Floating
hearts
La nuvola di fumo si disperse nell’aria, scomparendo leggera,
impalpabile, agguantata dall’oscurità che sembrava
ferita dalla scia giallognola delle lampade sopra la sua testa. Le
osservò un istante, uno solo, poi tornò a
guardare la porta davanti a sé.
Sentì
in lontananza dei colpi di pistola, infine tutto tornò
immobile, rarefatto in quel frammento di tempo apparentemente
insignificante. Espirò un’ultima boccata,
socchiuse l’occhio, poi ripose la pipa nella tasca interna
della giacca lunga, leggera, troppo per il clima non riscaldato dalla
luce solare diretta dell’inverno.
“Qui
abbiamo concluso, Shinsuke-sama.” Annunciò una
voce femminile alle sue spalle.
Matako. In
mano, aveva ancora la pistole fumanti.
“Gli
altri?” domandò l’uomo.
Matako Kijima,
ufficiale in seconda del Movimento di Restaurazione, fissò
il suo leader, l’uomo che più ammirava e... amava,
al di sopra di ogni altra persona al mondo. Scorse
un’espressione vagamente distante, come se si stesse gustando
il momento ma, allo stesso tempo, desiderasse essere già
altrove.
Shinsuke
Takasugi, d’altronde, non era mai stato veramente
lì. Perché quando tutti loro credevano di averlo
già raggiunto, la sua mente era già proiettata
avanti, verso la prossima mossa, prevedendo le vide di fuga dopo
un’azione spericolata; anche quando sembrava essere disposto
a far saltare tutti in aria, se stesso, i propri uomini, come i nemici,
finiva sempre per possedere un piano di riserva.
Quello,
diceva, lo aveva imparato a proprio discapito da un amico. Un
tempo era molto più arrabbiato, irrazionale, folle; adesso
possedeva ancora tutte quelle cose, altrimenti non sarebbe arrivato
lì: in un certo senso continuava a rischiare la vita, a
sembrare non tenere affatto a ritornare – e probabilmente era
così – ma aveva compreso nel tempo che una guerra
contro un sistema non si combatteva da solo. E Matako, come i suoi
compagni più stretti, sapeva quanto accidenti avesse
impiegato Shinsuke-sama a fidarsi di loro, dopo aver subito il
tradimento dalla persona a cui, anni fa, avrebbe affidato invece la sua
stessa vita.
“Bansai
sta tenendo occupati i Miliziani degli Aerei, Takechi sta gestendo i
sistemi di sicurezza. Possiamo prendere l’ascensore che ci
porterà fin su.”
Takasugi non
disse nulla, limitandosi a voltarsi verso il grande portellone che
pochi istanti dopo si aprì in un clangore metallico.
Oltrepassò la soglia e si girò, sgranando
lentamente l’occhio quando vide Kijima avvicinarsi per
entrare.
Sembrò
quasi sorriderle, un sorriso contorto e folle, nel momento in cui la
sospinse, ricacciandola indietro. Vide lo sguardo della donna, ferito e
sorpreso, i suoi passi nel terreno secco, due, forse tre, il tempo di
indietreggiare un istante per ritrovare l’equilibrio.
“No.”
Le disse
soltanto.
Scorse alle
sue spalle dei raggi di luce, pochi, giusto spiragli sporadici che
riuscivano a passare oltre le immense strutture metalliche che da
secoli sorgevano sopra le loro teste. Gli sembrò di vedere
della polvere fluttuare, antica, forse era terra che tentava di
sfuggire dalla morsa di buio a cui era stata condannata. Poi gli occhi
di lei, sembrò capire e realizzare che...
l’avrebbe lasciata indietro:
“Shinsuke-sama!
Devo proteggerla!”
Cercò
di correre, ma poté solo detestare le porte pesanti
metalliche che si chiusero davanti a lei.
Si morse un
labbro, urlò, di rabbia, per non averlo capito, per aver
pensato che, dopo tutti quegli anni, davvero il loro leader avrebbe
permesso di accompagnarla in quella missione suicida.
Provò
in qualche forma a richiamare quell’aggeggio meccanico, a
farsi aprire le porte, tirò persino qualche calcio, ma oltre
agli echi sordi dei suoi colpi non ci fu altro che silenzio e
immobilità snervante. Così, alla donna non rimase
altro che accettare l’inevitabile; si appoggiò con
la schiena sulla parete di robusto acciaio per poi rinfoderare le
pistole e torturarsi un labbro.
