ReggaeFamily
Una normale
giornata di fine estate
Il
sole, che già da qualche ora lottava per baciare l'orizzonte e
nascondervisi dietro, tingeva di giallo e oro la città. Una
leggera brezza salmastra accarezzava gli abbronzati e sorridenti
passanti, facendoli rabbrividire e stringere nelle giacche leggere.
Io
camminavo a passo spedito, a testa bassa, riparandomi dalla luce
accecante solo con la visiera del cappello che indossavo. Non mi
andava di incrociare lo sguardo di nessuno, non ero in vena di
chiacchierare; avevo scelto quella zona tranquilla proprio per poter
compiere una passeggiata in solitudine.
Solo,
seppur circondato dalla caotica Los Angeles.
Non
che amassi particolarmente andarmene a zonzo per i larghi marciapiedi
della città, ma ogni tanto tutti hanno bisogno di evadere,
staccare da tutto, lasciare il cellulare a casa e immergersi nei
propri pensieri.
E,
per quanto questi ultimi fossero tetri, era proprio ciò che
stavo facendo.
Era
il 18 settembre, una normale giornata di fine estate. Famiglie e
gruppi di teenagers, di ritorno dal mare, si erano fermati a
consumare una pizza o un gelato in qualche locale; venditori di
panini e chincaglierie richiamavano l'attenzione della gente sulla
loro bancarella, proclamando a gran voce strepitose offerte; dalle
porte spalancate di bar e negozi si diffondevano le note di canzoni
estive e famose hit del momento.
Tutto
era nella norma attorno a me. C'era solo un piccolo particolare che
stonava con il resto.
Era
il sessantesimo giorno senza Chester.
Io,
così come il resto della band, cercavo di ignorare il tempo
che scorreva inesorabilmente, e spesso ci riuscivo: mi sembrava di
aver visto il mio vecchio amico giusto il giorno prima, mentre
aggrottava le sopracciglia davanti all'ennesimo commento negativo al
nostro ultimo album.
“Sai
Mike, in fondo non me ne fotte”, diceva. “Io ci ho
messo la faccia e il cuore, e mi va bene così.”
E io sapevo bene che non era
vero, avrebbe tanto voluto l'appoggio dei suoi vecchi fan, ma ogni
volta tacevo e lasciavo che lui raccontasse balle a noi e a se
stesso.
Mi mancava, cazzo. Ci
mancava. Mancava a tutti.
E non passava giorno che non
mi maledicessi: forse avrei potuto fare qualcosa per salvarlo, forse
sarei dovuto stare più attento e accorgermi che aveva bisogno
di aiuto, forse noialtri dei Linkin Park ci saremmo dovuti impegnare
per stargli più vicino.
O forse non sarebbe bastato
neanche questo, chi lo poteva sapere? Ormai il tempo per le
congetture era scaduto.
Dovevo ricacciare quei
pensieri, immediatamente. Non avevo portato con me neanche un paio di
occhiali da sole, dietro i quali poter nascondere i miei occhi
lucidi. Quindi non mi sembrava il caso di dare spettacolo in mezzo
alla strada, non ero mai stato particolarmente esibizionista.
A nessuno doveva importare
che uno dei miei amici più stretti si era tolto la vita.
Tirai la tesa del cappello
ancora più giù, in modo che mi oscurasse completamente
il viso.
Mentre scendevo il gradino
del marciapiede, pronto a superare l'imbocco di una stradina
secondaria, un suono attirò la mia attenzione, facendomi
tendere le orecchie.
Pareva una canzone, o
meglio, una linea vocale, accompagnata da un ritmo appena udibile.
Probabilmente delle percussioni.
Nulla di strano: poteva
trattarsi di uno dei numerosi artisti di strada che si incrociavano
spesso in ogni angolo della città; ma ciò che mi colpì
fu la canzone.
La riconobbi immediatamente:
era Crawling. La nostra Crawling.
