatiscente,
tempestato dall’edera, e rivolgesti stizzita uno sguardo irritato a chi ti
stava di fronte. “Delicato come sempre.”
Sorrise e prese il tuo mento tra
due dita, frettoloso e sbrigativo. “Dai, muoviamoci.”
Avevate dieci minuti per amarvi, tu
e James. Il tempo vi correva dietro, e voi vi allontanavate in una fuga che non
sapevi come altro definire se non disperata
– ma era inutile scappare e tu lo sapevi: quella corsa era segnata da una fine
sempre più prossima, acquattata dietro l’angolo.
Non era mai delicato, James,
soprattutto nei baci. E forse era la furia, forse era la paura, forse l’amore,
ma quella volta ti baciò con un trasporto che non aveva usato mai. E strinse,
accartocciò, artigliò i tuoi fianchi, il suo corpo che ti faceva scontrare
contro la parete, quasi cancellando la tua figura diafana, esile quanto il
gambo di un fiore. Gli eri mancata, Rose, te lo disse in un sussurro contro il
tuo collo scoperto. La sciarpa rossa e oro era stata abbandonata poco più in là
dall’irruenza di quell’amore tutto vostro.
Con le gote in fiamme, arretrasti. “Non possiamo.”
“Ancora con questa storia, Rosie?”
“James... non ce la faccio più.”
Ogni volta si ripeteva, a cadenza
settimanale, la stessa storia. Tu impaurita, sul ciglio di una strada, lui
impavido, in mezzo. Ma James Sirius sapeva di avere
la vittoria in tasca: tu, Rose, non dicevi mai sul serio. Ci provavi, a
crederci in quelle parole, ma non ci riuscivi mai. Ti avvinghiò, posando la
fronte sulla tua. Sospirasti, in attesa della frase che oramai usava sempre più
spesso. “Non mi ami più?”
Di nuovo, non fosti capace di dare
un taglio a tutto quello. Di nuovo, non sapesti dire addio a James Sirius Potter, amante e cugino. “Lo sai che ti amo.”
Non glielo dicevi quasi mai, come a
voler negare l’evidenza. Le parole, Rose, hanno un peso particolare: una volta
pronunciate, non si torna più indietro. Per i fatti ci sono dei rimedi,
qualcosa uno s’inventa, ma le parole fregano sempre.
Non se l’aspettava, James. Glielo
leggesti nello sguardo caramello che invidiavi tanto, particolare rispetto alla
monotonia del pallido e slavato celeste dei tuoi occhi stanchi. Sorrideva, di
quel bel sorriso malandrino che gli spuntava spesso nel volto, a differenza tua,
che non sorridevi mai. Così diversi,
così legati.
I dieci minuti erano scaduti. Tirò
una ciocca dei tuoi capelli ribelli e infuocati, promettendoti, come al solito,
di rivedervi il prossimo sabato – e ti sentisti lacerata dentro, com’era ormai abitudine. Se ne andò prima lui,
dandoti le spalle per non guardare il tuo animo ferito – lo sapeva James, lo
sapevi tu: appena cominciava a camminare, te lo figuravi come un addio, e un
dolore intenso t’irrigidiva. Avevi provato, l’avevi supplicato, di lascarti andare
via per prima. Ma James si rifiutava sempre, ché vederti andare via gli avrebbe
rotto qualcosa dentro, e nessuno l’avrebbe riaggiustato mai più.
Come di routine, rincorse i suoi
amici a Mielandia, poi tu raccogliesti la sciarpa, la
borsa, il cappotto e lasciasti scorrere le dita sull’intonaco scrostato,
malinconica, e strappasti una foglia d’edera velenosa, facendola volteggiare
nell'aria fredda di gennaio.
Era il vostro nascondiglio segreto,
l’angolo più banale e sporco che potesse mai esistere, un rifugio pacifico in
cui il silenzio veniva interrotto solo dallo schioccare delle vostre labbra che
cozzavano l’una contro l’altra. Si trovava subito dietro alla Testa di Porco –
era nato per caso, in una frizzante serata natalizia, e se chiudevi gli occhi potevi
ancora sentire le vostre risate, le sue facezie, i tuoi timidi sorrisi. Quel
luogo era un po’ banale, forse, ma così vostro. Inspirando, avresti potuto
riconoscere il profumo di gelsomino che associavi a voi – quei fiori piccoli, candidi, innocui: com’erano abili a mentire, a
fingere.
Ti riscuotesti e corresti celere
verso Albus, inventandoti una scusa – ma non ce n’era
bisogno: lui aveva capito da molto tempo, probabilmente prima di te. Non parlava, tuo cugino, perché
vederti felice era il suo unico obiettivo: solo, a volte si sentiva un po’
messo da parte, e nella sua mente s’affollavano talmente tante domande che, se
l’avessi saputo, ti saresti sicuramente spaventata.
