Nella sala del consiglio della
fortezza, Artù ed i suoi uomini aspettavano con impazienza l’arrivo di Germanus
con le carte di affrancamento che li avrebbero resi finalmente liberi. Erano in
piedi, ognuno accanto al proprio seggio;
questo faceva notare ancora di più l’impressionante numero di posti vuoti,
appartenuti ai cavalieri che non erano sopravvissuti. L’atmosfera di euforia
per l’imminente liberazione era velata di malinconia al pensiero di coloro che
non ce l’avevano fatta a vedere quel giorno tanto atteso.
I cardini della porta cigolarono
e sulla soglia apparve Horton. Dietro di lui stava il vescovo e, a rispettosa
distanza, lo scudiero Jols.
“Sua Eminenza il vescovo
Germanus!” annunciò con sussiego il segretario. Il vescovo avanzò sorridendo,
ma si arrestò immediatamente con un’espressione contrariata sul volto quando
vide che la tavola attorno alla quale tutti sedevano era rotonda.
“Cosa significa questo?” chiese
aspramente Horton a Jols, “Artù aveva detto che il vescovo avrebbe potuto
sedersi al posto d’onore.”
“Artù ha detto semplicemente che
avrebbe potuto scegliere il posto che avesse preferito” ribatté con calma lo
scudiero, nascondendo un sorriso. “Per lui gli uomini sono tutti uguali ed è
per questo che ha voluto un tavolo di questa forma.”
Artù diede il benvenuto a
Germanus, poi gli fece cenno di scegliersi un seggio. Il vescovo si guardò
intorno, celando a malapena il malcontento, poi decise di prendere posto
accanto al comandante.
“Mi era stato dato ad intendere
che foste molti di più.” disse, osservando i tanti sedili vuoti.
Un’ombra improvvisa scese sul
volto di Artù al ricordo dei suoi uomini morti nell’adempimento del loro
dovere. Gli occhi di Lancillotto scintillarono di collera e trattenne a fatica
una risposta brusca. Un messaggio silenzioso passò negli sguardi di Bors e
Dagonet e di Galahad e Gawain che erano vicini. Come osava questo arrogante e
cerimonioso figlio di Roma parlare con tale disprezzo dei loro compagni
perduti?
Tristano non sembrò accennare
alcuna reazione, ma il fatto che, senza attendere il permesso del vescovo, si
fosse già seduto e stesse fissando con ostentazione la coppa che gli era stata
data per brindare alla libertà la dicevano lunga su ciò che gli passava per la
mente.
“Sono quindici anni che
combattiamo al servizio di Roma” spiegò Artù malinconicamente, “All’inizio
eravamo molti di più ed io li avevo scelti personalmente uno per uno per le
loro caratteristiche. Ho giurato che non avrei mai sostituito un cavaliere
caduto in battaglia: per me ognuno di loro è sempre stato unico e perciò
insostituibile.”
Il vescovo parve rendersi conto
della propria indelicatezza e cambiò subito argomento.
“Allora non resta che brindare a
voi, cavalieri, che avete servito con dedizione ed impegno l’Impero in queste
terre tanto perigliose. Roma è in debito con voi.” esclamò, facendo cenno ad
Horton di introdurre due legionari con un barilotto di vino. Poi lo stesso
segretario e Jols iniziarono a riempire le coppe dei guerrieri.
Fu il vescovo a proclamare il
brindisi.
“A voi, nobili cavalieri. Al
vostro valore e ai vostri ultimi giorni al servizio di Roma!”
“Giorno!” precisò Lancillotto,
guardando Germanus con sospetto prima di portarsi la coppa alle labbra.
“Giorno, non giorni.”
“Certamente, certamente… Ora
sedete” continuò il vescovo, fingendo di non accorgersi che Tristano si era già
accomodato da un pezzo. “Sapete, il Santo Padre è molto orgoglioso di voi e mi
ha chiesto di informarlo dettagliatamente su ciascuno.”
