AMICO
DI DIO, NEMICO DI TUTTO IL MONDO
Parte prima
Germania, da qualche parte
lungo le coste del Mare del Nord, circa 1420
Il cielo era un immane ribollire
di nubi livide e contorte. L'ululato del vento si mescolava al rombo
cupo del tuono e al crepitio dei fulmini, e dalla superficie
sconvolta del mare si levavano spruzzi che il bagliore dei lampi
rendeva sinistramente fosforescenti.
La Kogge[1] volava sulle onde
verdastre, immergeva la prua e riemergeva con fiotti di spuma che
sgrondavano dagli ombrinali. La vela si gonfiava investita dal vento
di maestrale, l’albero gemeva a ogni raffica, mentre il sartiame si
tendeva allo spasimo.
“Capitano, se continua così
affonderemo!” esclamò il nostromo, reggendosi alla struttura del
castello di poppa.
L’uomo cui si era rivolto,
alto, imponente, un mantello di cuoio lucido di pioggia che gli
svolazzava dietro le spalle, sollevò lo sguardo verso le
scricchiolanti strutture, e semplicemente ordinò: “Una mano di
terzaroli, Hein.”
L’altro trasmise l’ordine, e
subito due marinai afferrarono la vela per linea di scotta e
cominciarono a serrare i matafioni.
Tesa allo spasimo dalla tempesta,
la tela era dura come ferro. Si aggiunse un terzo uomo, ma un’ondata
più violenta delle altre gli fece perdere l’equilibrio, egli
rotolò investito dall’acqua che aveva invaso la coperta, e al
successivo sollevarsi della prua venne trascinato fino
all’impavesata. Si aggrappò spasmodicamente, ma un brusco
movimento della nave lo scaraventò con mezzo corpo fuori bordo.
Egli urlò terrorizzato, mentre
l’acqua tumultuosa sembrava addirittura protendersi per ghermirlo.
Una folgore squarciò il cielo come un colpo di spada, il tuono che
la seguì fu talmente forte da coprire per un attimo ogni altro
suono. L’uomo urlò di nuovo.
Il capitano abbandonò la sua
posizione sul castello, raggiunse rapidamente il ponte di coperta,
barcollò investito da un’ondata e il cappuccio gli scivolò
all’indietro, rivelando capelli biondi scoloriti dalla salsedine e
una cicatrice che gli tagliava il volto dalla tempia al mento.
Scrollò il capo per allontanare dagli occhi le ciocche bagnate, poi
afferrò il marinaio e lo issò di nuovo a bordo.
“Grazie, capitano,” ansimò
questi, ma l’altro stava già tornando sul castello. Chiamò il
nostromo.
Egli si fece avanti. “Capitano?”
Il primo strinse gli occhi.
Scrutò per qualche istante il cupo agitarsi delle onde, quindi
disse: “Con questo mare non riusciremo a passare dalla Bocca di
Lupo.”
“Ma non possiamo nemmeno
rimanere qui fuori. Dobbiamo comunque raggiungere Lüsum.”
“Passeremo dalle secche.”
“Dalle secche, capitano?
Rischiamo di arenarci.”
“No, se passiamo per il
canale.” Poi, dopo una pausa: “È l’unico modo. Dì a Lars che
lo sostituisco io al timone, tu occupati della vela.”
“Capitano, senti...” cominciò
il nostromo, ma l'altro lo interruppe categorico: “No, Hein, senti
tu: mi avete eletto come vostro comandante, e io ho giurato di fare
del mio meglio per guidarvi. Dovete fidarvi di me, conosco questo
tratto di mare.”
Si fissarono negli occhi per
qualche istante, un'ondata scrosciò sulla prua, schizzi di spuma
gelida arrivarono fino a loro. Un fulmine crepitò illuminando
dall'interno le nubi plumbee.
Infine il capitano si girò, e
senza dire altro raggiunse il timone.