Osservasti il profilo fuggente di
James, che fedelmente aveva raggiunto la cricca di Grifondoro,
e sorridesti tuo malgrado – era talmente bello,
con il vento sbarazzino che gli scompigliava i capelli e la risata cristallina
che gli fuoriusciva perennemente dalle labbra che bramavi con un’intensità tale
da scatenare terremoti. Lo trovavi ineffabile, lui e il suo potere d’averti
impugno. T’eri domandata più volte, perché proprio James – e la risposta era
arrivata, paziente: nessuno ti faceva sentire come se fossi così maledettamente
umana, una ragazza qualsiasi, con le
proprie colpe e vergogne, con le proprie spensieratezze e le proprie
preoccupazioni, con ambizioni, disobbedienze. Non pretendeva niente, davvero
niente, da te: solo, che fossi te stessa.
Gli piacevi in quel modo che non ti sapevi spiegare, perché ti pareva
impossibile che qualcuno t’amasse – tu eri troppo distante e diversa per essere
amata da qualcuno.
Com’è curioso e strano, il destino:
t’affida la persona che non potrai avere mai. Ed è scoraggiante constatare che,
nonostante le tue promesse, i tuoi “giuro, questa volta è l'ultima”, e i pianti
isterici, fossi rimasta. Era inutile, provare a dirgli addio: era come
scambiare un gelsomino per un fiore cattivo, malsano, bugiardo – stesso livello
d’impossibile.
*
“Prefetto-perfetto Weasley?”.
“Magari lo fossi” mormorasti,
stupita dall’attenzione che ti aveva rivolto in Sala Comune, dove tutti
potevano capire.
“Ma lo sei! A meno che tu non abbia
rubato quella Spilla, certo” ammiccò, “in quel caso, avresti imparato da tuo
cugino l'arte dell’astuzia, e...”.
Bloccasti il suo discorso,
agghiacciata. Odiavi quando si definiva “tuo cugino”, anche se lo era. Aveva la
morbosa abitudine di calcare su quella parola – cugino – quando vi trovavate tra le persone, accrescendo ancor di
più i sospetti dei pochi, pochissimi, che ci vedevano giusto. Quella parola
sapeva di amaro schifoso, ripugnante, alle tue orecchie: mai l’avresti
pronunciata, per definire James, perché era quella la parola che ti separava da
lui.
“Intendevo perfetta. Magari fossi perfetta.”
Era il tuo tormento – ti schiacciava il peso di una vita che non avresti
voluto mai: ci s’aspettava il meglio, dalla figlia di Ronald e Hermione Weasley. E dovevi essere
perfetta – non bastavano le nottate
passate a studiare, la cortesia nel tono della tua voce, gli atteggiamenti
pacati ch’eri costretta a mantenere; volevano e volevi di più, aspiravi al
massimo senza poterlo raggiungere mai.
C’era una sola persona a cui
piacevi piena d’imperfezioni, e questa si guardò attorno, assicurandosi che
nessuno avesse gli occhi puntati su di voi. T’accarezzò il palmo della mano,
bisbigliò una frase rassicurante e ti sciogliesti, succube di James. “Di che
hai bisogno?” dicesti, a voce più alta.
“Permesso di allenamento di Quidditch. La McGrannitt è
arrabbiata con me. Se glielo chiedi tu, probabilmente...”.
“Ti accompagno. Capirà.”
Si stupì della tua audacia – eri
tutta da scoprire, Rose. Avevi capito le sue intenzioni fin da subito e avevi
agito di conseguenza, perché anche a te era mancato struggentemente durante
quei giorni amari, che sembrarono durare attimi infiniti. Qualcosa ti suggerì
di essere nella soglia del sbagliato – saresti potuta tornare indietro, ma non
volesti.
Procedeste un po’ distaccati fino
ad uno sgabuzzino sconosciuto, dove finalmente potevate essere due ragazzi
qualsiasi, che s’amavano – nessuna paura, nessun timore, nessun grado di
parentela in agguato. Solo tu e James, stretti l’uno all’altra, avvolti dalla
speranza.
Era vuoto, non molto spazioso, un
posto un po’ angusto. Ma tu lo amasti, Rose, sentivi già il profumo di
gelsomino farsi strada; restavi romantica, nonostante una come te dovrebbe
odiarlo, l’amore – nonostante tutto.
Una sensazione s’alimentò in te e
assomigliava alla felicità, ma non volevi illuderti. James sorrise e confermò
ciò a cui stavi pensando, ciò che t’aveva smosso qualcosa dentro: avevate tempo
a disposizione. E, finalmente, invece dei soliti baci profondi e sconnessi,
iniziaste a parlare. Tu, incastrata tra le sue gambe; lui, che t’avvolgeva con
le braccia. Stretti in quel modo, sembravate quasi una persona sola.