Strabuzzai gli occhi,
incredulo, mentre sentivo un improvviso calore avvolgere il mio
corpo, infiammandomi le guance. Cercai di ascoltare meglio e appresi
che non si trattava di un cantante, ma un intero coro di voci che
intonava il ritornello del brano.
Solo quando un gruppo di
ciclisti mi superò suonando i campanelli mi resi conto che ero
rimasto impalato in mezzo alla strada, indeciso sul da farsi. Una
parte di me avrebbe voluto seguire quel suono e capire da dove
provenisse, ma avevo anche paura di imbattermi in un capannello di
fan inopportuni, e non ero proprio dell'umore giusto per scattare una
valanga di selfie.
“Ah, 'fanculo”
mormorai tra me; spinto da una curiosità morbosa, lasciai la
via su cui mi trovavo e imboccai la stretta stradina, laddove il
suono riecheggiava tra le pareti.
Superati i numerosi bar,
palazzine più o meno anonime e un gruppo di ragazzini che
sghignazzavano con bottiglie di birra in mano, mi imbattei in una
piazza quasi del tutto ricoperta d'erba verde. Lo spazio aperto si
faceva largo tra due strutture alte dalle pareti gialle ed era
disseminato di panchine e aiuole; da queste ultime si ergevano grandi
meli dalle fronde fitte e poderose, che fornivano molte zone d'ombra.
Dietro la piazza, quasi come
un miraggio, faceva capolino il mare con i suoi riflessi argentei.
Fu allora che li vidi,
radunati attorno al melo più grande: erano tanti, forse una
trentina o una quarantina. Qualcuno stazionava in piedi accanto al
tronco dell'albero e della panchina adiacente, alcuni si erano
accomodati per terra, altri si muovevano a ritmo e si spostavano
continuamente. Al centro del gruppo, seduti sulla panchina in legno,
due chitarristi suonavano con estrema concentrazione la seconda
strofa della canzone, mentre un ragazzo teneva il tempo con un cajon
e una ragazza si cimentava invece con uno djambé; qualcun
altro armeggiava con piccole percussioni.
Tutti, nessuno escluso,
cantavano: chi sommessamente, chi a gran voce, chi senza sapere con
precisione il testo, chi con qualche stonatura. Ma tutti col cuore.
Strabuzzai gli occhi e
schiusi leggermente le labbra, incredulo. Quella scena mi aveva
lasciato senza parole, sentivo solo il nodo alla gola che mi si stava
formando, sempre più forte. Ancora una volta stavo ricacciando
le lacrime.
Nessuno mi aveva notato e,
stranamente, non avevo paura che ciò accadesse; rimanevo
semplicemente lì, ipnotizzato da quella scena, da quel quadro
così intimo e così fottutamente commovente.
Un gruppo di persone si era
riunito, senza troppe pretese, per cantare insieme in onore di
Chester.
Non so spiegare perché,
ma in quel momento avvertii l'impulso di ringraziarli, uno per uno, e
soprattutto unirmi a loro. Così, senza neanche rendermene
conto, mi ritrovai a muovere qualche passo nella loro direzione.
Il primo a notarmi fu un
ragazzino di circa undici anni, che non appena mi avvistò si
portò le mani di fronte alla bocca e strillò: “Mike!”.
A quel punto quasi tutti si
volsero verso di me, dando vita a un eterogeneo insieme di reazioni:
un gruppo di ragazze scoppiò a piangere, molti impallidirono e
alcuni ammutolirono, ma i musicisti non si interruppero e si
limitarono a sorridermi, raggianti.
Mi pentii subito di essermi
intromesso in quel momento, avevo completamente rovinato l'atmosfera.
Ero fuori luogo.
Arrossii e abbassai lo
sguardo, indeciso se darmela a gambe senza dire una parola o chiedere
scusa. Che idiota ero stato!
Proprio in quel momento i
due chitarristi eseguirono gli ultimi accordi del brano; senza posare
il suo strumento, uno di essi – un giovane sui vent'anni dai
lunghi capelli – mi si rivolse: “Ehi! Vieni,
avvicinati!”.