Vide venirle
incontro Bansai, con l’arma rinfoderata messa dietro la
schiena e addosso gli occhiali scuri, per evitare qualunque contatto
con gli spiragli di sole; iridi non abituate ed esposte troppo a lungo
rischiavano infatti di venirne bruciate. A Takasugi era andata bene, da
dopo quel giorno aveva perso solo l’occhio sinistro,
l’altro aveva diminuito delle diottrie ma la cornea non era
stata danneggiata.
“È
salito da solo?” domandò l’uomo,
aggiustandosi un auricolare per le comunicazioni.
“Mi
sembra ovvio! Lo vedi qui con me?” replicò la
donna, stizzita. Fu tentata di aggiungere altro, sull’onda
della rabbia per vedere quello stronzo di Bansai così calmo,
come se tutto fosse straordinariamente sotto controllo, ma si
trattenne, schioccando invece la lingua per poi guardare altrove.
Bansai aveva
sollevato lo sguardo, ripercorrendo con occhi attenti
l’immenso cilindro in ferro che si stagliava per migliaia di
metri in altezza, sfidando le vette, con la sua struttura dal basamento
piantato nella terra, in modo da reggere anche eventuali scosse di
terremoto. Alla fine di quel tunnel verticale c’era qualcosa
che secoli fa sarebbe stato scontato anche per loro, Terrestri, da
vedere: il cielo.
Il sole, sulla
pelle, il sole che rigenerava e non accecava occhi poco abituati.
L’aria non soffocante, invece ormai troppo rarefatta per i
loro polmoni disabituati alle quote elevate.
Enormi
pavimenti d’acciaio e cavi collegavano infiniti altri
cilindri, strutture, case, bloccando ogni accesso a chi, come loro, era
nato sulla Terra e lì rimaneva, schiavo, indebolito da una
genetica non pensata per evolvere in simili condizioni; mentre gli
Aerei, là sopra, con il loro sole, le loro piogge e il vento
vivevano, soffocandoli.
“Piazziamo
gli esplosivi, Takechi li connetterà al sistema di comando
hackerato, in tempo per quando Takasugi avrà chiuso i
condotti.”
“Lo
so quello che c’è da fare.”
sbottò Kijima, per poi rimboccarsi le maniche della divisa
scura, simbolo del loro ormai decennale Movimento di Restaurazione.
Ogni tanto le
sembrava assurdo che si dessero tutto quel da fare per far saltare in
aria quei colossi di metallo, allo scopo non solo di destabilizzare il
sistema, ma anche di lasciare spazio ai raggi di sole per passare fino
a lì, in quel posto dimenticato dagli Dei, considerando che
probabilmente avrebbero finito per venirne accecati, bruciati,
torturati.
Ma non era per
loro. Non era mai stato per chi si trovava ancora sulla Terra,
bensì per chi avrebbe vissuto dopo, sicuramente
più adatto a ricevere ciò che a loro era stato
negato.
Per questo
piazzò con una certa sicurezza di sé la prima
delle cariche, anche se gli occhi erano lucidi – dannazione, non si sarebbe mai
fatta vedere così da quel deficiente di Bansai
– al pensiero che Shinsuke-sama forse non sarebbe mai uscito
da quella torre, per assistere a quella vita dopo di loro.
*
Il ronzio dei
cavi e della struttura dell’ascensore che risaliva era in
qualche modo rilassante nella sua ripetitività. Ma a
Takasugi non piaceva; odiava le cose che si ripetevano, gli facevano
venire voglia di intervenire e sballarle totalmente dal percorso
precostituito: la gente, esattamente come quell’ascensore, si
adagiava nel rifare sempre gli stessi gesti e si annichiliva, perdendo
la voglia di uscire dal loro personale tunnel di noia.
Tirò
fuori la pipa, la accesse e aspirò una prima boccata; aveva
un braccio fuori dalla manica del lungo giaccone nero, appoggiato nello
spacco frontale coi bottoni dorati aperti. Lui ancora portava quella
divisa, non se n’era separato, nonostante in alcuni punti
fosse rammendata e la pelle nera un tempo opaca fosse usurata. Non
perché ci fosse affezionato, l’attaccamento alle
cose e alle persone era una cosa che aveva smesso di provare da tempo,
bensì perché voleva arrivare alla fine di quel
percorso lungo, sfiancante, fastidioso e distruggerla assieme a tutto
il resto.