T’accorgesti di provare qualcosa
per lui una mattinata d’estate del tuo quinto anno. Il caldo rendeva qualsiasi
cosa insopportabile, a partire dalla voce strillante di nonna Molly che
popolava in continuazione i muri della Tana. T’annoiavi, leggevi svogliatamente
un libro, seduta sotto l’ombra di un albero in giardino. Davanti a te, i tuoi
cugini giocavano a Quidditch. All’improvviso, una
figura sfuggente ti carpì di mano il libro, girandoti attorno con scherno e
lanciandoti poi una scopa. Lo guardasti male, James, perché dei cugini era
quello più diverso da te, scostante e incorreggibile, era quello che non
saresti riuscita a capire mai e questo ti irritava terribilmente. Ti convinse a
giocare come Cacciatrice – era già a conoscenza delle sue carte vincenti, dei
tuoi punti deboli, prima ancora che iniziaste ad amarvi –, insegnandoti l’arte
del mestiere e facendoti scoprire un mondo nuovo.
Andò a finire che passaste tutta la
giornata insieme, a Diagon Alley, perché “voleva
comprarti una scopa decente” – rammendi ancora le sue parole serie, convinto di
aver trovato una nuova infallibile giocatrice per la sua squadra. E,
semplicemente, smettesti di considerarlo come un cugino.
La prima volta che v’eravate
baciati, invece, risaliva a Natale dello stesso anno. L’avevate passato
entrambi a Hogwarts, tutti i parenti sperduti da
qualche parte, e t’aveva portato a Hogsmeade, dietro
la Testa Di Porco, dove sbocciavano dei gelsomini – e comprendesti perché
l’amavi: ti faceva sentire viva.
James ti rendeva capace di sbagliare – non
potevi stare con lui, non potevi fare
tutto quello di nascosto, l'amore tra cugini era malsano –, e ti convinceva di essere nel giusto – mai una volta, al
suo fianco, ti sentisti in errore.
“Secondo te” proferisti,
appoggiando contro il petto di James la tua schiena e allungando le braccia
all'indietro. “I nostri figli avranno i capelli rossi o neri?”
Non s’irrigidì, come t’eri
aspettata. Rimase solo un attimo perplesso, poi appoggiò le labbra contro il
tuo orecchio: “Spero neri.”
Scuotesti ripetutamente la testa. “Devono averli rossi!”
Lo sentisti sorridere. “C’è già
stata un’unione Weasley-Potter. E solo una ha
ottenuto i capelli rossi, e parecchio
scuri.”
Alzasti gli occhi al cielo.
“Secondo me li avranno rossi.”
“Neri” ribatté. “Ma con i tuoi
occhi celesti.”
Nella tua mente apparirono dei
bambini che corrispondevano alla descrizione, e arrossisti tuo malgrado. “Mi
piacciono, anche se li avrei preferiti rossi con i tuoi occhi scuri.”
“L’importante è che siano nostri.”
Forse eravate davvero perfetti,
insieme. Forse avrebbero capito. Forse i vostri parenti non si sarebbero
arrabbiati, e al vostro matrimonio – alla Tana, adornata di fiori bianchi, gelsomini – si sarebbe presentato un
fiume di gente, colmo di gioia – e Albus avrebbe
fatto da testimone, e avrebbe detto a gran voce che l’aveva sempre saputo, che
vi nascondevate ogni sabato a Hogsmeade come due
ragazzini.
Continuaste a parlare, e parlare, e
parlare. Per una volta, non temevate il tempo – eri stanca di fingere.
*
Il chiasso era solo un rumore di
sottofondo, nel groviglio dei tuoi pensieri. Le chiacchiere, le battute, i
pettegolezzi dei ragazzi di Hogwarts, già pimpanti di
prima mattina, ti lambivano appena: continuavi a passare la punta dell’indice
sul bordo del tavolo, immersa in un altro mondo. E se avessi alzato lo sguardo,
avresti notato una figura imitare le tue stesse fantasie, persa a sognare le
sfumature dei tuoi capelli, a ricordare i momenti appena vissuti.
“Dove hai passato la notte?”
Trasalisti al suono della voce di
Lily Luna, che s’era seduta con irruenza accanto a te, in Sala Grande. La nota stonante, che in un attimo rese tutto
quel rumoreggiare reale e insopportabile. Ti sforzasti di non alzare lo sguardo verso James, che aveva letto
l’allarme nella ruga che solcava la tua fronte.
“Dove vuoi che l'abbia passata?”
ribattesti, con tono ironico, bugiarda
– ormai c’eri abituata.
“Ti ho sentita rientrare alle sei
di mattina” sibilò. “Cosa mi nascondi?”