“Beh, veramente...”
cominciai io con voce esitante, sinceramente sorpreso da quella sua
proposta.
In quel momento il ragazzino
che mi aveva riconosciuto per primo parve riscuotersi dallo shock e
mi si avvicinò, agitato più che mai. “Mike
Shinoda, oddio, non ci posso credere! Sei il mio cantante preferito,
ascolto i Linkin Park da quando sono nato, so tutti i tuoi testi a
memoria e...” Si interruppe all'improvviso e arrossì.
Intenerito, gli arruffai
affettuosamente i capelli. “Ehi, è un piacere
conoscerti, come ti chiami?” gli domandai accennando un
sorriso.
“Alex” borbottò
lui.
Qualcuno tra i più
giovani, ragazzi e ragazze intorno ai vent'anni, mi si avvicinarono e
mi strinsero la mano. Mi bastava guardarli negli occhi per capire che
erano molto emozionati di avermi lì tra loro.
Sperai di riuscire a
trasmettere lo stesso attraverso il mio sguardo e le mie strette di
mano, tanto non sarei mai riuscito a trovare le parole adatte per
esprimere l'uragano di emozioni che mi stava travolgendo. Il cuore mi
esplodeva di gioia e non capivo neanche il perché, mentre il
vuoto che mi portavo dentro da ormai due mesi si faceva sempre più
pressante.
Mancava Chester. Lui avrebbe
adorato quest'amichevole riunione di anime legate dalla musica.
Ma se Chester fosse stato
ancora lì, probabilmente tutto questo non sarebbe mai
successo.
Pian piano mi feci largo tra
la folla, salutando tutti con calore, e giunsi di fronte ai
musicisti.
“Posso fare una foto
con te?” saltò su una ragazzina dai capelli azzurri,
sventolando in aria il suo smartphone, ma subito venne fulminata da
colui che mi aveva invitato ad avvicinarmi. Quest'ultimo aveva posato
la sua chitarra ed era balzato giù dalla panchina, sulla quale
era appollaiato.
“Piacere, Derek”
si presentò, stringendomi la mano. “Che ci facevi da
queste parti, Mike? Se non hai fretta puoi restare, abbiamo
cominciato giusto da qualche minuto il nostro memorial!”
Mi guardai attorno, poi
posai i miei occhi sui suoi, grandi e scuri. “Un memorial...
per Chester?”
“Certo! Questo è
il raduno di noi poveracci che non abbiamo i soldi per organizzare un
vero e proprio evento!” spiegò Derek con semplicità,
stringendosi nelle spalle.
“Nessun biglietto da
pagare, nessun limite di partecipanti... quindi anche tu sei il
benvenuto!” precisò il secondo chitarrista, un uomo sui
quarant'anni, calvo e dal viso simpatico. “Io sono George,
comunque” si presentò poi.
Ero indeciso. “Non so
se è il caso, non vorrei disturbare...”
“Disturbare? Scherzi?!
Finalmente qualcuno che sa fare bene rap, finora è stato un
delirio!” commentò una tipa con un cappellino da
baseball e il viso pieno di piercing.
“Ehi, non è
mica facile cantare i suoi testi!” protestò un tipo al
suo fianco, forse un suo amico o il suo ragazzo.
“Io so rappare
perfettamente!” si difese un altro.
Li osservai mentre
battibeccavano e ridacchiai. L'atmosfera che si respirava era
talmente magica che non sarei riuscito ad andarmene nemmeno se avessi
voluto. “D'accordo, ci sto! Non so come ringraziarvi”
accettai quindi, e finalmente mi sciolsi in un enorme sorriso.
Derek mi strinse rapidamente
in un abbraccio fraterno e si mise nuovamente in piedi sulla
panchina, imbracciando la chitarra. “Allora, cosa c'era in
scaletta adesso? Cazzo, dovevamo stampare un foglio...”
“One Step Closer!”
propose qualcuno.
“Perché non
facciamo In The End?” suggerì invece la ragazza
allo djambé.
Da ogni angolo rimbalzavano
titoli di canzoni da poter eseguire, non riuscivo neanche a coglierli
tutti.