Lui non aveva
dimenticato.
Con uno scatto
improvviso, poi, l’ascensore si fermò. Era
arrivato.
Chiuse
l’occhio ancora sano e sentì che la lente interna
protettiva era a posto. Non lo faceva vedere meglio, ogni tanto la
vista era sfocata, ma avrebbe evitato di bruciarsi la cornea; non
poteva infatti permettersi di essere totalmente cieco, per quanto
detestasse doversi adattare alle leggi dettate da quei parassiti che
infestavano il cielo.
“Aerei.”
Mormorò
oltre le labbra sottili, piegate in una smorfia crudele.
La pipa si
spense. Gettò la cenere, poi la ripose nella tasca. Le porte
lentamente si aprirono e Takasugi, in quell’istante, venne
investito dalla luce.
Era calda,
sulla pelle del viso e delle mani, l’aria sapeva di cielo, di
nuvole che ogni tanto sfioravano le abitazioni e gli edifici;
udì qualcosa, un verso lontano, di animali e di vita che
riecheggiava nelle sue orecchie abituate al silenzio di tutte le cose
lasciate morire.
Ricordò
quando ancora c’erano degli spicchi di sole e loro, da
bambini, sulla Terra andavano a sdraiarsi nel prato verde macchiato
dalla luce; poco, prima di iniziare a soffrire per gli eritemi provocati
dall’eccessiva esposizione. Ricordò la pioggia,
sulla pelle, gli adulti e i bambini che l’andavano a
raccogliere in contenitori di fortuna, sguazzando nelle pozzanghere
prima che venissero assorbite dalla terra disidratata e arida.
Udì
poi dei passi. Lenti, persino strascicati, ma in qualche modo decisi.
Afferrò
la spada portata al suo fianco, lasciò alla sua pupilla il
tempo di abituarsi e cominciò a distinguere i contorni di
ciò che aveva davanti a sé. Non aveva molto prima
che la lente procurata da Takechi si consumasse.
Assieme al
resto degli edifici e delle strade che si dipanavano davanti a lui,
scorse chi era avanzato di fronte, a pochi metri di distanza.
“Gintoki.”
Parlò con aperto disprezzo e una sorta di ironia cattiva.
Pronunciare il suo nome, però, gli era pesato più
di quanto avesse creduto; il lascito dei ricordi, oltre alla rabbia,
gli procurava una fastidiosa nostalgia che gli faceva venire voglia di
ucciderlo.
Lo scorse
sorridere, con quegli occhi apparentemente vacui, troppo rilassati.
“Takasugi
– sembrava ironico – non dirmi che hai fatto tutta
questa strada per venirmi a trovare?”
Si
grattò un orecchio, per poi aggiungere: “Non mi
hanno ancora pagato dall’ultimo lavoro di disinfestazione, la
vecchia dice che mi scala i soldi dall’affitto, quindi non ho
nulla da offrirti. Puoi comprarmi un parfait alla gelateria, se
vuoi.”
“Taci!
– esclamò Takasugi, estraendo la spada per
puntargliela contro – Non sono qui per te, anche se sarai
parte del magnifico spettacolo che ho intenzione di condurre. Ti
trascinerò a fondo, Gintoki, proprio come un tempo, quando
sguazzavamo nel fango.”
Sgranò
l’occhio e sorrise, un sorriso storto, persino folle. Non gli
dette nemmeno tempo di parlare, aveva il vizio di farlo troppo e un
tempo, anni fa, lui era cascato in quelle parole. Si era fidato e tutto
ciò che aveva ottenuto era stato un tradimento, per il quale
l’occhio sinistro era stato solo un segno, un monito per
tutte le volte in cui aveva pensato che la vita valesse ancora qualcosa.
Con uno
slancio rapido, nonostante la quota elevata che poteva dare alla testa,
Takasugi menò un fendente trasversale con la katana. Quella
volta Gintoki non parlò, ma gli occhi divennero attenti,
perdendo quell’aura di pigra indifferenza che li
caratterizzava.
Tirò
fuori la sua patetica spada in legno, il cui valore Takasugi lo capiva
anche troppo bene; uno degli ultimi alberi che ancora crescevano sulla
Terra era morto, dieci anni fa: quand’era successo, Gintoki
aveva usato il suo legno per costruirsi spada.
