Abisso
I
Innsmouth
Mentre
guidavo, osservai i paesaggi del Massachusset dipingersi davanti ai
miei occhi: pennellate di verde intenso accarezzavano
l’orizzonte nuvolo che si stagliava sulla linea incerta del
tramonto. Il mio collega, Henry Allen, mi guardò un istante
come in cerca di qualcosa, ma sembrò lasciar perdere
perché alla fine scrutò a sua volta il panorama,
tamburellando le dita sul finestrino.
“Quel
posto non mi piace per niente, Shisui. Accadono cose strane,
l’omicidio di quel ragazzino un anno fa sembra avvenuto per
mano dei membri della sua stessa famiglia, tanto per dirne una
– tirò fuori una sigaretta da un contenitore
metallico, se la accese e soffiò una boccata di fumo, mentre
girava la manovella sulla portiera per abbassare il finestrino
– la gente fa schifo.”
Lo sguardo
sembrò distante, come se non volesse incrociarsi con il mio.
In testa, aveva un fedora scuro che gli conferiva un’aria di
classe, nonostante la barba non fatta da qualche giorno e le scarse
rughe di un’anzianità precoce rispetto agli anni
effettivi.
Scrollai le
spalle, grattandomi la tempia con un dito. C’era una
cicatrice in quel punto. Non mi ricordo come me l’ero fatta,
ma ogni tanto prudeva, simile a un insetto microscopico che cercava di
risalire in superficie.
“Su
questo non c’è dubbio, con il nostro lavoro di
gente pessima ne incontriamo tutti i giorni; eh già, non ci
pagano abbastanza.”
Ironizzai, con
una mezza risata. A modo mio, avevo sempre cercato di stemprare i toni
con del sano sarcasmo. Paradossalmente, mi aiutava a rimanere
concentrato, scacciando la paura, il senso di colpa, l’idea
di non aver fatto abbastanza: tutte sensazioni estremamente comuni,
quando si lavora come detective della Omicidi a Boston.
Allen,
però, non rise. Non rideva mai, almeno, da quanto mi
ricordavo. Sospirai, scrollando le spalle, per poi fischiettare un
motivetto in stile charleston. Un tempo mi avevano affascinato i locali
in cui si ballava; mi ripromisi di andarci, una volta risolto il caso
che ci aveva portato fino a lì, in quel posto dimenticato da
Dio e, probabilmente, anche dagli uomini.
“Innsmouth.”
Sussurrò
Allen.
Avvertii un
brivido lungo la pelle. Davanti a noi si stagliavano le porte della
cittadina che sorgeva sul mare: un’area limacciosa, incassata
in una costa dalla sabbia cupa e il mare oscuro che, raramente,
rigettava spuma bianca lungo i bassi declivi rocciosi dove si
incastravano i pali di legno marcescente del porto; presso le banchine
deserte navi colme di ragnatele e vele rammendate galleggiavano
sinistre ancorate ai ponteggi.
Le nuvole
soffocavano i raggi arancioni e rosati del tramonto, riflettendo al
contrario il grigio del mare e il senso opprimente di chiuso, simile a
una bolla fatta di silenzio e luci smorzate.
Parcheggiai la
macchina presso uno degli spiazzi adiacenti, poco distante dal porto.
Le strade erano pressoché deserte, mentre i lampioni a
petrolio erano stati già accesi: la notte sembrava prossima
a calare e il sole faticava a passare in spiragli frammentati
attraverso il cielo nuvolo.
Mi
salì alle narici un rivoltante odore di pesce marcio e di
salsedine, avvertii il gusto del mare sulle labbra secche, come se
qualcuno mi avesse appena spinto la testa sotto l’oceano per
farmi inghiottire con violenza acqua salmastra.
Aprii la
portiera per uscire, mentre Allen schiacciava il mozzicone di sigaretta
gettato per terra. Scorgemmo entrambi un poliziotto poco distante che,
appena ci vide, avanzò verso di noi: era tarchiato, dalla
pancia gonfia che sporgeva oltre le brache tenute su da bretelle di
cuoio consumato, spiegazzando al di sotto una camicia azzurra slavata;
sopra, la giacca della divisa era lasciata sbottonata.
Gli occhi
sembravano acquosi, protrusi come affetti da esoftalmo, le labbra piene
disegnate in una smorfia di fastidio, mentre il collo massiccio
faticava a stare dentro il colletto della camicia.
Mi presentai,
anticipandolo con piglio relativamente cordiale:
“Detective
Shisui Underwood, questo è il mio collega Henry Allen.
Piacere.”
Il poliziotto
mi guardò negli occhi, nella stessa maniera in cui si
potrebbe osservare un vecchio conoscente. Poi abbassò il
volto per contemplare brevemente la mano. La strinse qualche istante
dopo con una presa massiccia, al punto che le dita tozze sembrarono
avvinghiarsi attorno alle mie; notai che aveva la pelle leggermente
traslucida, come di chi fosse appena emerso da un catino
d’acqua senza però essere bagnato.
“Zadok
Marsh.”
La ritrassi
accennando un sorriso, emerso più per un confortante senso
d’abitudine. Allen non tese la mano, limitandosi a guardare
con occhi attenti l’uomo di fronte a noi.
“Se
ci può portare sul luogo del delitto, vorremmo esaminare la
scena. Nel frattempo, ci dia tutti i dettagli che
può.”
Asciutto,
dritto al dunque, sbrigativo. Sospirai, mettendomi le mani in tasca
dopo essermi grattato brevemente la cicatrice. Allen sembrava molto
più capace di me di mostrare freddezza quando serviva; anche
se lo conoscevo da poco, sono sempre stato bravo a capire le persone:
forse era pensando di comprenderle e capire cosa animasse i loro
desideri più oscuri che, in gioventù, mi sono
laureato in parapsicologia alla Miskatonic University. Questo
è un qualcosa che non dimenticherò mai.