“Facciamo decidere al
nostro ospite d'onore!” strillò infine la ragazza dai
capelli blu, avvicinandomisi e battendomi una mano sulla spalla.
“Io? No, ragazzi,
dai... sono qui solo in veste di spettatore” rifiutai,
scuotendo leggermente la testa.
“Alex, scegli tu!”
esclamò Derek, rivolgendosi al ragazzino che ancora non mi
aveva staccato gli occhi di dosso.
“Vada per In The
End!” ribatté lui con convinzione.
“Mmh, bene... è
probabile che venga una merda, ma se abbiamo dei buoni coristi tutto
si risistema!” affermò il ragazzo al cajon, ammiccando
al resto del gruppo.
Mentre la canzone aveva
inizio, sgattaiolai in un angolino meno esposto. Ero circondato da
gente che continuava a fissarmi, ma non mi andava di essere anche
stavolta il protagonista della serata.
Mi ritrovai accanto a una
ragazza dai lunghissimi e liscissimi capelli neri, completamente
vestita di nero, dalla pelle bruna e i lineamenti mediorientali.
Proprio accanto a lei c'era un ragazzino dal viso paffuto, molto
simile a lei, dai capelli arruffati e gli occhi grandi. Probabilmente
erano fratelli. Non mi rivolsero la parola e sbirciarono nella mia
direzione solo con la coda dell'occhio, come se avessero paura o si
sentissero in soggezione.
Ma del resto non avevano
aperto bocca da quando ero arrivato, nemmeno per comunicare tra loro.
Senza nemmeno rendermene
conto, mi ritrovai nel bel mezzo della prima strofa di In The End
e cominciai a intonarla automaticamente. Per me cantare le mie
canzoni era come respirare, camminare, parlare.
Molti cercarono di seguirmi,
ma ad alcuni sfuggivano delle parole e alla fine ci rinunciarono.
Alex invece non ne mancò neanche una, nonostante mi trovassi
lontano da lui potevo percepire la concentrazione e la dedizione con
cui recitava il testo.
Quando udii le prime parole
del ritornello, cedetti.
I tried so hard
And
got so far
But
in the end
It
doesn't even matter
Tutti cantavano, mentre io
ero scoppiato a piangere senza ritegno. Un po' mi vergognavo di
espormi tanto davanti a degli sconosciuti, di mostrarmi vulnerabile,
ma era stato inevitabile.
Davanti ai miei occhi
scorsero tante immagini: Chester che si innervosiva perché non
riusciva a trovare una linea vocale adatta per quel ritornello,
Chester che la cantava sul palco con la sua voce graffiante, Chester
che mi lanciava uno sguardo complice mentre la provavamo nella nostra
saletta.
Era straziante. Ed era
ancora più straziante sapere che tutti coloro che mi
circondarono, nonostante non l'avessero mai conosciuto di persona,
stavano pensando ciò che pensavo io.
E ancora senso di vuoto e
gioia si alternavano all'interno del mio cuore, come su una giostra.
I
had to fall
To
lose it all
But
in the end
It
doesn't even matter
Una ragazza paffuta dai
capelli rossi, che mi pareva si chiamasse Claire, mi si avvicinò
e con spontaneità mi strinse in un abbraccio. Anche lei
tentava invano di trattenere i singhiozzi, ma in quel momento cercava
di trasmettermi tutta la sua energia positiva.
Mi aggrappai a lei e la
abbracciai a mia volta. Subito mi sentivo meglio, mentre lei
appoggiava la testa sulla mia spalla e cercava di rassicurarmi
accarezzandomi la schiena.
Durante la seconda strofa
qualcun altro scoppiò a piangere.
Solo all'inizio della strofa
cantata da Chester riuscii a sciogliere l'abbraccio e subito Claire
mi porse un fazzoletto.
I've put my trust in you
Push
as far as I can go
For
all this
There's
only one thing you should know
Mormorai anche quella parte,
pur sapendo di non essere granché intonato. Ma quella non era
una gara né un talent show, nessuno era venuto per dimostrare
agli altri quanto fosse bravo, tutto era concesso.