Ignorasti il tuo stomaco, che aveva
iniziato a provare il dolore di una morsa soffocante, e incrociasti le braccia,
stringendoti su te stessa. “Niente. Stavo solo... finendo di studiare Pozioni.
Ho un compito difficile, dopo.”
Alzò, scettica, un sopracciglio.
“Mio fratello fa schifo in Pozioni.”
“Cosa c’entra James?” volevi
mostrarti indifferente, ma capisti che le bugie si erano sovraccaricate, che
ormai eri schiacciata dal loro peso.
“Come mai hai pensato subito a lui
e non ad Al?”
“Piantala con le tue insinuazioni!”
gridasti e qualcuno si voltò, incuriosito – tu non alzavi mai il tono della
voce, eri sempre così controllata e posata.
Lily sapeva. L’avevi percepito da
un po’, ma non l’avresti voluto ammettere nemmeno a te stessa. Lily era
l’ultima persona che avresti voluto sapesse, perché tua cugina provava per te
un odio puro, atto a cercare i tuoi punti deboli e ritorceteli contro. La
gelosia accecava la Potter, una gelosia che si acuiva ogni volta che tu
ottenevi un risultato migliore: una O in Difesa Contro le Arti Oscure, un
abbraccio di zio Harry che lei non riceveva quasi mai, uno sguardo da parte dei
ragazzi. Era invidiosa come una
serpe, Lily Luna, e passava la sua vita a cercare qualcosa di sbagliato in te.
Ed ecco che lo trovò, qualcosa di
malsano e deleterio. Qualcosa che ti stava danneggiando e sfibrando pian piano.
Un amore proibito.
Scappasti, ma la tua fuga era
finita.
E corresti via, uscendo dalla Sala
Grande, verso l’ingresso, e via verso la Torre dei Grifondoro.
Ti buttasti a terra, disperata, lacrime copiose ti solcavano il viso.
Eri stanca. Terribilmente stanca.
Non sembravi una ragazza di sedici anni, ma una vecchia che nella sua vita
aveva subito fin troppo e voleva giungere a una conclusione.
Povera,
piccola Rose, oppressa dai tuoi stessi sentimenti ingiusti.
Ti saresti potuta innamorare di
chiunque. Perché proprio lui?
Certo, aveva uno sguardo intenso
che prometteva una vita migliore. Certo, il suo coraggio ti affascinava. E
certo, ti capiva come nessuno mai. Ma
era tuo cugino, sangue del tuo sangue, e questo annullava tutto il resto.
Continuavi a sognare un futuro, un
lieto fine per voi due; una casa a Godric’s Hollow, degli gnomi da giardino, tante avventure da vivere
insieme. Dei bambini. Ma sarebbe
rimasto un sogno, per l'appunto.
“Rose!”
Non rispondesti, anzi ti rannicchiasti
ancor di più. Ora basta, pensasti. Ora è finita per davvero.
La tua scelta era giunta. Vi
avevano scoperti, ed era meglio dirgli addio prima che l’ineluttabile
conseguenza si avventasse su di voi. “Rose, per favore, sta’ tranquilla, mi
sono inventato qualcosa, non sa niente! Rose, guardami, ti prego.”
Non lo guardasti. Non potevi –
sarebbe bastato un solo sguardo, un solo tuffo nei suoi occhi e ti saresti
arresa, succube di lui come sempre. “È finita. Vattene, James.”
“Non puoi dire questo… Non mi ami più?”
C’aveva provato, a sfoderare la sua
carta vincente. E sussultasti. Per un attimo, ripensasti a voi, alla felicità dei sabato a Hogsmeade. Avresti
tanto voluto dirgli che sì, lo amavi, e nessuno avrebbe messo un ostacolo ai
tuoi sentimenti.
Ma non avreste ottenuto ciò che
volevate, non più. “Addio”
rispondesti, ignorando la sua domanda. Ti alzasti, Rose, gli voltasti le
spalle. E James venne inghiottito dalla paura che lo spaventava di più, quella
che lo perseguitava di notte, negli incubi: l’avevi lasciato solo.
Pensavi che, una volta finito
quell’amore malsano, ti saresti sentita libera.
In quell'esatto momento, però, il tuo cuore si spezzò – e, invece di ottenerla,
la persi, la tua libertà.
*
T’eri
immaginata la vostra fine così tante volte che pensavi di conoscere esattamente
cosa sarebbe successo: James Sirius, dopo alcuni
giorni di rabbia repressa, si sarebbe stancato di te e sarebbe andato a letto
con una ragazza diversa ogni sera; tu, invece, avresti passato mesi e mesi a
struggerti, guardandolo da lontano, ma poi saresti resuscitata dalle tue stesse
ceneri e avresti capito che era solo una stupida cotta, uno scherzo
dell’adolescenza.