Così
in cielo rimarrà ancora qualcosa, di questa stupida terra.
Erano state
quellee parole a convincere Takasugi, allora, a intraprendere la
ribellione e a credere in Gintoki.
“Sarà
un piacere ammazzarti e bruciare quella spada dopo avertela conficcata
nel petto!”
Esclamò
Takasugi, deviando un fendente per poi scagliare un ulteriore affondo,
più violento.
“Avanti,
perché devi essere sempre così scenografico,
Takasugi? Sei sempre stato uno a cui piace complicarsi la vita.
Comunque – precisò, difendendosi, per poi scorgere
un’apertura nella difesa dell’altro – a
me sguazzare nel fango piace!”
Lo
colpì allo sterno, girando l’elsa con un movimento
rapido.
Takasugi
rigettò aria, sentendo i polmoni già ubriachi
d’ossigeno svuotarsi, per poi indietreggiare di qualche
passo. Ma non fu impreparato perché slanciò la
katana, allungando il braccio; finì per tagliare qualche
capello di Gintoki che s’involò
nell’aria.
Quei capelli
argentati, scoloriti e sbiaditi dal sole, quando un tempo, da bambini,
erano scuri esattamente come i suoi. Anche gli occhi, una volta
castani, per via del raggi solari avevano assunto un colore rossastro
dell’iride; era solo questione di abitudine, anche le vecchie
cicatrici degli eritemi subiti lo erano.
La lama della
katana, ferma, sfiorava il collo pulsante di vita
dell’avversario.
Takasugi
avvertì però la punta del bokken di Gintoki
premere proprio all’altezza dello sterno. Un affondo ben
bilanciato e glielo avrebbe sfondato.
Tanto meglio,
potevano anche morire assieme, pur di vederlo crepare. Avrebbe avuto
ancora le forze per far saltare i collegamenti con le altre cisterne e
scorgere l’esplosione di quel posto, con tutti gli Aerei che
lo abitavano.
“Non
ho intenzione di ucciderti, Shinsuke – gli disse
all’improvviso Gintoki, fissandolo – né
farti ammazzare le persone di questo distretto. Hanno degli ottimi
dolci, il latte alla fragola è buono, la ragazza delle
previsioni è molto carina e ho due dipendenti, mica posso
lasciarli senza lavoro, sono giovani, senza di me sarebbero allo
sbando.”
Replicò
assumendo una finta aria di maturità, caricando le sue
parole di un dramma inesistente, accompagnate dalla bellezza in parte
ironica, in parte nostalgica dello sguardo.
Takasugi
serrò le mani attorno alla katana. Strinse i denti, provando
l’impulso di afferrarlo per il collo e stringerglielo.
“Perché?
– sussurrò, quasi in un ringhio –
perché ti sei messo dalla loro parte? Sono solo patetici e
schifosi Aerei. Loro ci hanno reso quello che siamo! Ci hanno tolto il
sole, uccidendo la nostra gente e la nostra terra! Devono morire e tu
con loro perché li hai scelti, cinque anni fa!”
Ma prima di
poter muovere la spada, non disposto in realtà ad asoltare
una vera risposta, anche se... sì, forse una risposta la
cercava, Gintoki sollevò la mano e afferrò la
lama del compagno di un tempo, impedendo che essa affondasse nel suo
collo. Ritrasse la propria spada e dette una spinta a Takasugi, senza
lasciare la katana di quest’ultimo nonostante il sangue, per
poi schiantarlo contro la parete in metallo dell’ascensore.
Attraverso la
struttura di metallo si udirono riecheggiare degli allarmi distanti.
Il volto di
Takasugi fu trionfante, distorto dalla rabbia, nonostante il viso di
Gintoki, a pochi millimetri dal suo, lo sovrastasse in altezza.
“È
tardi.”
Ritrasse la
katana, piegando il braccio per la scarsità di spazio: il
sangue dell’altro gli gocciolò addosso e
sentì che gli piacque, gli dette soddisfazione. Gli
portò la mano al collo, per affondare le dita nella sua
trachea e spezzargliela.
Gintoki
sembrò lasciarglielo fare, mentre la mano ferita era
appoggiata sul braccio di Takasugi.