Claire mi regalò un
luminoso sorriso e mi strinse forte la mano. Una volta conclusosi il
brano, cominciò a parlare, sorprendendomi. “Lo so, non è
la stessa cosa, ma in parte capisco il tuo dolore. Non ho mai avuto
l'onore di conoscere Chester, ma per me era come un fratello: lui c'è
sempre stato, mi ha sempre sostenuto con la sua voce nei momenti
difficili, mi capiva. Non sono qui per fare la vittima, ma...
ho sofferto di depressione in passato, ed è stato proprio lui
ad aiutarmi. Se solo penso che... che i demoni che hanno minacciato
me, ora hanno annientato lui! Se solo servisse a salvarlo, sarei
disposta a vivere tutta la vita in preda alla depressione. Ma ora non
ha senso vivere di se, bisogna guardare avanti... perché
la vita può essere bastarda, ma è comunque tutto ciò
che abbiamo e tutto ciò a cui ci aggrappiamo.”
Quelle parole mi colpirono
profondamente. Non avrei mai immaginato che una ragazza all'apparenza
così solare e raggiante potesse celare un passato così
oscuro. Eppure Claire era stata forte, e ora mi sorrideva, tentava di
darmi coraggio.
Dissi la prima cosa che mi
passava per la mente: nient'altro che la verità.
“Probabilmente, se Chester avesse avuto accanto una persona
come te, avrebbe trovato la forza per andare avanti.”
La ragazza sgranò gli
occhi, sorpresa. “Mike, ti rendi conto di quello che hai appena
detto? Lo pensi davvero?”
Annuii con decisione e la
strinsi in un abbraccio. Quel gesto per me valeva più di mille
grazie.
Poi lei si allontanò
e tornò da alcune sue amiche, e contemporaneamente riconobbi
le prime note di Castle Of Glass.
Per l'ennesima volta mi
domandai se stessi vivendo in un sogno. Era tutto così
surreale!
“Perché non
facciamo Rebellion?” propose per l'ennesima volta un
tizio che indossava una maglietta dei Metallica.
Mi faceva un po' sorridere
il suo anticonformismo, dato che tutti indossavano indumenti con il
nostro logo.
“C'è un piccolo
problema: non abbiamo né chitarre elettriche né
tastiere, verrebbe fuori uno schifo!” obiettò Derek.
“Dovremmo puntare su
qualcosa di più conosciuto!” aggiunse Angelika, la
ragazza che suonava lo djambé.
Aveva ragione: Rebellion
non era certo una delle nostre canzoni più famose, nonostante
fosse in featuring con Daron Malakian.
Il mio pensiero corse al
chitarrista dei System Of A Down: un altro che aveva conosciuto,
adorato e perso Chester.
“Abbiamo già
fatto Burn It Down?” domandò la ragazza dai
capelli azzurri, di cui non riuscivo a ricordare il nome.
Scossi la testa. “Ho
paura ci sia lo stesso problema di Rebellion” commentai.
Ormai il ghiaccio si era
rotto e io, completamente rilassato, stavo in piedi accanto alla
panchina. Mi avevano offerto acqua e birra, ma io avevo accettato
solo la prima; infatti stringevo tra le mani una bottiglietta di
plastica da mezzo litro.
“Oh no, caro Mike, non
sarà affatto un problema! Aspetta e vedrai!” esclamò
Alexia, la ragazza col cappellino e i piercing. Poi si rivolse a
Derek: “Vai pure con Burn It Down!”
Non sapevo proprio cosa
aspettarmi; quello era un brano impossibile da fare in acustico,
mancavano le tastiere, che erano la parte più importante.
Sean, il ragazzo che suonava
il cajon, cominciò a battere a ritmo regolare sul suo
strumento; dopodiché Alexia gridò: “Su ragazzi,
via con i synth!”.
E alcuni presero a imitare
con la voce il celebre giro di tastiere, tra le risate generali.
