13DF
PROLOGO
Basta.
Era quello che ripetevi a te stessa ogni volta che ti colpiva, di
nuovo, nonostante avesse promesso di cambiare.
Basta.
I fari delle auto che ti sfrecciano accanto sembrano missili di fuoco,
lampi biancastri nel buio della notte. Tieni il piede premuto con forza
sull’acceleratore, cercando di mettere quanta più
distanza tra voi, questa volta per sempre.
Josh ha paura, lo senti singhiozzare, rannicchiato sul sedile
posteriore. Provi a rassicurarlo, mormorando qualche frase fatta,
qualcosa di stupido che esce dalla tua bocca in automatico, senza che
tu possa rendertene conto. Un’ennesima bugia, identica a
tutte quelle che gli hai raccontato per quasi dieci
anni.
“Va tutto
bene, Josh, va tutto bene.”
Sì, va tutto bene, come andava tutto bene quando ti
comparivano nuovi lividi sul corpo, quando ti sei rotta una mano cadendo dalle scale
(diamine, davvero pensi che qualcuno ci abbia creduto?), quando
reprimevi le grida e le lacrime alla notte, stringendo le lenzuola in
un pugno, mentre lui
(ormai non sei nemmeno più in grado di pronunciare il suo
nome) ti costringeva a primitivi e dolorosi rapporti sessuali.
Ti andava abbastanza bene quando ancora provavi del desiderio, ma
quando non avevi voglia si andava sempre incontro al solito,
dannatissimo rituale: prona, schiacciata contro il materasso,
l’apparato genitale in fiamme, le mani pesanti che
stringevano la tua carne senza alcuna delicatezza.
La cosa brutta era che negli ultimi tempi il tuo desiderio si era
ridotto, se non azzerato.
Basta.
Quante volte hai provato a dirlo? Quante volte sei uscita da quella
porta, con Joshua in braccio, giurando di non ritornare mai
più?
Ora ricordi quel giorno, quel giorno in cui c’eri quasi
riuscita. Avevi varcato la soglia della stazione di polizia con il
desiderio di porre fine a tutto quanto.
“Vorrei
denunciare mio marito.”
Quanto ti era costato pronunciare quelle parole, liberarti di quel
peso…
Per un attimo ti eri quasi sentita leggera, come se potessi spiccare il
volo da un momento all’altro, avvolta nel tuo cappottino
beige. Persino gli ematomi sulla pelle ti erano parsi più
chiari.
Eppure, il peso che ti opprimeva da anni è tornato pochi
istanti dopo, quando hai capito che non ti avrebbero aiutata. Avevano
bisogno di prove, era la tua parola contro quella del tuo ricco e
potente marito, la tua parola contro quella del rampollo di una
facoltosa famiglia, un noto ex atleta, leader aziendale, un volto
apparso più volte in prima pagina.
Per quanto ne sapevano, potevi esserteli fatta da sola quei lividi. Per
quanto ne sapevano, potevi essere soltanto un’ avida
manipolatrice in cerca di denaro e attenzioni.
Avevano scordato con facilità i suoi precedenti penali, lui
era lui, tu non eri nessuno.
Ti avevano fatto male, sì. Ma quel dolore non era nemmeno
equiparabile a ciò che ti avevano inflitto le due persone
che più di tutti avrebbero dovuto aiutarti e
proteggerti.
Ti coglie una fitta allo stomaco mentre, compiendo una brusca svolta a
destra, riecheggiano nella tua mente parole di tua madre, che
ti rimprovera perché non ti impegni abbastanza per tenerti
stretta l’unica cosa buona che (per lei) hai fatto nella
vita, ossia quella di sposare una celebrità.
Tua madre, che ti zittiva ogni volta che trovavi il coraggio di
parlare, che ti ripeteva che no, non si può parlare di
stupro, Karen, perché lui è tuo marito, e poi
perché vuoi negargli il tuo corpo, dovresti essere contenta
se lui ti desidera, vuol dire che sei ancora attraente!
Tua madre, che ha dato la colpa a te quando hai perso il secondo
bambino, che ha dato la colpa a te per ogni cosa, che ha sempre
sminuito quando le mostravi i lividi.