“Il
distretto in cui vivo, questo distretto – cominciò
a dire all’improvviso, con un mezzo sorriso e il respiro
più difficile – è un posto pieno di
stupidi che si spaccano la schiena a lavorare i campi con la nostra
terra raccolta, venivano frustati, un tempo, perché in fondo
il terreno è più sterile. Abbiamo combattuto,
fianco a fianco, per impedire che la Milizia li punisse ancora. Hanno
finito per raccogliersi qui i reietti, le prostitute, i braccianti, gli
squallidi proprietari di bar o di chioschi di ramen. I rifiuti della
società; come me, persino come te, Takasugi.
Non
è uccidendo loro che la Terra riavrà il sole,
saremmo uguali a chi voleva frustare i contadini, incolpandoli della
vita incapace di crescere in una terra che non appartiene al cielo, ti
pare?”
Taksugi
strinse di più le dita. Lo detestava, detestava quelle
parole. All’improvviso Gintoki lo afferrò a sua
volta per il collo e aggiunse: “Combatterò
finché avrò vita, per proteggerli. So che puoi
capire il mio discorso, ora. Altrimenti non saresti venuto fin
quassù da solo.”
Taksugi si
bloccò, annaspando brevemente. La testa era leggera per via
dell’ossigeno e, allo stesso tempo, l’aria faceva
comunque fatica a passare; la stretta di Gintoki, il suo respiro
addosso, che sapeva ancora di qualcosa di dolce, come se non avesse
mangiato altro in vita sua, i capelli argentati che, un tempo, gli
avevano solleticato le guance quando...
Doveva far
saltare i collegamenti. In quel modo, l’acqua contenuta nella
cisterna, una delle più importanti perché
alimentava i campi del distretto agricolo, non avrebbe potuto passare
nelle canaline d’emergenza per venire depositata nelle
cisterne ausiliarie, pensate proprio in quei casi d’emergenza.
Al contrario,
sarebbe schizzata nel cielo assieme ai metalli e alle fiamme,
vaporizzata, perduta per sempre. Qualche goccia sopravvissuta, forse,
sarebbe atterrata fin nella terra arida a migliaia di metri
più in basso.
Morite.
Tutti.
Lasciò
andare la katana, consapevole di non aver spazio di manovra, per poi
riuscire a sollevare un ginocchio e affondarlo nello stomaco di Gintoki
che tossì, incavandosi appena per il colpo. Nonostante
questo però, l’uomo dai capelli argentati non lo
lasciò, ma fece a sua volta cadere la spada in legno
– stupido,
stupido samurai troppo corretto – per tirargli
un pugno in faccia. Takasugi faticò a vederlo arrivare, per
via dell’occhio cieco che gli impedì di calcolare
correttamente le distanze, quindi non riuscì a difendersi
quando sentì le nocche dell’altro cozzare contro
la propria mascella. Avvertì un labbro spaccarsi.
Non parlarono
più, inziando a colpirsi, ma facevano entrambi fatica a
schivare, finendo per ferirsi soltanto di più e annaspare a
ogni colpo.
Caddero sulle
ginocchia, tenendosi ancora rispettivamente per il bavero della giacca
e della maglia larga di Gintoki; Taksugi sentiva di non riuscire a
reggersi ancora a lungo, ma avrebbe comunque trascinato Sakata con
sé, fin nell’inferno più profondo.
Riecheggiarono
dal basso della struttura dei gorgoglii tremendi, il metallo
sembrò persino piangere.
Le cariche
dovevano aver cominciato a detonare.
Sentì
un rumore di passi. Spostò lo sguardo alle spalle di Gintoki
che, invece, continuava a fissarlo, con un occhio pesto mezzo chiuso.
Scorse un
gruppo di uomini e donne, armati di forconi, qualcuno di vanghe, la
pelle scurita dal sole, a tratti rugosa; c’erano anche
persone apparentemente più curate ma in qualche modo
eccessive, nei trucchi e negli abiti in realtà usati. Poi
qualche bambino che impugnava delle spade di legno e degli anziani.
Gente di ogni
tipologia, accorsa in un gruppo compatto e determinato. Sembrava pronta
a difendere quello stupido uomo che invece Takasugi avrebbe voluto
uccidere; un tempo, rifletté in un pensiero rapido, lui
sarebbe stato tra quelle persone.
“Gin!
Ci avevi detto di lasciarti fare, ma non possiamo più stare
a guardare! Hai fatto anche troppo, ora ci pensiamo noi!”
