Gli
androidi sognano... ?
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chapter
01. End or Beginning
DETROIT
Date
NOV
11TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-49
Time
PM
11:07
Dopo
essersi a fatica liberato delle guardie che lo attendevano con una
certa impazienza all’ultima fermata dell’ascensore,
Connor pensa
di essere ormai a un solo passo dal completare infine la propria
missione, ridestando il primo di migliaia di androidi ancora nella
mani della Cyberlife. Ebbene: sbagliava, e lo comprende nel momento
in cui la sua stessa voce, da poco distante, gli intima di fermarsi.
Guardare
in faccia sé stessi risulta piuttosto disturbante,
soprattutto se
quel sé stesso punta una pistola alla testa
dell’unico collega mai
avuto dall’alba della sua prima attivazione.
Ascolta
le scuse del tenente Anderson senza mai distogliere lo sguardo da
quell’altro.
“Sparerebbe davvero ad Hank?” si domanda,
crucciato. “Certo che
lo farebbe”. In fondo lui stesso ha appena ucciso delle
guardie;
guardie umane. Nulla al mondo impedirebbe a quell’altro
di fare la stessa cosa con il suo collega, nel caso in cui lo
ritenesse necessario.
È
indeciso: non desidera essere la causa della morte del tenente, ma al
tempo stesso la prospettiva di abbandonare la propria missione non
è
meno tollerabile. Dunque che fare? Sposta lo sguardo negli occhi di
Hank e decide: troverà un’altra via per
raggiungere l’obbiettivo,
un modo che non lo costringa a sacrificare un’altra vita
umana.
Lascia lentamente la presa sul braccio dell’androide ancora
ignaro
e solleva le mani in segno di resa. Un lampo di sorpresa lo coglie
quando il tenente approfitta della momentanea distrazione di
quell’altro
per tentare di disarmarlo. Non riesce purtroppo nell’impresa,
ma
Connor è rapido nello schivare lo sparo che ne segue e senza
perdere
un secondo in più si getta contro la propria copia,
allontanandolo
dal collega e azzuffandosi senza molto successo sul lucido pavimento
dei sotterranei della Tower; d’altra parte possiedono
capacità
praticamente identiche e le stesse possibilità di vittoria:
un colpo
di fortuna sarebbe l’unico modo per sopraffare
l’altro.
«Fermi!»
intima la secca voce del tenente Anderson.
Entrambi
i Connor sospendono le ostilità e spostano
l’attenzione sull’uomo
che tiene entrambi sotto tiro, fissandoli in modo truce ma anche con
un senso di disagio ben palpabile.
Poiché
a colpo d’occhio risulta impossibile distinguere
l’uno dall’altro
i due androidi e lasciare che si facciano a pezzi sarebbe certamente
controproducente, Hank sta disperatamente cercando di venire fuori da
quell’assurda impasse e un aiuto, inatteso ma sicuramente
gradito,
gli giunge proprio da uno dei due Connor,
il quale ragionevolmente suggerisce di proporre loro alcune domande
alle quali, di norma, solo il Connor
originale dovrebbe poter fornire risposte corrette. Hank, non senza
un pizzico di gratitudine per quella possibile soluzione, accetta la
proposta e torna a scrutare entrambi, indagatore, mentre riflette
sulla sua prima domanda, sotto lo sguardo apparentemente e
stranamente ansioso dei due androidi.
«Uh…
Dove ci siamo incontrati la prima volta?»
domanda Hank con una sfumatura leggermente sarcastica nella voce.
Il
Connor
alla sua destra, con prontezza, dà la risposta esatta;
quello fermo
alla sua sinistra si acciglia e mormora fra sé una
considerazione
che il tenente non è in grado di decifrare, ma quando
solleva gli
occhi su di lui può notare della preoccupazione e, forse,
perfino
dell’angoscia sul suo volto. Scuote il capo, come a
schiarirsi le
idee; è troppo presto per trarre conclusioni, servono
maggiori
conferme. Così rinsalda la presa sulla pistola, tenendoli
attentamente sotto tiro, e si presta a porre la sua seconda domanda.
«Qual
è il nome del mio cane?»