“Può
accadere che ci siano delle discussioni nella vita
coniugale!”
Sì, le discussioni possono capitare.
“Ma le
percosse, mamma?” pensi con rabbia, dando voce
alla Karen dei tuoi dolorosi ricordi, alla Karen che sta zitta e
incassa i colpi. “Le
percosse ti sembrano normali? Perché guardi questi segni sul
mio corpo senza vederli?”
Il silenzio di tuo padre non feriva certo meno. A poco servivano quei
suoi mezzi tentativi di solidarietà, quelle domandine
piazzate là, di tanto in tanto, come: “Sei sicura di star
bene, Karey? Sei sicura di essere
felice?”
Che tu gli rispondessi con una bugia o col silenzio, lui reagiva sempre
allo stesso modo, mettendosi l’anima in pace
perché, a quanto pare, il suo dovere di genitore
l’aveva fatto. Non si poteva dire che non si fosse
interessato a te per almeno un secondo, no?
E tuo fratello? Il tuo caro fratellino,
l’impeccabile Matthew, con la sua famiglia perfetta, il suo
facoltoso lavoro a Washington, il cocco di mamma che tanto voleva un
maschio e, ne sei più che certa, se fosse nato per primo
probabilmente tu non saresti mai esistita, probabilmente ai tuoi
sarebbe bastato.
“E che ci
vuole? Se ti tratta male mollalo!” ti diceva al
telefono, accomodato su uno sdraio davanti alla sua bella piscina e con
un cocktail in mano, quando lo chiamavi piangendo, con il corpo
dolorante e lo spirito segnato da una crepa in più.
Sì, mollalo. La faceva facile, ma dopotutto per lui era
sempre stato tutto facile.
Certo, non si può dire fossi completamente sola: i tuoi
amici, o meglio, alcuni di loro ti sostenevano, alcuni di loro avevano
provato sul serio ad aiutarti.
Ti sfugge quasi un sorriso quando ripensi a quella volta in cui Marina
ti aveva trascinata alla polizia, il giorno successivo alla tua
richiesta d’aiuto ignorata, scatenando un putiferio e
sbraitando un indignato monologo metà in inglese e
metà in italiano.
Eppure quella volta non ce l’avevi fatta. Quella volta
l’avevi presa per un braccio, portandola fuori, mentre lei
continuava a lanciare le sue invettive contro l’incompetenza
degli… aveva detto sbirri?
Sì, l’incompetenza degli sbirri e il marciume
della società sessista.
Sapevi che ti serviva aiuto, spesso lo chiedevi o almeno ci provavi.
Eppure non riuscivi mai a portare a termine la tua battaglia. Eppure
c’era sempre qualcosa che ti frenava, a partire dallo sguardo
di tuo marito e dalle parole che ti rivolgeva ogni giorno, dopo averti
baciata sulla fronte.
“Non puoi
andare da nessuna parte, tu non sei niente senza di me, lo sai,
Karey?”
Te l’aveva ripetuto talmente tante volte che alla fine,
inconsciamente, avevi finito per credergli.
E poi, cosa ne sarebbe stato di Josh? Saresti davvero riuscita a
guardare in faccia il tuo bambino e dirgli: “Tuo padre
è un mostro, andiamo via, scappiamo prima che inizi a fare
del male anche a te, perché lo farà, lo so,
quando sarai un po’ più grande
picchierà anche te.”
Eri ormai intrappolata in una spirale di paura e sofferenza, senza
alcun appiglio.
Quando provavi ad allontanarti c’era sempre qualcosa che ti
costringeva a tornare. E lui te lo ritrovavi lì, con
un’espressione pacifica: correva ad abbracciarti e ti
prometteva che sarebbe cambiato, che non avrebbe più alzato
le mani su di te, che si era soltanto arrabbiato perché
insomma, Karey, anche tu hai un carattere difficile, ti pare il caso di
fare la troia con i tuoi colleghi di lavoro?
Sì, troia. Sorridere ed essere gentile in ufficio significa
essere troia. Rispondere al messaggio di un collega che ti invita a una
cena di lavoro significa essere troia. Uscire con le amiche e tornare a
casa tardi significa essere troia.