Aveva gridato
uno dei contadini, avanzando di un passo.
Gintoki mosse
un braccio, non si voltò ma ribadì:
“Lo
so, lo fate apposta per concludere il lavoro e non pagarmi. So che le
provate tutte per non sganciare soldi, madao contadini, la prossima
volta ci penserò due volte prima di accettare un altro
incarico sottopagato – accennò un sorriso
– facciamo che concludo io qui, poi voi mi offrite un pranzo
e un bagno nel latte di fragola.”
Spostò
una gamba, stringendo un istante i denti per lo sforzo di alzarsi in
piedi. La mano di Takasugi perse la presa e lui lottò per
non crollare ai piedi dell’altro che, invece, gli
afferrò la giacca per non farlo cadere.
“Shinpachi
e Kagura stanno bene?” domandò Gintoki, rivolto
alla gente alle sue spalle.
“Stanno
trattenendo la Milizia Imperiale, assieme agli altri. I miliziani
volevano entrare perché hanno saputo dell’attacco
del Movimento alla cisterna, ma glielo abbiamo impedito.”
Rispose l’uomo.
“Bene.”
Disse semplicemente Gintoki.
Takasugi lo
fissò. Mosse una mano per cercare la katana, per poi
rendersi conto che era metri più indietro.
L’uomo
lo sollevò in piedi e Takasugi gli artigliò la
maglia. Anni fa era così che...
“Andate
ad aiutare gli altri. Come vi ho detto, qui ci penso io. Preparate il
latte alla fragola, voglio berlo fino a fare indigestione.”
“Ma...”
fece per protestare qualcuno, però spinto dagli altri
finì per accettare. Takasugi scorse il gruppetto
retrocedere, con la vista un po’ sfocata che non sembrava
ristabilirsi.
“Ti
ammazzerò, fosse l’ultima cosa che
faccio.” Rantolò Takasugi.
Si sentirono
nuove esplosioni, il pavimento tremò appena, ma non finirono
sbilanciati.
“No,
dai, spero farai qualcos’altro, prima. Passeranno un sacco
d’anni prima che tu riesca veramente a uccidermi, dovrai
trovare il modo di tenerti occupato – gli portò un
braccio alla vita e issò quello dell’altro sopra
le spalle, trascinando Takasugi all’improvviso lontano dalla
porta – e non puoi nemmeno morire. Hai la pellaccia dura, con
tutti i casini che hai combinato in questi anni saresti dovuto crepare
già da tempo.”
Shinsuke fece
per muoversi, in modo da impedire a Sakata di agire, o di toccarlo, ma
i suoi muscoli si rifiutarono di obbedire. Cominciò a vedere
delle sfumature nere al bordo degli occhi; per un attimo, credette di
star diventando cieco, poi realizzò che stava svenendo.
Scorse le
gambe di Gintoki tremare appena e il sangue che aveva imbrattato
entrambi grondare dalla ferita. Faceva lo spavaldo come al suo solito,
ma nemmeno lui era messo tanto meglio.
“Che
discorsi stupidi fai.” Mormorò, annaspando aria.
Finirono per
cadere con le spalle contro uno dei bassi edifici che circondavano il
cilindro, con in cima la cisterna.
Presto sarebbe
esplosa, Takasugi sentì infatti la terra metallica tremare e
un ruggito distante. Ma senza quel collegamento saltato non sarebbe
cambiato nulla, l’acqua sarebbe convogliata da altre parti;
tutto quegli sforzi, solo per avere un raggio di sole in
più. Un tempo, forse gli sarebbe andato bene pure quello.
Con gli anni era diventato egoista.
Ansimarono
entrambi, con la schiena contro la parete. Gintoki aveva continuato a
stringerlo e... a Takasugi andò bene, come un tempo gli era
andato bene il raggio di sole. Oltre che egoista, follemente
arrabbiato, forse stava diventando nuovamente attaccato a sentimenti
che credeva di aver distrutto.
“Quella
volta di cinque anni fa...”
“Sta’
zitto.” Sbottò Takasugi. Allungo a tentoni un
braccio per prendere la pipa.
“...
saresti morto se non ti avessi trascinato via. Non avresti ottenuto un
bel nulla. Ci hai rimesso un occhio perché siamo corsi a
lungo sotto la luce del sole, io ho delle cicatrici che mi causano
ancora un prurito pazzesco, peggio di quando Sadaharu ha le pulci.