“E a che proposito?” domandò
Artù, vagamente preoccupato.
“Naturalmente, il Santo Padre
desidera sapere se voi cavalieri vi siete convertiti al Verbo del Nostro
Salvatore o se invece…”
“I miei uomini professano ancora
la fede dei loro padri ed è una scelta che rispetto.” tagliò corto Artù.
“Ah, certo, sono pagani.” replicò
Germanus, sputando l’ultima parola come se fosse un boccone disgustoso.
Bors, Dagonet e Gawain scossero
il capo guardandosi l’un l’altro con un sorrisetto ironico, mentre Lancillotto
piantava uno sguardo di fuoco contro il Romano. Solo Galahad appariva realmente
offeso e si agitò sulla sedia come per trattenere a stento una reazione
violenta. Fra tutti i cavalieri, il più giovane era anche quello più
profondamente legato alle tradizioni del suo Paese e non tollerava di sentirne
parlare con così sprezzante leggerezza.
“Ma tu, piuttosto, Artù… La tua
guida spirituale è forse Pelagius? Nella tua stanza ho visto una sua effigie.”
“Pelagius è stato come un padre
per me e i suoi insegnamenti sull’uguaglianza ed il libero arbitrio sono stati
fondamentali per la mia vita. Sono impaziente di ritrovarlo a Roma.”
L’entusiasmo e l’affetto del
comandante dei Sarmati era evidente. Germanus, però, si affrettò a cambiare
nuovamente discorso.
“E Roma attende con ansia il tuo
arrivo. Sei un eroe per tutti e trascorrerai il resto della vita fra onori e
ricchezze” disse. Poi si rivolse ai cavalieri, aprendo la scatola intarsiata
che conteneva un fascio di rotoli: “Ecco la vostra ricompensa: il lasciapassare
che vi permetterà di attraversare ogni parte dell’Impero e di recarvi in patria
o dovunque vorrete. Purtroppo, però… Noi non siamo che pedine in un mondo
sempre più calamitoso. I barbari sono ovunque e stanno minacciando da presso la
nostra stessa Città. Perciò Roma ed il Santo Padre hanno deciso di abbandonare
gli avamposti più indifendibili, come la Britannia. Il suo destino non ci
riguarda più; immagino che cadrà in mano ai Sassoni.”
I volti dei cavalieri, che si
erano illuminati alla vista delle preziose carte, si incupirono subito.
“Sassoni?” chiese Artù.
“Sì. Nel Nord del Paese è
iniziata una massiccia invasione.” spiegò il vescovo con indifferenza.
“I Sassoni si impadroniscono solo
di ciò che distruggono!” intervenne Lancillotto, che evidentemente aveva
sopportato abbastanza.
“E distruggono tutto.” aggiunse
Gawain in tono grave.
“Volete dire che in tutti questi
anni io avrei rischiato ogni giorno la mia vita per niente?” si infiammò
Galahad. “Per lasciare la Britannia in mano ai Sassoni e ai Woad?”
“È così.” concluse Germanus
“Comunque voi cavalieri avrete le vostre carte di congedo. Ma prima vorrei
scambiare due parole con il vostro comandante.”
Nessuno degli uomini si mosse.
Gli occhi di tutti erano fissi sui preziosi rotoli.
“In privato!” precisò il vescovo
con fredda determinazione.
“Io non ho segreti per i miei
uomini.” cercò di rimediare Artù, ma il Romano, rivolgendo ai guerrieri uno
sguardo gelido, richiuse con ostentazione la scatola che conteneva i
lasciapassare. Come si permettevano quei barbari pagani di disobbedire ai suoi
ordini?
Capita l’antifona, Lancillotto si
alzò con un sorriso amaro.
“Andiamocene, amici. Lasciamo gli
affari di Roma ai Romani!”
Lentamente e lanciando sguardi
diffidenti a Germanus, anche gli altri cavalieri lasciarono la sala.