E lui, che si scopava regolarmente le segretarie, allora
cos’era? Ah, no, giusto, le troie erano le segretarie che ci
stavano, lui non aveva alcuna colpa, lui, sposato e padre, ne usciva
sempre pulito e indenne.
Eppure… eppure senti che questa volta sarà
diverso. Non tornerai mai più da lui.
Non sei ancora del tutto sicura di cosa ti abbia fatto aprire gli occhi
in tempo mentre ormai ti stavi spegnendo: forse è stato
quando, riordinando il cassetto dell’archivio in salotto, ti
sono capitate sotto mano alcune cartelle cliniche, o meglio, quella
cartella clinica.
Hai letto il tuo nome e subito dentro di te si è acceso
qualcosa.
Karen Marsh. Karen Marsh…
L’avevi quasi scordato, eh? Ormai non ti apparteneva
più perché ti stavi trasformando in una scatola
vuota, in un’ombra, stavi perdendo la tua umanità.
Karen Marsh.
Con il cuore in gola sei andata avanti a leggere quella semplice scheda
che conteneva in sé quanto c’era di più
sbagliato nella tua vita: hai ricordato quanto ti sei sentita sollevata
quando quella dottoressa dallo sguardo color ambra ti aveva detto che
la tua seconda gravidanza si era interrotta.
Sollievo.
Avevi davvero provato sollievo.
Può capitare che una madre non desideri il proprio figlio,
ci sono mille ragioni per cui una donna scelga di abortire o speri in
un aborto spontaneo, nel caso non avesse la possibilità di
intervenire chirurgicamente.
Ma non dovrebbe mai, mai capitare che una madre si senta sollevata
nell’aver perso un figlio per evitargli l’inferno
che si cela dentro alle lussuose mura domestiche, per evitare che si
chiuda anche lui in camera come il fratello, tappandosi le orecchie,
piangendo e tremando.
Non deve succedere. Non è giusto.
Quando poi lui, furibondo e un po’ alticcio, ti ha sbraitato
contro per l’ennesima volta per un motivo che nemmeno hai
capito (o meglio, ascoltato), agitandoti un coltello sotto il naso e
minacciando di ammazzarti, ti sei resa conto di non provare paura ma
rabbia.
Rabbia che ti ha spinta fissarlo dritto negli occhi, rispondere: “Guarda che se mi
ammazzi poi non hai più nessuno da pestare, brutto
coglione” e allontanarti di qualche passo verso
le scale.
Ti ha lanciato contro il coltello, ti ha mancata, quindi, con un urlo
da cavernicolo, ha afferrato un soprammobile d’argento e
questa volta ti ha colpita, ottenendo però il risultato di
farti arrabbiare ancora di più.
E allora anche tu ti sei messa urlare, anche tu hai iniziato a tirargli
addosso degli oggetti, qualsiasi cosa ti capitasse in mano, fino a
quando non l’ha centrato in pieno volto con un portacandele
di vetro, che si è distrutto riempiendo di schegge quel
faccione quadrato.
Quella è stata la tua occasione, quello ti ha dato
abbastanza tempo da prendere Josh e caricarlo in macchina, fuggendo per
sempre da quella casa maledetta.
- Mamma…
Ti scuoti dai tuoi pensieri, guardando nello specchietto retrovisore:
il tuo bambino continua a piangere disperato, dietro di voi ci sono
ancora quei fari che vi inseguono.
Non vi lascerà andare via tanto
facilmente.
- Mamma… ti prego, voglio scendere… ho
paura…
- Siamo quasi arrivati – menti. – Stai
tranquillo…
Ti rendi conto che stai ancora sanguinando dalla ferita al
sopracciglio, ma poco importa, anzi: significa che anche lui sta
sanguinando e il pensiero ti fa quasi sorridere.
Non sai dove stai andando. Ti basta seminarlo.
E poi accade tutto in fretta, nel giro di una manciata di secondi:
l’incrocio al distributore di benzina, il camion che si
avvicina pericolosamente da destra, in direzione perpendicolare alla
tua.