Ero allibito e non potei
fare a meno di scoppiare a ridere a mia volta. “Siete dei
fottuti geni!” commentai.
“Che te ne pare, capo?
Non avremmo gli LP al completo, ma ci arrangiamo!” Alexia mi
fece l'occhiolino.
Cantammo tutti insieme
ancora una volta, e per me fu un tuffo al cuore, come sempre.
La verità era che, da
quando Chester se n'era andato, non avevo ancora avuto il coraggio di
ascoltare né cantare una canzone dei Linkin Park, ma quei
ragazzi mi stavano aiutando a superare quel blocco, spennellando il
tutto di allegria e risate. Mi trovavo davvero bene con loro, non li
avrei mai ringraziati abbastanza.
“Bene, ragazzi, un po'
d'attenzione!” gridò Angelika al termine della canzone;
lasciò il suo djambé sull'erba e salì in piedi
sulla panchina, battendo le mani. “Qualche giorno fa ci è
giunto un messaggio in cui venivano chiesti cinque minuti della
serata da parte di una ragazza. Lei ha scritto una poesia e vorrebbe
leggerla, ma io poco ne so, quindi lascio a lei la parola.”
Dopodiché si voltò e indirizzò un'occhiata alla
taciturna ragazza dai lineamenti orientali. “Gatha... sei tu,
giusto?”
Anche io, sorpreso, volsi lo
sguardo in quella direzione e osservai Gatha mentre batteva appena
sulla schiena di suo fratello, prima di dirigersi a passo spedito
verso la panchina – che ormai fungeva da piccolo palco. Una
volta accanto ad Angelika, estrasse dalla sua borsa un foglio e si
schiarì la gola.
Tutt'intorno calò il
silenzio.
“Ho scritto questa
poesia dedicata a Chester non appena ho saputo la triste notizia.
Così ho dato voce a un dolore che mi tormenta da tanto tempo.
Vi ringrazio, se vorrete ascoltarmi” proclamò a un
volume di voce non troppo alto. Aveva un bel timbro.
Prima che potesse cominciare
a recitare il suo componimento, invitai il fratello di Gatha ad
avvicinarsi, dal momento che era rimasto in disparte. Lui rimase per
un secondo a fissarmi, gli occhi sgranati, poi mi raggiunse
velocemente.
“Come ti chiami?”
sussurrai.
“Dareh.”
“Wow” commentai.
“Iran” spiegò
velocemente, poi mi fece segno di tacere.
Gatha, prima di iniziare a
leggere i suoi versi, mi lanciò una breve occhiata.
Gelo:
i miei occhi.
Nero:
il colore dei miei giorni,
del
mare in tormenta.
La
mia mente non rammenta
più
l'ultima volta
in
cui sfiorò il tuo volto.
Le
mie orecchie stridono
senza
le tue risa;
i
miei occhi non ridono.
Mi
manchi, sai?
Non
avrei detto mai
di
poter perdere me stessa
nei
meandri della tua assenza.
Rimasi a bocca aperta,
mentre nuove lacrime minacciavano di lasciare i miei occhi.
Gatha era riuscita, in pochi
versi, a esprimere tutto ciò che sentivo dentro di me.
La ragazza balzò giù
dalla panchina, ma prima che potesse ritornare al suo angolino mi
avviai verso di lei, con Dareh al seguito.
“Ehi... complimenti,
sono dei versi stupendi!” esclamai, posandole una mano sulla
spalla.
Lei si voltò di
scatto, come se fosse stata scottata, e mi fissò.
“Da tempo cercavo le
parole per dirlo... e tu le hai trovate” ammisi, leggermente a
disagio.
Lei rise amaramente. “Tu
hai perso un amico che per te era come un fratello. Io, quando ero
ancora in Iran, ho perso un fratello. Io e Dareh abbiamo perso
anche i nostri genitori. E ora anche Chester. Ora siamo veramente
soli” raccontò velocemente, avvolgendo un braccio
attorno alle spalle di suo fratello.