Questa
volta è il Connor
alla sua sinistra a rispondergli, anticipando di poco quell’altro,
e Hank si domanda se quella piccola smorfia quasi invisibile sulle
sue labbra fosse ironia, mentre pronunciava il nome corretto.
“Proviamo” pensa, sospirando mentalmente, e infine
dalla sua
bocca scivola la terza e, spera, ultima domanda.
«Mio
figlio, qual è il suo nome?»
chiede, rivolgendosi direttamente al Connor
che, dei due, gli è parso il più promettente.
Per
una volta tanto, nella propria vita, non rimane deluso dalla replica
sicura dell’androide interrogato. Invece rimane sorpreso e un
poco
turbato dalle parole che aggiunge in seguito e che suonano quasi come
una richiesta di perdono. “Ma perdono per che cosa, per
l’amor
del cielo?” sbotta fra sé, amareggiato. Eppure ha
la sensazione
che ciò che scorge in quegli occhi sia reale, che quella che
appare
tristezza e pena non sia unicamente finzione, una mera imitazione
dell’umano, e se non lo è Hank non ha
più motivi per dubitare
della propria scelta.
«Cole
è morto perché il chirurgo umano era troppo fatto
di red ice per
operare. È stato lui a prendersi mio figlio. Lui e questo
mondo,
dove l’unica via che hanno le persone per trovare conforto
è con
un pugno di polvere» puntualizza, abbassando di poco
l’arma che
ancora impugna, senza staccare gli occhi da quelli
dell’androide.
Poi, quasi a tentare di giustificare la scostanza spesso spiacevole
dei suoi modi, decide di dire tutto quanto, perché sappia
ogni cosa,
finalmente. «Ogni volta che muori e poi torni
indietro… io penso a
Cole, a quanto vorrei riportarlo indietro. Darei qualunque cosa per
stringerlo di nuovo. Ma gli esseri umani non tornano
indietro»
soffia addolorato, perdendosi un attimo nei propri ricordi e
lasciando momentaneamente ricadere le braccia lungo i fianchi.
Evidentemente
quell’altro
non aspettava che quella piccola distrazione per riprendere il
controllo della situazione; lesto scatta in avanti, sferrando un
pugno nello stomaco del tenente e strappandogli velocemente dalle
mani la pistola. Rapido si volta e spara un colpo, tentando di
eliminare finalmente il maledetto deviante ma mancando il bersaglio,
il quale invece lo prende di sorpresa assestandogli un calcio alle
caviglie e facendolo piombare a terra; la pistola gli sfugge di mano
ma, lungi dal lasciar correre, risponde all’attacco del
deviante
con egual impeto.
E
sono entrambi nuovamente a terra, intenti nell’utopica
speranza di
prevalere sull’altro mentre invece fanno del proprio meglio
per
demolirsi a vicenda, quando Hank rientra in possesso della pistola
scivolata a terra e, attendendo il momento più propizio fra
un colpo
e l’altro, spara colpendo al petto uno dei due androidi. Lo
osserva
con distacco crollare sulle ginocchia senza curarsi eccessivamente
dei suoi occhi sgranati e curiosamente increduli. Sospira e abbassa
l’arma, ritenendo che questa volta sia realmente finita.
«Scelta
sbagliata, tenente»
lo sorprende impreparato la voce di Connor.
Solo
che quello che ha appena parlato non è affatto il suo
collega, non
con quell’espressione disinteressata stampata sulla sua
faccia
finta, non con quegli occhi così vuoti di ogni emozione
vagamente
umana. Risolleva la pistola e gliela punta diritta in volto, deciso a
fargli saltare la testa dal collo una volta per tutte.
«Oh,
può spararmi, se lo desidera. Ma non le servirebbe a molto,
temo: un
altro Connor prenderebbe il mio posto per portare a termine la
missione»
lo deride l’androide.
È
completamente smarrito, Hank, mentre rimane immobile lasciando che
l’androide lo superi e riguadagni l’uscita della
Tower. La
confusione e il senso di sconfitta non sono nulla se paragonati
all’orrore nel realizzare di aver appena ucciso
l’androide sbagliato. Solleva gli occhi lentamente, fino a
incontrare Connor, ancora immobile nel punto in cui lo ha colpito,
ancora con la stessa incredulità negli occhi vitrei.