Ma non lo
rimpiango, anche se tu non me lo perdonerai mai: ora infatti... abbiamo
trovato entrambi delle persone da proteggere, oltre a noi.”
Takasugi
voltò la testa, con espressione arrabbiata e stanca. Ma...
vide che Gintoki aveva chiuso gli occhi, appoggiando il capo contro la
parete, mentre la bocca era rimasta legermente aperta.
Suo malgrado,
il ribelle scorse il petto dell’altro alzarsi e abbasarsi.
Era vivo, ma svenuto.
Trovò
la pipa. La mise in bocca e con un gesto lento se la accese.
Poi ci fu
l’esplosione.
Il portellone,
così come il metallo della gigantesca struttura alle loro
spalle, saltò in aria, involandosi in pieghe contorte nel
cielo, per poi atterrare sui pavimenti in ferro in tante scintille.
L’acqua che non era defluita verso le canaline
d’emergenza schizzò nel cielo, fuochi
d’artificio lucidi, stelle trasparenti che riflettevano la
luce del sole.
Si
aprì una voragine nel metallo fuso ancora rovente, tra il
fumo e i calcinacci; allora, un fiotto immenso luminoso
tornò a baciare la terra arida dopo decenni di buio.
Dal basso,
Bansai si lasciò accarezzare giusto un istante dal Sole. Poi
si ritrasse nell’ombra, sistemandosi gli occhiali scuri, in
modo da osservare la luce a debita distanza.
Accanto a lui,
Matako sollevò una delle pistole e sparò un
colpo, diretto verso il cielo. Rimase immobile, con l’arma
fumante e lo sguardo puntato in alto.
Si
sentì l’odore della polvere da sparo, poi di
umidità, l’eco materno di una pioggia lontana.
Nove anni prima
Takasugi
osservò il proprio morso vicino alla spalla di Gintoki, nudo
sopra di sé. Quegli assurdi capelli mossi erano ancora
più scombinati, con delle strisce argentate per via del sole
assorbito in quell’anno di combattimenti contro la Milizia
Imperiale; lo sguardo era apparentemente seccato, sbugiardato
però dal mezzo sorriso e dalla scintilla vitale negli occhi
dal profilo cadente.
“So
di essere succoso come una caramella alla fragola, ma se continui
così mi prosciughi.”
Takasugi fece
una smorfia, il ciuffo gli era ricaduto indietro, lasciandogli scoperta
la fronte per rivelare gli occhi violetti attenti, resi vividi da
quelli che erano i momenti passati assieme, dalle lotte, come dal sesso.
“Quanto
sei idiota. Avevo voglia di farti male, tutto qui. E non mi sembra che
tu ci sia andato più leggero con i graffi sulla mia schiena
– gli afferrò i capelli, per avvicinarlo a
sé e mordergli le labbra, senza riuscire a cancellare il
sorriso sornione stampato sopra – ora continuiamo?”
Gintoki sapeva
che non era una domanda e fu contento di potergli rispondere
baciandolo. Si ribaltarono sul letto di fortuna, nel rifugio ai piedi
di uno dei nodi di collegamento con le città nel cielo,
sorrette dai quei giganteschi pilastri che artigliavano la terra. Nello
spiazzo verde d’erba umida per le recenti piogge si vedeva la
luce passare in caldi fiotti dorati; dalla finestra della stanza in cui
si trovavano, Takasugi e Gintoki potevano vedere quella vita e quella
luce, per la quale un anno fa avevano cominciato a combattere. Per
riportare il Sole alla Terra.
Fecero
l’amore, in quel modo violento che avevano di approcciarsi,
un po’ brutale ma carico di considerazione e... amore
appunto, se così potevano chiamarlo, dato che non erano mai
stati realmente bravi coi sentimenti. Quando finirono rimasero, nudi,
sdraiati sul letto, rivolti verso il soffitto: mostravano le loro pelli
chiare coi lividi portati da battaglie recenti o dal loro stare
assieme, alla stregua dei graffi e dei morsi; si mordevano, giurando
che non avrebbero mai mollato la presa l’uno
dall’altro, anche al costo di strapparsi le carni a vicenda.
Ci fu un tuono
lontano. Poi... piovve.