Ti sbagliavi, e di molto.
Ti cercava sempre, durante ogni
attimo della giornata. La sua tristezza, seppur muta, era evidente nelle
occhiaie bluastre e infossate, nei suoi sospiri accennati nei momenti di
silenzio. Tu, stanca di tutto, avevi
provato ad andare avanti con la vita di ogni giorno, senza però riuscirci.
Stancamente, svolgevi ciò che era necessario per non sembrare un cadavere che
cammina: seguivi le lezioni, mangiavi, uscivi con Albus.
Ma non era abbastanza, e gli studenti di Hogwarts se
n’erano accorti – si mormorava, nei corridoi, che fossi depressa, che non
saresti più tornata indietro, che eri a pochi passi dalla morte. Era crudele,
quell’accostamento, e tu pensasti che, mentre la tua famiglia aveva rischiato
d’incontrarla per salvare il mondo, tu parevi morta per uno stupido amore
deleterio.
Era strana, la vita senza di lui:
mancava qualcosa, pareva incompleta, quasi insufficiente.
Era colma di quella monotonia che una volta t’era familiare, e se n’erano
accorti tutti: la McGrannitt, che aveva sospirato
comprensiva quando eri giunta nel suo ufficio per chiedere di uscire dalla
squadra, Hagrid, che s’era messo a piangere durante
un vostro tè delle cinque, afferrando che c’era qualcosa che non andava, Albus, il quale, ovviamente preoccupato, t’aveva buttato
addosso migliaia di domande – e, com’era usuale, aveva intuito senza bisogno di
spiegazioni –, e tua madre, sospettosa a causa delle lettere che avevi smesso
di spedirle.
Prima potevi essere morbosa,
sbagliata, malsana, ma almeno eri
felice. Felice davvero, non tanto per dire, perché uno sa cos’è la felicità
solo se l’ha persa. E ora comprendevi cos’era, quel sentimento impetuoso,
completo, vivo: era il viso di James
ad un paio di millimetri dal tuo, talmente vicino che le sue ciglia erano
incastrate tra le tue; erano quelle fughe a Hogsmeade,
con cadenza occasionale, ma sempre di sabato,
che forse avevano un sapore amaro, tuttavia così vostro; era la scopa da Quidditch che t’aveva regalato, ormai fuori moda, obsoleta;
era la sua risata scoppiettante, esplosiva, che annunciava guai; era il Natale,
quel Natale, dove ce l’avevi attorno
tutto il tempo; e infine erano i gelsomini, pallidi e profumati, che sembravano
prometterti qualcosa che non afferravi mai.
La tua vita triste ti stava
consumando piano, e te n’accorgevi. L’unico attimo della giornata in cui
mettevi da parte la tua apatia era quando James, distrutto ma pazientemente
assiduo, ti spingeva contro la parete di un corridoio anonimo e ti pregava di
tornare con lui. Lì, in quell’istante, l’amore ti scaldava, ti faceva
divampare, e Dio solo sa quanto avresti voluto urlargli di sì. Mascheravi ogni
cosa, invece, e scuotevi fermamente il capo, senza mai guardarlo negli occhi.
Insisteva finché qualche ragazzino del primo anno non irrompeva ed era
costretto a lasciarti crogiolare nel tuo dolore.
Non lo sapeva, James. Non sapeva
che lo amavi, che avresti voluto dirgli di sì – al contrario del fratello,
attento e onnisciente, lui non era capace di soffermarsi sui particolari, era semplicemente impulsivo, diretto.
Chissà cosa pensava, vedendoti
rifiutarlo ogni volta. Forse si chiedeva dove avesse sbagliato, ma la risposta
era sempre stata sotto i vostri occhi. Avevate sbagliato in tutto, dall’inizio
alla fine.
Perché, Rose, voi due eravate
strani, quasi atipici: non potevate stare insieme, ma non potevate nemmeno
lasciarvi. E anche se sulla carta non eravate più una coppia, avreste
continuato a cercarvi per sempre, in bilico tra restare e andarsene. Quella
storia morbosa non sarebbe finita mai
– e a te andava bene così, perché non avevi alternative e non avevi nemmeno la
forza di crearle.
Voltasti la testa, ostinata,
schiaffeggiandolo con i tuoi capelli furiosi, fiammanti. Lui t’afferrò per le
spalle, senza violenza, delicato: “Rose. Per favore.”
Facesti finta di niente, guardando
il soffitto affinché non uscissero lacrime dai tuoi occhi slavati.
“Rose... Non puoi farmi questo.”
“Non è colpa nostra, lo sai.”