«Che
cosa ho fatto?»
soffia.
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HART
PLAZA
Downtown
Time
PM
11:58
Vede
nitido il volto del leader dei devianti attraverso il mirino del
fucile di precisione che imbraccia con sicurezza, e già si
appresta
a premere il grilletto per portare a termine la propria missione,
quando il suo udito lo mette in guardia sull’inatteso rumore
di
passi che percorrono le scale poco distanti e della porta che
dà
sulla terrazza che si spalanca con forza, lasciando libero
l’accesso
a una piccola squadra di SWAT armati di tutto punto e, lo scopre
dalla voce che gli intima di lasciare l’arma, comandati dal
capitano Allen.
Chiude
gli occhi per un lungo istante. Se non sapesse con estrema certezza
di essere una macchina, riterrebbe di provare noia e, soprattutto, un
fastidio molto acuto per quell’ennesima complicazione.
D’altra
parte non è certo un deviante, lui, pertanto con tutta calma
si
rialza, trattenendo il fucile poggiato al fianco, e si volta a
fronteggiare la nuova seccatura, augurandosi di potersela sbrigare in
fretta e tornare al suo più urgente incarico.
Non
ha l’ordine di giustiziare esseri umani, certo, e tuttavia
neppure
il divieto di farsi strada a loro spese. Per questo, dopo aver
inutilmente dibattuto di doveri inderogabili con l’uomo a
capo
della squadra, perdendo fra le altre cose tempo prezioso e anche una
certa dose di pazienza, stabilisce che non valga per nulla la pena di
continuare a cercare di trattare con esseri umani che, evidentemente,
non sono in grado di comprendere l’importanza del suo compito.
In
pochi istanti calcola le proprie possibilità, poi scatta
veloce,
tramortendo il capitano Allen con il calcio del fucile, sottrae la
sua arma e nel tempo che il poliziotto impiega per crollare a terra
privo di sensi liquida il resto della squadra con pochi colpi sicuri.
Un’occhiata
alla balconata lo avverte che non c’è
più molto tempo per
gingillarsi ulteriormente con i poliziotti umani; recupera quindi due
paia di manette dai corpi degli agenti morti e, dopo aver
sbrigativamente trascinato il capitano per una gamba fino alla
balaustra, lo ammanetta alle sbarre così da evitare
ulteriori e
possibilmente fastidiose interruzioni.
Di
nuovo di fronte al parapetto, controlla il proprio fucile,
assicurandosi che non abbia subito danni durante la colluttazione e,
soddisfatto dei risultati dell’indagine, lo riposiziona
attentamente in direzione dell’obbiettivo, osservando con
cura
attraverso il mirino. Sì, nulla è cambiato: lui
è ancora bloccato su quella piazza, circondato dai suoi
subalterni e
dalle squadre armate degli agenti dell’FBI e della polizia,
sempre
alla ricerca di una soluzione pacifica a un problema con tutta
probabilità insolvibile. Non ne avrà il tempo,
non più.
Si
assicura sulla quantità di colpi a disposizione, toglie la
sicura,
sposta il peso sul ginocchio poggiato a terra e reclina appena il
capo a destra; sposta di un soffio la traiettoria verso
l’alto e fa
fuoco: una, due, tre, quattro volte, osservando con una punta di
soddisfazione cadere altrettanti inutili devianti e con essi il loro
illogico sogno di libertà.
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-49
Time
PM
11:16
Avverte
le ginocchia molli mentre i suoi occhi non riescono in alcun modo a
staccarsi dalla figura immobile di Connor. Prova a deglutire, ma la
sua gola è secca e non gli dà nessun conforto.
Tenta un passo,
vacilla, avanza di un secondo passo, poi di un terzo, infine le sue
ginocchia cedono e, senza realmente volerlo, si ritrova a pochi palmi
dal volto del suo collega, o forse a questo punto dovrebbe dire
ex-collega, perché di certo quella cosa
che è uscita da poco dalla Tower non avrà
più possibilità di
avvicinarsi abbastanza a lui senza ritrovarsi con un buco in fronte.