L'uomo chiamato Lars aveva
circondato la barra con entrambe le braccia, e la teneva in direzione
puntellandosi anche con i piedi. Accanto a lui, un altro marinaio lo
aiutava a reggerla. Nonostante gli sforzi congiunti dei due, il
timone dava l'impressione di poter sfuggire alla presa da un momento
all'altro, lasciando la nave senza guida in balia dei flutti.
Il capitano si unì a loro. “Va'
ad aiutare gli altri alla vela, Lars!” ordinò poi. “Qui rimango
io.”
La nave si scosse, rollò
investita da un'ondata laterale, dalla stiva provenne il rumore secco
di qualcosa che si spezzava.
“Dannazione!” ringhiò fra i
denti il capitano. Poi, di nuovo rivolto a Lars: “Tesa a ferro la
scotta di dritta, voglio potermi affidare alla vela quando ce ne sarà
bisogno.”
“Sì, capitano.”
Le secche apparvero in
lontananza, annunciate da un maggiore ribollire di schiuma bianca e
da una disordinata frenesia delle onde. L'acqua era più chiara, e la
sabbia sollevata dalla burrasca la rendeva lattiginosa. Il capitano
diede un'occhiata ai suoi uomini e li vide scrutare preoccupati oltre
la prua della Kogge.
“Animo!” urlò, con voce
sufficiente a coprire il fragore della tempesta. “Dopo quello che
abbiamo passato, non vi farete spaventare da una secca!”
Un tuono sembrò suggellare
quelle parole di sfida.
La nave avanzò destreggiandosi
sui bassi fondali. A un tratto si udì un rumore raschiante, e lo
scafo si inclinò da una parte.
“Mollare i terzaroli!” ordinò
il capitano, “Tesare a ferro le scotte!”
La vela così liberata si gonfiò
con uno schiocco, e strappò in avanti la Kogge. L'albero emise un
gemito, sulla sua sommità si accese gelida la fiammella di un
corposant[2].
“È un segno di Dio!” gridò
qualcuno in coperta.
Con voce possente, il capitano
rispose: “Meno chiacchiere, uomini! Non sarà Dio a tirarci fuori
da questa situazione, ma il nostro coraggio!”
La nave scartò, beccheggiò
investita da ogni parte dalle onde impazzite, di nuovo raschiò il
fondo con la carena. Le fiamme azzurre del corposant
si torsero nell'aria livida mentre scrosci di pioggia e schiuma si
abbattevano sulla coperta.
Il capitano manovrò ancora una
volta la barra del timone, cercando di offrire al vento ogni minima
parte della vela. La Kogge parve scrollarsi, uno scricchiolio
sinistro percorse tute le sue strutture, l'albero si curvò come
sottoposto a una forza immane, ma subito dopo l'imbarcazione scattò
in avanti, lasciandosi a poppa i banchi di sabbia.
Gli uomini esultarono di nuovo,
con un urlo di selvaggia rivalsa nei confronti degli elementi
furibondi. Sospinta dalle raffiche di maestrale, la nave volava sulle
onde sollevando creste di spuma. In lontananza comparvero due luci
fioche.
“Lüsum,” sospirò il
nostromo, con lo sguardo fisso in quella direzione.
Il capitano annuì, poi proclamò:
“Audaces fortuna
iuvat, avrebbe detto
Magister Wigbold.”
“Già.”
“Berremo alla salute sua e
degli altri, stasera.”
“Come sempre, capitano.”
“Lo meritano.”
“Già.”
Lüsum era poco più di una
spiaggia che si allargava in un'insenatura riparata, circondata da
case fatiscenti. Da una parte c'era un corto molo di pietra, attorno
al quale erano ormeggiate un altro paio di Kogge e qualche Kreyer[3].
Le poche strade, trasformate dal temporale in torrenti di fango,
erano deserte.