Si riaccese, sorpreso. “Ti amo. Io
ti amo maledettamente, Rose. Me ne frego di ciò che pensano gli altri, io
voglio la nostra casa piena di bambini con i capelli rossi come dici tu, con i
miei occhi scuri, sei contenta? Te lo immagini, Rose? Se non ci accetteranno
scapperemo, troveremo una soluzione, mi metterò a lavorare... avremo i soldi e
tutto il resto, Rose. Ci pensi? Io e te in un mondo a cui piacciamo, che non ci
giudica. Spariremo lontano, cambieremo i nostri nomi... prendi la Francia, ad
esempio. Ti piacerebbe una casa in Francia? A Parigi? Oppure in una pianura
dimenticata da tutti, che so, qualsiasi cosa va bene, a me basti tu.”
“James” bloccasti il suo fiume in
piena, arretrando, usando un tono dolce. “Non voglio.”
Non reagì subito. I suoi lineamenti
rimasero rigidi, privi d’espressione. Aprì la bocca, senza sapere come
ribattere: “Cosa?”
“Non voglio scappare. Non voglio un
altro mondo, fingere di essere qualcun altro.”
“Ma...” accennò, facendosi buio, la
consapevolezza che baluginava davanti a lui. “Tu vuoi me?”
Ti saresti potuta inventare di no.
Avresti potuto spezzargli il cuore, lì sul posto, così avrebbe smesso di
assillarti, così forse sarebbe finito quel vortice morboso. Forse, dicendogli
di no, lui se la sarebbe messa via e tu ti saresti allontanata, ti saresti
trovata un nuovo ragazzo... un Corvonero, magari.
Potevi persino figurartelo: biondo, occhi verdi, fossette sulle guance e
sorriso sincero. Ti avrebbe amata e tu avresti provato ad amare lui,
riuscendoci quasi. E poi, finita Hogwarts, vi sareste
sposati e avresti avuto un bambino. Avresti incontrato James solo a Natale e a
Pasqua, oppure ai compleanni di Albus, e lui si
sarebbe portato dietro una ragazza Babbana totalmente
dissimile a te – piccolina, accondiscendente, tranquilla – e che tu avresti
segretamente odiato senza svelarlo a nessuno. Avreste dimenticato gli errori
del passato, e sareste tornati due cugini che s’inviavano cartoline di cortesia
mentre erano in vacanza e che apparivano con la Metropolvere
nella casa dell’altro per fare gli auguri. Ma non potevi sapere se sarebbe
andata effettivamente così, visto che dicesti la verità, per una volta nella
vita. “Non possiamo.”
“Mi stai facendo del male. Mi stai
distruggendo, Rose” mormorò, accarezzandoti celere una guancia e ritirando la
mano prima che potessi schiaffeggiargliela. “E dovrei odiarti per questo.”
“Io…”
“Sai quando ho smesso di vederti
come una cugina e ho iniziato a vederti come una ragazza?” era una domanda
retorica, la sua, ma scuotesti ugualmente la testa. “Quando ti ho visto volare
su quella scopa, Rose. Eri in alto nel cielo, sopra il prato della Tana, con un
unico obiettivo: la Pluffa. E vidi te. Vidi la libertà che sprigionavi,
come se lì, nel cielo terso, fossi lontana da tutti i problemi, da tutti i pesi che ti schiacciano, dalla smania di essere sempre
perfetta.”
“James…”
“E sai in quali altri momenti sei
libera, Rose, lo sai?”
“Per favore, smettila.”
“Quando sei con me. È questa la risposta.
Quando sei con me sei viva, senza
catene, senza limiti, senza oppressioni. Sei semplicemente te stessa. E da te
stessa non puoi scappare, Rose. E nemmeno da me: per quanto tu possa provarci,
tra le mie mani stringo la tua libertà.”
Se ne andò.
Aspettasti il domani, conscia del
fatto che sarebbe tornato, avrebbe ritentato.
Ma James non tornò.
E sprofondasti nel baratro più
buio.
*
Qualche
mese dopo
La maledizione del lago Nero. Così
si chiamava, così le aveva dato nome James.
Si divertiva con poco il ragazzo, e
spaventare gli alunni del primo anno con storie dell’orrore era uno dei suoi
passatempi preferiti.
“A mezzanotte, puoi ancora sentire
le urla scagliate da tutte quelle ragazze che sono annegate…”
Accompagnava il racconto da qualche
incantesimo, da un sorriso che sembrava una cicatrice intagliata su quel volto
liscio – e tu lo osservavi in silenzio,
combattuta tra il tuo dovere di prefetto e il fascino di quella storia.
Quando eravate soli, bramavi più
dettagli – eri sempre stata una tipa curiosa, Rose, ma la tua era una di quelle
curiosità che portano solo guai –, e lui amava definirti morbosa, però alla fine se li inventava sempre, dei nuovi dettagli,
per il puro scopo di accontentarti.