Solleva
un braccio, incerto, e allunga appena una mano, ma decisamente sembra
che il proprio corpo non abbia nessuna intenzione di toccarlo. Una
lacrima scivola veloce perdendosi nella sua barba incolta. Da quanto
tempo non piangeva? L’ultima volta aveva un figlio da
seppellire. E
ora? Non gli rimarrà neppure il conforto di una tomba.
«Mi
dispiace. Io… Perdonami» mormora, interrotto da un
doloroso
singulto. «Ho… combinato un casino, ma…
non volevo che finisse
così».
E
non ha idea se si stia rivolgendo alla propria coscienza, a un
fantomatico dio in cui non crede più da un bel pezzo, oppure
all’idea
di anima che può immaginare si fosse insediata in quel corpo
fabbricato da esseri umani. Non lo sa, ma ha comunque bisogno di
giustificarsi, di chiedere perdono, a qualunque entità
voglia
prendersi il disturbo di ascoltarlo.
Sospira,
sfiora appena con le dita la tempia dell’androide,
là dove non
brilla più il led. Un’altra lacrima abbandona i
suoi occhi.
«Connor»
sillaba senza più voce.
Le
sue braccia stringono un corpo che forse non è mai stato
realmente
vivo, ma che la sua mente considerava quello di un amico, ed
è
quando avverte la ruvidezza dei suoi abiti sempre impeccabili sotto i
palmi delle mani e il solletico di una ciocca di fini capelli sulla
guancia che decide. Suo figlio è morto: era un essere umano,
non
poteva riportarlo indietro in alcun modo. Ma Connor non era umano, ed
è sempre tornato da lui, in un modo o nell’altro.
Ora che non può
più farlo, penserà Hank stesso a trovare il modo,
il modo per
riavere l’unica creatura sulla faccia della Terra cui ancora
tiene
(oltre a Sumo, chiaro).
Con
un po’ di impiccio, rafforza la stretta della braccia e lo
risolleva da terra. E, diavolo, lo ricordava molto più
leggero! “Ci
avranno aggiunto altra ferraglia inutile, dall’ultima
volta”
borbotta fra sé. Con attenzione se lo carica in spalla e,
lentamente, raggiunge l’ascensore che li porterà
al parcheggio,
per recuperare la propria auto. Al resto penserà una volta
fuori da
quel posto maledetto.
Prima
che l’ascensore parta, getta un’ultima occhiata al
mare di
androidi ancora ignari che sembrano occupare l’intero piano,
e una
fitta di dispiacere va a sommarsi al suo già gravoso
fardello. Ma si
ripromette che, se i suoi piani andranno come spera, qualcosa forse
potrebbe ancora risvegliarli. Qualcosa o… qualcuno.
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NdA:
Questa
è una “What If?” per più di
un motivo.
Il
principale è, come forse si sarà intuito, che
dopo la gita
di Connor alla Cyberlife Tower i fatti non vanno più in
alcuno dei
modi progettati dall’autore del gioco. Markus, North, Josh e
Simon
erano vivi... Erano,
appunto, prima che arrivasse Connor 2 la vendetta e li fucilasse
tutti in massa. Pensare che volevo salvare Simon, inizialmente. La
situazione dev’essermi sfuggita un attimino di mano a un
certo
punto. Ma il capitano Allen l’ho salvato (anche se lo
sopporto
male).
In
secondo luogo ho dovuto rimaneggiare gli orari perché con
due Connor
sulla piazza mi si complicava un poco la faccenda e non riuscivo a
far quadrare i conti in alcun modo (originariamente Connor si trova O
alla Cyberlife Tower O in Hart Plaza).
Poi,
beh, la coppia canonica di Markus e North è saltata, qui. Al
posto
della donzella non proprio gentile ci ho messo l’androide
imbranato, ovvero Connor, quello con problemi di relazioni
interpersonali anche quando deve avere a che fare con
un’unica
persona o con un cane.
Ultimo
appunto: qui Connor è morto due volte. La prima investito in
autostrada mentre insegue Kara. La seconda dopo aver deciso di
proteggere Hank dal deviante alla Stratford Tower. Sono le uniche due
volte che ho trovato che non incidono troppo negativamente sulla sua
relazione con Hank e al contempo che non lo fanno sembrare troppo
impedito.
Il
resto si vedrà strada facendo. Buona
lettura.
Roiben
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