Takasugi
voltò la testa in direzione della finestra e
contemplò lo scintillio della piogga attraverso il manto di
luce, il modo in cui l’erba rada sembrò
magicamente risplendere, i bambini che uscirono dalle case erette con
gli scarti del mondo superiore per danzare entuasiasti sulla terra. Si
espanse odore di bosco, di umido, di qualcosa di antico.
C’era
tanto da fare, erano solo all’inizio.
Gintoki si era
alzato. Aveva indossato dei pantaloni alla buona, senza nemmeno
scomodarsi a mettere le mutande; alle sue spalle erano appese le
giacche nere di entrambi. Si grattò pigramente il naso, poi
annunciò:
“Beh,
io non so te, ma prima di cominciare a puzzare una doccia sotto la
pioggia me la farei.”
Per un
istante, Takasugi lo guardò uscire. Poi sbottò,
si alzò in piedi e mise a sua volta dei pantaloni, scorgendo
le mutande di entrambi a terra. Fu tentato di mettere la giacca, ma non
lo fece. Indossò invece una canotta scura e cercò
le ciabatte, senza però trovarle.
“Bastardo.”
Disse, quando scorse, oltre la porta, Gintoki fingere di fare la lotta
coi bambini, sporcandosi di fango. Ai piedi, aveva le infradito che,
logicamente, appartenendo a Takasugi gli stavano piccole. Il tallone
usciva fuori di qualche centimetro buono.
Shinsuke
accennò suo malgrado un sorriso. Uscì, per
correre incontro agli altri.
Chiuse gli
occhi, quando venne accarezzato dal sole e investito dallo scroscio di
pioggia, mentre i piedi, nudi, affondarono nel terreno.
Avvertì il fresco dell’acqua, il calore dei raggi
mitigato dalla distanza e dal metallo, la morbidezza della terra.
“A
piedi nudi è meglio, no?” commentò
Gintoki, guardandolo, mentre i bambini avevano preso a rincorrersi e
qualche adulto era uscito come loro sotto la pioggia.
“Infatti
hai pensato bene di metterti le mie infradito.”
Ribatté sarcastico Takasugi, portandosi
all’indietro il ciuffo di capelli bagnati.
“Beh
– ribatté Gintoki, scrollando le spalle
– se non l’avessi fatto le avresti messe, perdendo
questo momento indimenticabile. Dovresti ringraziarmi.”
Fece per
aggiungere qualcos’altro con leggerezza, ma Takasugi lo
anticipò, dicendo apparentemente brusco:
“Grazie.”
“Ehi
da qu...” replicò Gintoki, un po’
sorpreso.
Ancora una
volta Takasugi lo mise a tacere: “Non rispondere. Ti ho
ringraziato, non vuoi
perderti questo momento indimenticabile, no?”
Allora,
l’altro sorrise: “No, non voglio.”
Guardarono il
cielo, sopra le loro teste, attraverso le voragini del metallo.
I
nostri piedi sono affondati nella terra, ma i cuori... stanno
fluttuando, alti, tra la pioggia e il sole.
Sproloqui
di una zucca
Fede, Toshi, mia
diletta gorillina e avvocato del mio cuore, AUGURI DI BUON COMPLEANNO!
Scusami per l'immenso ritardo, ma dovevo essere convinta nella mia
testa di quello che stavo scrivendo. Ti dirò poi da dove
è nata quest'idea e come avrebbe dovuto svilupparsi, prima
di cambiare totalmente direzione.
Ebbene sì,
sono approdata anche io su Gintama. Nonostante sia da anni che guardo
quest'anime e leggo il manga, solo adesso mi decido a scriverci sopra.
Ottimo. E, cosa simpatica, non scrivo di una nelle prime OTP che mi ha
stretto il cuore, bensì di... Takasugi e Gintoki. Che sto
shippando selvaggiamente assieme, dividendo il mio cuore di
multishipper.
Che dire, spero che
piaccia e che i personaggi risultino IC. Sono stata lì a
immedesimarmi, per poco fumavo anche io lol
Magari, in futuro,
scriverò cos'è successo dopo l'esplosione, come
proseguiranno le vite di entrambi. Chissà XD
Per il momento grazie,
grazie anche al gruppo gorilloso con cui conversiamo di un sacco di
cose; posso dire di aver trovato una casa, o un albero su cui
spulciarci assieme.
Ancora auguri Fede,
davvero con tanto affetto :3
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