Cosa
ha spinto quelle ragazze a buttarsi?
Eri ancora un po’ bambina, nei
momenti in cui scrutavi il lago mentre calava la mezza luna, e la voce di James
prendeva vita, facendo spuntare su quelle rive desolate delle figure diafane in
preda all’angoscia. Potevi quasi vederlo, il grigiore abbattersi sulle loro
anime, il sorriso spezzarsi in due e un gesto – l’ultimo, fatale –, un gesto che era l’emblema della disperazione: il salto.
E un po’ ne avevi paura, un po’ ti
affascinava, un po’ ti era vicino, il dolore di quelle ragazze.
Continuavi a domandartelo, Rose: qual è l’ultima cosa che hanno visto? È
stato un sorriso, un volto, un paio di occhi intensi come il colore dello
zucchero bruciato? O l’acqua ha annullato qualsiasi ricordo, spingendole in un
eterno oblio, nel quale il volto del ragazzo amato non esisteva più?
Quale risposta avresti voluto
sentire, non ne eri sicura.
E allora avanti, un piede davanti
all’altro, un passo alla volta, lungo le rive deserte, fino a toccare l’acqua
con la punta delle dita – e il gelo
ti assalì, ti sentisti lacerata dentro,
quasi le acque fossero maledette e conducessero i visitatori a farla finita per
sempre. Un passo e un altro ancora, senza
paura, verso un posto in cui i gelsomini non mentono, in cui la notte non
esiste più.
Qual
è l’ultima cosa che vedrò?
Se avessi potuto scegliere, avresti
sussurrato il suo nome in un bisbiglio talmente lieve che soltanto la persona a
cui era indirizzato avrebbe compreso.
La luna si riflesse su di te, e
finalmente lo trovasti, il coraggio di saltare.
La
prima cosa è il nero, un nero che brilla mosso dal vortice continuo del lago,
la seconda è il rosso sbiadito dei tuoi capelli, una volta pieni di vita come
il tramonto di un giorno estivo, la terza sono un paio di occhi, quelli di tua
madre, e il cipiglio che la caratterizzava, la quarta sono le serate invernali
alla Tana, la quinta la delusione di tuo padre, la sesta l’addio muto dei tuoi
amici, la settima sono bocca, fossette, occhi di caramello, sguardo sincero,
risate represse, artigli contro i tuoi fianchi, un corpo che schiaccia il tuo,
sono le sue parole che promettono speranza, il pallore dei gelsomini.²
L’ultima
sono mani. Quelle
mani le riconosceresti ovunque – è una presa salda che ti ha studiato talmente
a lungo da conoscerti a memoria, una presa che rimette insieme i tuoi cocci e
satura le tue ferite semplicemente afferrandoti per la vita.
Riaffiorasti, le labbra
boccheggianti, respirasti con una forza estranea, non necessaria – eri stata
sotto solo una manciata di secondi.
“Rose! Ma che diavolo ti è preso?!”
Era davanti a te James,
fiammeggiante, irato, paonazzo. Ti prese per le spalle e ti trascinò via da
quel vortice nero, da quell’apatia che ti stava consumando.
Appena toccaste terra,
rinvigoristi. Lo spingesti via, quasi fosse lui nel torto e non ti avesse
appena salvato la vita. “Stavo nuotando! Cosa pensi, che sia così stupida da
morire come quelle ragazze?!” gridasti, offesa.
Aveva un’espressione smarrita,
James, mentre cercava di afferrare chi erano quelle ragazze. Gli ci vollero
meno di trenta secondi, per indovinare. E mormorò: “Lo sai, vero, che me la
sono inventata io quella storia? Che non esistono quelle suicide?”
Usò lo stesso tono che si adotta
quando si parla con i bambini piccoli e testardi. E questo ti irritò da morire,
così iniziasti a colpirgli il petto più volte. “Non mi sarei mai suicidata per te, figurati. Cosa ci fai
qui, James? Perché mi hai seguita?”
Ma quello che avresti voluto
chiedergli era ben altro. Perché non sei
tornato?
“E tu perché te ne sei andata?”
James indossava una camicia pulita
che sua madre doveva avergli stirato accuratamente, una volta, mentre adesso
era zuppa d’acqua grondante. Quella camicia da bravo ragazzo, che poco si
addiceva alla sua temperanza. Quante volte ti eri aggrappata a quel colletto,
stropicciandolo? Quante altre volte avresti voluto farlo?
Lo prendesti alla sprovvista. Ti
stringesti a lui, smaniosa di essere salvata. Ancora e ancora.
Ne avesti la certezza: il tuo
sorriso poteva esistere solo se sovrapposto a quello di James.
*
Non potevate sembrare più
colpevoli. Tu, un’adolescente con le labbra gonfie di baci e i primi bottoni
della camicetta saltati. Lui, i capelli scompigliati e tracce sbavate di
rossetto sul mento.