Non puoi fermarti. Se ti fermi sei perduta. Se ti fermi lo stronzo ti
prenderà, probabilmente ti ucciderà e Josh
resterà solo con lui. Non puoi permetterlo. Non
vuoi.
Schiacci al massimo l’acceleratore, gridando, attraversi
l’incrocio a una velocità mai osata prima; il
camionista suona il clacson, provando a frenare, ma sai che non
riuscirà a rallentare la sua corsa in
tempo.
Basta.
Raggiungi la parte opposta della carreggiata, poi il rumore dello
schianto alle tue spalle, seguito da uno stridore di freni,
un’esplosione e un lampo di luce rossa che illumina a giorno
l’ambiente circostante.
Per un attimo scordi di respirare, troppo scioccata, troppo incredula
per quanto è appena accaduto. Trovi a malapena il coraggio
di guardare la scena attraverso gli specchietti, mentre il mondo
attorno a te si fa silenzioso. Silenzioso e rosso.
Josh schiaccia il volto contro il finestrino alzato per vedere meglio,
gli occhi ancora gonfi e le guance rigate dalle lacrime. Il vetro si
appanna col suo respiro affannoso.
Non sai cosa ti spinga a trovare il coraggio di scendere, reggendoti a
malapena sulle gambe tremanti. E guardi, immobile, in silenzio,
perché non puoi far altro che guardare.
Il camion è fermo a pochi metri dal disastro, il conducente
è appena sceso e armeggia freneticamente col telefono, anche
se ormai c’è ben poco da fare.
L’auto, la sua
auto è ormai ridotta a un ammasso di rottami anneriti, il
distributore di benzina va a fuoco, la notte si è tinta di
oro e cremisi (come le luci di Natale!) e tu senti il calore di quelle
fiamme sul viso.
Addio. Addio, Bryce. Addio mio aguzzino, mio compagno, miei dodici anni
d’inferno.
Addio, mostro.
Per un attimo ti sembra quasi di scorgere un volto femminile in mezzo
al fumo color cenere, ma probabilmente si tratta solo di
un’allucinazione.
Il tempo attorno a te pare fermarsi: quasi non ti rendi conto di quando
arrivano i soccorsi e alcuni dei vostri amici vi
raggiungono.
Solo nel momento in cui Marina ti scuote per le spalle riesci a
recuperare un po’ di lucidità e guardarli, uno a
uno, i volti serrati in un’espressione incredula quanto la
tua.
Justin resta solo per pochi minuti, poi trascina Nadya in macchina e se
ne va, come sempre, ormai ha preso l’abitudine di tenersi
lontano dai problemi, quasi ti sorprende il fatto che sia
venuto.
Zach cammina avanti e indietro con fare nervoso, Marcus sta parlando
con uno degli agenti, gesticolando in modo frenetico… ci
sono pure facce che non vedevi da un sacco di tempo, come quella
dell’ex galeotto Montgomery De La Cruz.
Peggy siede sul sedile posteriore della tua auto, parla con Josh, cerca
di distrarlo. Fai cadere un’occhiata sul suo ventre, gonfio
per via della gravidanza che sta affrontando ormai da sei mesi, e un
po’ ti senti in colpa.
- Ehi… Karey… Karey, cazzo,
parlami!
Volgi il tuo sguardo lentamente, specchiandoti in quello di Marina,
intenso, preoccupato e color nocciola, e provi ad aprire la bocca per
parlare, senza risultato.
Ti stringi a lei, le lacrime cominciano a scorrere di nuovo, le spalle
sobbalzano a ritmo di un singhiozzo che ti rendi conto essere una
risata isterica.
Piangi e ridi nello stesso momento, scossa, dilaniata, contesa tra
emozioni e pensieri contrastanti.
Ti senti distrutta.
Ti senti libera.
Ti senti un’assassina.
Ti senti… ti senti viva.
Le fiamme sono ormai spente ma il fumo continua a salire, in alto,
verso un velo nero e privo di stelle.
E il tuo spirito, in questo momento, è fumo.
- Thirteen Direful
Secrets -
***
Angolo
dell’autrice: Salve a
tutti!