Abbassai lo sguardo, ancora
più imbarazzato di prima. Forse la sofferenza che provavo io
non era nulla in confronto a quella che avevano provato quei due
ragazzi. Non conoscevo la loro storia, ma si leggeva nei loro occhi
che il loro vissuto li aveva segnati.
“Te la regalo.”
Improvvisamente mi riscossi;
Gatha mi stava sventolando davanti agli occhi il foglio da cui aveva
letto la sua poesia. Stralunato, lo afferrai e vi posai lo sguardo:
erano proprio le parole che lei aveva recitato.
Feci per ringraziarla, ma
lei e Dareh si erano già allontanati.
Sicuramente mi trovavo
all'interno di un sogno, era l'unica spiegazione.
E, come se qualcuno mi
avesse letto nel pensiero, in quel momento udii la parola dream,
pronunciata dal coro che già aveva ripreso a cantare.
Leave Out All The Rest.
Adoravo quella canzone.
I
dreamed I was missing You were so scared But no one would
listen Cause no one else cared After my dreaming I woke with
this fear What am I leaving When I'm done here? So, if
you're asking me, I want you to know
Ormai la luce arancione del
tramonto stava lasciando il posto all'oscurità, un vento
fresco giungeva dal mare alle nostre spalle e la maggior parte di noi
era infreddolita.
Mi strinsi nella mia giacca.
“Hai freddo, Mike?”
domandò con fare premuroso George, mentre si assicurava che la
sua chitarra fosse ancora ben accordata.
“Scusateci, contavamo
di finire prima! Dai, mancano solo due canzoni: One More Light
e From The Inside, poi vi lasciamo liberi!”
“Veramente siete
liberi di andare quando volete, qui guinzagli non ne abbiamo!”
commentò Alexia con una risata.
Ma nessuno aveva voglia di
andar via, o almeno, io no di certo.
Alcune ragazze lanciarono un
grido non appena sentirono nominare One More Light, mentre il
mio cuore faceva le capriole nel petto.
Avevamo riso e scherzato per
quasi tutta la serata, ma sentivo che era arrivato un momento molto
serio.
“Prima però che
ne dite di dare la parola a Mike?” se ne uscì George a
un certo punto, scatenando l'entusiasmo generale.
“A me? Ma perché?
Cioè...” borbottai, in difficoltà.
“Per dire due parole
su... insomma, come ti è parso questo piccolo memorial?
Ovviamente solo se ti va” aggiunse Angelika.
Feci scorrere lo sguardo tra
i partecipanti a quell'evento e una profonda gratitudine mi invase e
mi avvolse. In quel momento decisi che sì, volevo dire
qualcosa, volevo ringraziare tutti.
Mi posizionai davanti alla
panchina, ma non vi salii sopra; i momenti per stare sul palco erano
altri.
“Beh, io non sono
molto bravo con le parole... però stavolta le voglio trovare,
ve lo devo” cominciai. Presi un profondo respiro, tentando di
regolarizzare il mio cuore che batteva a mille. “Sapete, quando
sono arrivato in questa piazza, qualche ora fa, e vi ho visto, mi è
subito venuta in mente una cosa: a Chester piacerebbe un sacco questa
scena. Già, perché lui era così, anche se non ci
crederete: amava le cose semplici e spontanee, quindi avrebbe adorato
il vostro unirvi per stare un po' insieme, strimpellare e intonare
insieme delle canzoni che vi piacciono. Per questo vi dico: per
quanti memorial verranno organizzati in suo onore, per quanti mega
palchi verranno allestiti, per quante bravissime cover band dei
Linkin Park verranno chiamate a suonare, il suo memorial preferito
sarà sempre il vostro.”
Mi interruppi, la voce rotta
dall'emozione. Nelle ultime luci del giorno brillavano le lacrime dei
miei ascoltatori.
Solo allora mi resi conto
che una goccia salata rigava anche la mia guancia destra.
Tuttavia mi imposi di
continuare.