Poco più tardi gli uomini di Artù
erano riuniti nel cortile più vasto della fortezza, vicino ad un grande fuoco.
Cercavano di dimenticare il brutto presentimento avvertito di fronte al vescovo
e di spassarsela pensando alla libertà così vicina. Lancillotto giocava ai dadi
con due sentinelle romane e di tanto in tanto stuzzicava la bella Vanora, la
donna di Bors, che alla fine lo colpì con uno schiaffone e raggiunse il suo
uomo che stava cullando tra le braccia il loro ultimo nato.
Gawain e Galahad si sfidavano a
lanciare i loro pugnali contro un bersaglio. Per primo toccò a Gawain che poi
si sedette ad un tavolo vicino con un boccale di vino in mano e una bella
fanciulla dai lunghi capelli rossi al fianco, aspettando di vedere di che cosa
era capace il ragazzino. Galahad lanciò per secondo e colpì piuttosto al di
sotto rispetto al compagno, ma il suo pugnale si era appena conficcato nel
legno quando un terzo pugnale sfrecciò nell’aria e andò a piantarsi proprio in
quello del giovane. Galahad si voltò stupito e vide Tristano, che fino a quel
momento se ne era stato tranquillo a mangiare una mela, guardando gli altri che
si divertivano ma senza partecipare alla loro allegria. A quanto pareva, però,
non aveva resistito alla tentazione di mostrare ancora una volta la sua abilità
senza pari.
“Accidenti, Tristano, ma come hai
fatto?” esclamò Gawain.
“Ho mirato al centro.” rispose
semplicemente lui, come se stesse spiegando qualcosa di ovvio a dei bambini.
Galahad si ritrovò a fissarlo
ammirato. Era raro che Tristano partecipasse ai loro divertimenti, ma quando lo
faceva lasciava il segno. Si ritrovò, suo malgrado, a pensare che, fin da
quando era entrato nella compagnia dei guerrieri di Artù, era stato Tristano il
suo modello, il cavaliere che sarebbe voluto diventare. Alto e fiero,
abilissimo esploratore anche nelle situazioni più pericolose, arciere
prodigioso, il guerriero possedeva una destrezza tutta particolare nel duello
corpo a corpo: con la sua sciabola affilatissima era in grado di avere la
meglio anche in mezzo a decine di nemici senza mai perdere la compostezza e
l’eleganza dei movimenti. Il suo modo di combattere ricordava quello di un
felino, pareva una danza sinuosa e letale. Il giovane cominciava a pensare che,
per capacità se non per forza fisica, Tristano fosse il cavaliere più abile di
tutti, persino dello stesso Artù o di Lancillotto. Inoltre, particolare che per
Galahad era importantissimo, incarnava il perfetto eroe sarmata. Diversamente
da Bors, Lancillotto o Dagonet, Tristano non si era ‘britannizzato’ nemmeno
nell’aspetto: i suoi abiti, le sue armi, l’armatura e il modo di portare i
capelli, lunghi fino alla base del collo e intrecciati secondo l’uso della loro
terra e infine i due tatuaggi azzurri che aveva sulle guance lo rendevano un
perfetto esponente della gloriosa stirpe degli invincibili cavalieri sarmati.
Nell’euforia e nella gioia che
provava alla prospettiva di ritrovarsi presto libero ed in viaggio per fare
ritorno in patria, Galahad sentì una piccola fitta di… cosa? Dolore? Nostalgia?
Non avrebbe saputo spiegarlo, ma quel sentimento strano aveva a che fare con
Tristano e con la prospettiva, forse, di non rivederlo più, di non combattere
più al suo fianco. Non sapeva se anche lui avrebbe scelto di tornare in
Sarmazia e, in ogni caso, quante probabilità c’erano che si ritrovassero in villaggi
vicini? Quel pensiero gli si insinuò in testa e, per quanti sforzi facesse, gli
impedì di godersi appieno gli scherzi e i divertimenti degli amici da
quell’istante in poi.