Solo il più grande degli
edifici, ovvero ciò che restava di una chiesa sconsacrata e priva
del campanile, mostrava qualche fioca luce all'interno. Per il resto,
a parte due lanterne che cigolavano spinte dalle raffiche, il luogo
sembrava disabitato.
Di più: sembrava non essere mai
stato abitato. Le finestre erano serrate, dai camini non usciva fumo.
Alcune delle capanne avevano il tetto di paglia fradicio, nel quale
gli uccelli di palude avevano nidificato.
Rade erbacce crescevano ai piedi
dei muri sporchi.
La Kogge attraccò, il capitano
scese a terra. La porta di un capanno poco distante si schiuse, e da
essa fece capolino un volto magro, con una benda sull'occhio destro e
radi capelli rossicci a incorniciarlo.
“Salute, Tilo,” disse il
capitano.
“Ah, sei tu,” brontolò
l'altro, senza abbandonare il suo posto. “Fatto buona caccia?”
Il primo si strinse nelle spalle.
“Le navi dell'Hansa non escono con questo tempo.” Si aggiustò il
cappuccio di cuoio che una raffica di vento gli aveva spinto
indietro.
“Hanno paura di perdere il loro
prezioso carico?”
“Già. C'è qualcuno
all'Aringa?”
“Sono tutti là.” L'uomo
sputò da una parte, poi recuperò un bicchiere di coccio e bevve un
sorso. “Tranne me e Fiete. A noi tocca la guardia.”
“Prima o poi tocca a tutti.”
Tilo ghignò. “Certo, ci
spartiamo ogni cosa come dei veri fratelli[4].”
“Tieni gli occhi aperti.”
L'altro alzò le spalle. “Chi
vuoi che arrivi con questo tempo? Anche i pesci stanno nascosti.”
“Tu tienili aperti. Non ci
tengo a finire al Grasbrook[5].”
Il capitano si tirò il cappuccio
fin sugli occhi, e seguito dai suoi uomini si diresse alla chiesa.
Spinse la porta ed entrò nell'edificio: la navata era ingombra di
tavoli, sui quali ardevano numerose candele. Da una parte era stato
ricavato un grande camino, e il fuoco vi scoppiettava allegro. Su
spiedi e graticole cuocevano pesci di varie dimensioni.
Ovunque c'era gente che beveva,
parlava a voce alta e rideva, e la cacofonia delle conversazioni si
rifletteva e si amplificava contro le volte del soffitto.
Il capitano fece qualche passo
nella sala. Una donna che stava passando con un vassoio carico di
boccali si fermò a guardarlo e disse: “Ecco finalmente il vecchio
Eike! Va' vicino al fuoco, prima di prenderti un malanno: sei più
fradicio di un pagliolo.”
L'uomo annuì e si diresse verso
il camino. Mentre passava, gli altri gli davano pacche sulle spalle o
gli rivolgevano rudi parole di saluto. Uno gli porse addirittura il
boccale, dal quale egli bevve un lungo sorso.
Tese le mani verso le fiamme,
socchiudendo gli occhi con un sospiro di soddisfazione, poi si fece
scivolare giù dalle spalle il mantello di cuoio ormai fradicio e lo
appese a un piolo che spuntava dalla parete. Si stirò avvertendo le
ossa scricchiolare, poi si passò le mani fra i capelli bagnati per
tirarseli indietro, quindi li legò con un laccio che portava al
collo.
La donna di prima lo raggiunse e
gli tese un boccale pieno, dal quale colava un rivolo di schiuma
candida. “Un po' di birra,” disse semplicemente.
“Grazie, Dörthe,” rispose
l'uomo.
“Vuoi da mangiare?”
Il capitano scambiò un'occhiata
con il nostromo, comparso nel frattempo alle sue spalle, quindi
indicò un pesce che stava cuocendo e rispose: “Un po' di
quell'halibut non ci dispiacerebbe.”
“Arriva.”
Trovarono un tavolo libero e si
sedettero. Poco lontano c'era un gruppetto di giovinastri che pareva
molto allegro.