“Vi ringrazio. Da
parte mia, da parte di Chester e da parte di tutti noi dei Linkin
Park. Avete messo su una festa, basata su un momento triste ma pur
sempre una festa, e soprattutto un momento di unione e crescita. Oggi
è la prima volta, dopo che Chester se n'è andato, in
cui ascolto e canto nuovamente le nostre canzoni, e tutto questo lo
devo a voi. Grazie, perché mi avete fatto sentire meno solo.
Nonostante non vi conosca uno per uno, ho trovato in voi una
famiglia, e...”
Mi asciugai le lacrime con
la manica della giacca, rosso in volto.
“Non vi salti mai in
mente di fare ciò che ha fatto lui. La vita è bella,
cazzo, è fottutamente bella, e la dovete vivere con la stessa
passione con cui avete cantato oggi” conclusi.
Venni travolto da talmente
tanti abbracci che persi il senso dell'orientamento.
E di quell'abbraccio non mi
liberai. Ascoltai tutti che cantavano One More Light, mentre
qualcuno ancora mi circondava le spalle. In preda ai singhiozzi, non
riuscii a pronunciare una sola parola di quella canzone.
Mi parve quasi di vederlo
lì, accanto a me. Chester, pallido come sempre, che impugnava
il microfono, chiudeva gli occhi e cantava con noi.
Non riuscii a smettere di
piangere fino alla metà di From The Inside.
Infine scattammo una foto
tutti insieme, con tanto di occhi rossi per il pianto e sorrisi da un
orecchio all'altro. Alla mia destra c'era Derek, mentre alla mia
sinistra si era posizionato il piccolo Alex. Ci stringemmo tutti
insieme per lo scatto, in un enorme abbraccio.
“Ti offriamo qualcosa
in un bar”, mi proposero, “o qualcosa da mangiare, se
preferisci.”
Ma io declinai l'invito;
ormai era notte e io avevo una famiglia, delle persone da cui
tornare, che probabilmente erano preoccupate per me.
Mi dispiaceva non avere
niente con me da poter donare a quei ragazzi, dopo che loro mi
avevano dato tanto. Ma ciò che veramente contava era il
ricordo della serata e ciò che aveva lasciato moralmente ed
emotivamente a ognuno di noi.
Salutai tutti con un
abbraccio.
“Sei una persona
d'oro” mormorò Claire mentre la stringevo a me.
“Grazie per essere
stato con noi, è stato un onore” mi disse invece Derek.
Erano troppo buoni con me.
Quando mi allontanai per
tornare alla macchina, che avevo parcheggiato chissà dove,
percepii subito un gran vuoto dentro di me. Improvvisamente anche il
vento che mi si scontrava addosso pareva più freddo.
Mentre camminavo per la via
dalla quale ero venuto, ormai quasi deserta, infilai una mano in
tasca e tastai il foglio con la poesia di Gatha e il tappo della
bottiglietta offertami, che avevo deciso di conservare. Mi sentii
subito meglio.
Fratello,
spero ti sia piaciuta la festa che abbiamo organizzato per te.
Mi
manchi. Ci manchi.
♣
♣ ♣
Eccomi
qui, al termine di questo folle esperimento.
Non
so cosa mi sia preso, non lo so.
L'ispirazione,
forse, è nata quando ho guardato per intero il memorial di
Chester all'Hollywood Bowl, e ho sentito Mike che parlava e cantava.
Ci ha messo talmente tanta passione che mi ha emozionato come poche
volte mi è capitato.
È
per questo che ho deciso di dedicargli questa storia.
Nonostante
l'argomento centrale sia Chester, ho scritto questo racconto per Mike
e la sua sorprendente dolcezza.
Piccola
nota sulla poesia di Gatha: quei versi li ho scritti io, in quattro e
quattr'otto (mi sembrava carino inserire ciò che lei ha letto,
e non semplicemente menzionarlo) ^^
Grazie
a chiunque sia giunto fin qui e avrà il coraggio di
commentare. Io – ve lo confesso – non so proprio che dire
XD
Grazie
ancora, e spero a presto!!! ♥
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