Bene, questa storia ammetto esser stata inizialmente pensata come un
qualcosa di assolutamente demenziale e trash, ma alla fine ho optato
per una trama che conterrà in sé anche elementi
drammatici. In ogni caso, gli amanti del trash non si preoccupino, ci
sarà anche quello.
Il prologo della storia è ambientato otto anni prima
dell’inizio degli eventi descritti nella trama, e, nel caso
qualcuno se lo stesse chiedendo, c’è un motivo se
ho scelto di partire proprio da qui, c’è un
collegamento ben preciso tra il destino di Bryce e ciò che i
ragazzi della Liberty High affronteranno otto anni dopo.
Vi fornisco intanto ulteriori spiegazioni e avvertimenti:
- Ho immaginato una situazione del genere in casa Walker: Bryce
è riuscito a farla franca per anni, nel frattempo ha
maturato un carattere meno viscido e più aggressivo e
violento, perché ormai è certo che i soldi lo
aiuteranno sempre, quindi non si sente più in dovere di
fingersi una persona tranquilla, non gli
basta compiere oscenità e stupri di nascosto, ha pure
iniziato a bere e alzare le mani sulla moglie (della serie, sono una
merda e voglio impegnarmi a fondo per mantenere il mio status di
merda).
Forse la scena dell’esplosione è un po’
da film, ma, ehi, avevo avvisato ci sarebbe stato un po’ di
trash. E poi diciamolo, se l’è meritato.
- Ho cambiato il destino di un personaggio, ossia Jeff.
Perché sì, penso che almeno il 99,9% del fandom
sia d’accordo sul fatto che meritasse di meglio.
Perciò ho deciso di salvarlo e modificare leggermente la
storia del lato di cassetta dedicato a Sheri: dopo
l’incidente, Jeff è entrato in coma per mesi e,
presa dal panico, Sheri ha fatto intendere che l’intera
faccenda fosse avvenuta principalmente per colpa di Hannah, la quale,
pur non subendo processi o altro per mancanza di prove, ha subito
ulteriori vessazioni a scuola.
- Chiederei di non insultarmi tramite recensione per come ho scelto di
continuare la storia dei personaggi della serie. Oltre a Bryce ne ho
uccis* un/un’altr* (non a caso, io non faccio mai niente per
caso quando scrivo una storia) e ho scelto determinate coppie secondo
le mie preferenze. Non mi farebbe affatto piacere ritrovarmi recensioni
con scritto: “Eh ma questo doveva stare con quello, eh ma
questa coppia non mi piace, eh ma questo personaggio per me doveva fare
così...”
Perciò vi prego, siate clementi da questo punto di vista XD
Io sto solo seguendo le mie idee.
- Sono naturalmente presenti OC coetanei dei personaggi di Tredici (nel
Prologo ne abbiamo già conosciute tre: Karen, Marina e,
anche se solo nominata, Peggy), alcuni dei quali sono naturalmente
stati utili per dar vita alla generazione successiva, protagonista di
questa storia. Essendo nata come interattiva, ho incluso nella NG sette
personaggi creati apposta da alcune mie amiche autrici. Tali personaggi
appariranno nel prossimo capitolo, insieme alla famigerata Next
Generation. Probabilmente, nelle note d’autrice vi
scriverò un piccolo riepilogo degli OC miei e di quelli
delle altre autrici, magari specificando anche chi è figli*
di chi. O forse no, hehehe, magari vi farò scoprire alcune
parentele nel corso della storia per creare qualche
sorpresa.
- La frase: "Guarda che
se mi ammazzi poi non hai più nessuno da pestare, brutto
coglione" è un riferimento al cortometraggio: "Amore,
ma se mi uccidi, dopo a chi picchi?"
- Sì, il cognome di Karen è ispirato a quello di
Beverly Marsh, una dei protagonisti di IT.
- Naturalmente, la maggior fonte di ispirazione per questa storia
è stato Harry Potter, con la faccenda degli
horcrux.
Bene, al momento credo sia tutto, grazie mille per aver
letto.
Alla prossima!
Tinkerbell92
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