Non
siete stati attenti.
Ginevra singhiozzò, in cerca della mano
del marito, che aveva lo sguardo vacuo, perso chissà dove, chissà in quali
pensieri.
Hermione tacque, il volto teso, l’aria di
chi aveva sempre sospettato tutto, l’aria di una madre che non si è mai fatta
sfuggire nulla dei minuscoli dettagli che compongono la tua vita. Hermione non se ne rendeva conto, ma stava mentendo a se stessa.
Ron se n’era andato ormai da un quarto
d’ora, e prima di uscire se n’era ricordato, di sbattere la porta della cucina
il più forte possibile. Si era ricordato anche di dare una spallata a James,
che era rimasto impassibile, o almeno
dall’esterno – tu te n’eri resa conto, invece, che stava bruciando dentro.
Lily era l’unica a sorridere, la
nota allegra stonante in quella tragedia. Un sorriso trionfante, il suo – il
sorriso di un’eroina che finalmente ottiene giustizia.
E poi c’era Albus,
ma era come se non ci fosse davvero, perché lui aveva già previsto tutto molto
tempo fa.
James decise di rischiare e ti si
fece più vicino, proprio lì, tra i presenti, tra i singhiozzi di sua madre.
Percepisti la forza della sua mano schiacciata contro il tuo fianco e in mezzo
a quella tragedia ti sentisti così terribilmente viva, così felicemente Rose.
“Non possiamo scappare l’uno
dall’altra.”
Tua madre alzò la testa di scatto,
quasi si fosse resa conto in quel esatto momento della realtà dei fatti – e vi
vide, vide le tue gote arrossate e le labbra gonfie, labbra peccatrici, vide suo nipote avvinghiato
a te e fu come non riconoscerti e riconoscerti davvero, tutto nella stessa
volta.
Parlasti tu, Rose. Proprio tu,
quando il fiume in piena era sempre stato James.
“Quando avrò finito anch’io il
settimo anno, andremo a Parigi. Non… non vogliamo… non è necessario che approviate tutto questo.”
Contasti le dita del tuo ragazzo che facevano pressione, una
alla volta e poi di nuovo, per tranquillizzarti.
“Per l’amor del cielo! James Sirius Potter, è un altro dei tuoi stupidi scherzi?!”
affermò Ginny, riprendendosi dal pianto in un barlume
di speranza.
Era stato preso in contropiede, ché
lui una reazione così violenta non se l’era aspettata, eri sempre stata tu
quella piena di preoccupazioni – preoccupazioni che bastavano per due.
James cercò tra le sue carte
vincenti. Cercò, cercò, e cercò. Ma non trovò nulla, se non la verità. “Io la
amo.”
E quella verità bastò a sciogliere
tutte le catene che una volta ti avevano oppresso e non ti avrebbero oppresso
mai più.
*
In
cuor tuo ne eri sempre stata convinta, che tua figlia avrebbe avuto i capelli
rossi e gli occhi caramello bruciato, intenso.
“Come
l’avete chiamata?”
Un
sorriso grondante gioia. “Jasmine.”³
Note:
¹ Citazione di Alessandro Baricco, tratta dal suo libro “Barnum 2”.
² Per scrivere questa parte, ho preso liberamente spunto dalla seguente citazione
di Baricco, tratta dal suo libro “Oceano mare”: “La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un
pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la
sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è la
carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide. L'ultima è una vela.
Bianca. All'orizzonte”.
³ In inglese, “Gelsomino”.
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Koaletta’s corner
Non credevo che
questa storia avrebbe mai visto la luce, tantomeno che un giorno avrei deciso
di pubblicarla. L’ho scritta chissà quanto tempo fa, non sono mai riuscita a completarla.
Il finale, tutt’ora, non mi convince al cento per cento, forse perché non si
sposa bene con il tono deprimente che occupa quasi tutta la narrazione.
Comunque, non sono mai stata una in grado di scrivere qualcosa di diverso dagli
happy endings, credo di non averne la forza.
Non so nemmeno come
io abbia iniziato a shippare James e Rose, quando la
mia OTP è – o dovrebbe essere – la Rose/Scorpius.
Fatto sta che questi due mi piacciono da morire, soprattutto nella
caratterizzazione che ho deciso di dare loro, lei con la sua assidua ricerca
della perfezione, lui con il menefreghismo nel sangue.
Negli avvertimenti ho
deciso di segnalare “Tematiche delicate” per lo sfioramento del tema del
suicidio. In più, non ho messo “Incesto” perché l’amore tra i cugini su Efp non è considerato tale.
Spero questa storia
vi piaccia quasi quanto è piaciuto a me scriverla :)
Giulia