Eike si voltò a osservarli: un
equipaggio arrivato a Lüsum da poco.
“Forse non hanno ancora capito
come funzionano le cose da queste parti,” brontolò il nostromo
quando il capo della banda salì in piedi su una sedia per farsi
acclamare dai suoi.
Il capitano scosse la testa. “Ah,
lascia stare. Sono riusciti a catturare una Vredekogge[6] e pensano
di essere diventati i padroni del mare.”
Detto questo cercò di
disinteressarsi al gruppetto, ma più i giovinastri bevevano birra,
più la loro allegria diventava invadente anche per i criteri
dell’Aringa Salata.
Più d’uno rivolse loro occhiate infastidite.
Sempre in piedi sulla sedia, il
ragazzo a un certo punto gridò: “Lo sapete chi sono io? Amico di
Dio, nemico di tutto il mondo!”
A quelle parole, immediatamente
il nostromo strinse la mano sull’avambraccio che il capitano aveva
posato sul tavolo. “Lascia stare,” lo ammonì a mezza voce.
“Branco di pivelli con la bocca
ancora bagnata di latte,” ringhiò questi. “Non sanno nemmeno di
cosa stanno parlando.”
“E dai, capitano.”
“Guardalo là: tronfio come un
galletto su un mucchio di letame.”
Il ragazzo salì in piedi sul
tavolo. “Amico di Dio, nemico di tutto il mondo!” ripeté.
“Questo è il mio motto!”
Eike si alzò in piedi e
allontanò bruscamente la sedia, poi si diresse a grandi passi verso
l’allegra combriccola, afferrò il giovanotto per una gamba e lo
scaraventò giù dal tavolo. Già alticcio, questi non riuscì a
opporsi e cadde con fragore, mandando in frantumi tazze e boccali.
“Ehi, che ti piglia?” urlò costernato. Nessuno si mosse in sua
difesa. Più d’uno, anzi, testimoniò la propria approvazione al
capitano con cenni del capo o parole.
Eike frattanto incombeva su di
lui con i pugni serrati e gli occhi iniettati di sangue. “Quello
non è il tuo
motto, specie di bamboccio idiota.”
“Non è nemmeno il tuo, se è
per questo,” replicò il più giovane, fissandolo con astio.
L’altro fece un passo avanti,
costringendolo ad arretrare bruscamente, poi chiese: “Lo sai
cos’hai appena detto? Lo sai di chi stai parlando?”
“Io...”
“Lo sai chi era Störtebeker?”
Nella sala era calato un silenzio
gelido. Gli unici rumori che si udivano erano il crepitare del fuoco
e l’ululato lugubre del vento. Gli occhi di tutti erano fissi sulla
scena. “Sai chi era?” ripeté il capitano.
[1] Imbarcazione in uso nel
medioevo nel Mar Baltico e nel Mare del Nord. Aveva funzioni sia
commerciali che militari.
[2] Anche noto come “Fuoco di
Sant'Elmo”, è una scarica elettro-luminescente provocata dalla
ionizzazione dell'aria durante un temporale.
[3] Tipo di chiatta coeva della
Kogge, in uso nelle stesse zone.
[4] Fa riferimento al nome che si
davano i pirati di quelle zone, ovvero Vitalienbrüder
(letteralmente: “i fratelli delle vettovaglie”). Il nome deriva
dal fatto che nel corso della guerra tra Svezia e Danimarca essi
furono ingaggiati dal re svedese Albrecht III per rifornire di
vettovaglie la sua capitale assediata.
[5] Spianata situata vicino al
porto di Amburgo, sulla quale anticamente si giustiziavano i pirati.
[6] Da vrede, forma più antica
di Friede, ovvero pace. Si trattava di Kogge armate che venivano
usate per i combattimenti contro i pirati. Il termine fa riferimento
al fatto che avevano il compito di “portare la pace” nei mari.
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