Una pretesa un
po’ stupida, quella di capire gli altri, dato che gli unici
posti in cui finivo erano scene del crimine legate a gente fuori di
testa: sette religiose, cultisti di religioni provenienti da angoli
dimenticati del mondo, persone che credevano di essere possedute da
spiriti malvagi o uomini d’intelletto in preda a deliri
d’onnipotenza convinti di avere il dominio sulla natura.
Insomma, un insieme di simpatici disagiati che, un anno anno fa, mi
hanno portato a fare un bel giro di permanenza all’ospedale
psichiatrico di Arkham. Almeno, questo è quanto redatto
sulla cartella clinica letta dopo il rilascio, diversi mesi
più tardi; eccetto questo, la perdita di memoria subita in
seguito al trauma non è stata decisamente mia alleata nel
ricordare chi o cosa avesse contribuito a farmi andare fuori di testa.
“Underwood,
hai dimenticato anche come usare le gambe?”
Mi
richiamò Allen, fermandosi nel mezzo della via che collegava
l’ingresso della città al porto.
Simpatico:
quando si trattava di insultarmi, Henry dimostrava di saper fare delle
battute di spirito quasi intelligenti.
“Ah-ah,
che umorista Allen. Arrivo, arrivo.” Borbottai, per poi
accennare comunque una risata, anche se l’atmosfera
opprimente e quell’odore di marcio non facevano decisamente
propendere verso una conclusione allegra della serata.
Specie per
quello che ci prospettava: un omicidio in piena regola, con
però degli elementi insoliti che avevano attirato il
Dipartimento della Omicidi di Boston, al punto da sguinzagliare due tra
i suoi più efficienti detective esperti nei riguardi delle
sette locali e le loro follie sacrificali; si trattava di una
diramazione della Omicidi sorta da pochi anni in realtà,
quindi bisognosa di buttarsi in mezzo a casi persino nei posti
più sperduti, pur di continuare a guadagnare fondi
governativi.
“Vi
posso portare sulla scena, abbiamo recintato la zona per non attirare i
curiosi.”
Spiegò
Marsh, camminando con andatura un po’ ondeggiante, forse per
via del corpo massiccio e sproporzionato, anche se non potevo
immaginare di che curiosi stesse parlando, dato che le strade
sembravano costantemente deserte.
“Capisco.
L’uomo che ha trovato il cadavere? –
domandò Allen –
Dov’è?”
“Non
lo so. Da qualche parte nella taverna di Bob a ubriacarsi.”
Rispose il poliziotto senza particolare interesse, mentre continuava ad
avanzare.
Bene, tappa al
pub; poteva rivelarsi un momento più piacevole, forse unico,
rispetto alla prospettiva di addentrarsi ancora a lungo tra quelle
strade odorose di pesce marcio; anche se, a ben pensarci,
l’idea di che razza di birra ci fosse dietro al bancone mi
faceva rivoltare lo stomaco.
Allen mi
guardò e io annuii. Ovviamente, dopo l’analisi
della scena del crimine potevamo pensare di dividerci e procedere
rispettivamente verso l’obitorio, oppure a cercare di
svegliare da uno stato di collasso post-ubriachezza il primo e per ora
unico testimone della scena del crimine, eccetto ovviamente la polizia.
Non sapevo cosa fosse più piacevole tra le due opzioni, ma
ritenni che forse un cadavere poteva dare più informazioni
rispetto a un vecchio ubriacone; scrollai le spalle: nemmeno sapevo
perché, ma ritenevo che il nostro uomo fosse decisamente
anziano, consumato sin dentro la pelle dal mare e dalla sua salsedine
che entrava fin dentro i polmoni.
Svoltammo poi
in una delle vie laterali, più oscure, dalla pavimentazione
irregolare e le acque di scolo che gocciolavano in rigagnoli sudici da
oltre le canaline arrugginite. Mi sembrò di vedere occhi
gialli, intensi, intenti a fissarmi dalle ombre vicino a cassonetti
colmi di spazzatura, per poi sparire con un ticchettare ovattato di
zampe. Ratti.
Entrammo in
uno scantinato.
Sentii un
odore di umido, mischiato con quello di acqua stagnante e di muffa,
muffa che sembrava intaccare le pareti di mattoni a vista, con la malta
secca che si sbriciolava passando la mano sulla superficie viscida,
coperta a tratti da uno strato simile a muschio.
Incurante
dell’odore e dell’ambiente soffocante, il
poliziotto estrasse dalla fodera vicino a quella della pistola una
torcia. La accese dopo aver dato qualche lento colpetto con il palmo
della mano; per qualche istante il fascio di luce giallognolo
sfarfallò, poi si stabilizzò, illuminando le
scale.
“Attenzione,
è scivoloso – disse, senza nemmeno guardarci
– nella stanza abbiamo lasciato delle candele per illuminare.
Le scale sono la parte più buia.”
Ci fece
avanzare, illuminandoci le gradinate. Allen mi precedette e io lo
seguii, sentendo sul collo il fiato e la presenza del poliziotto, con
la luce che sembrava tagliare l’oscurità; forse
era solo per colpa di tutti quegli odori nauseanti, ma mi sembrava che
anche l’uomo di Innsmouth puzzasse di pesce.
Quando
completammo la discesa, vidi Allen bloccarsi sulla soglia
d’ingresso della stanza. Si portò una mano sulla
testa, come per trattenere il fedora elegante dal volare a terra.
“Cristo
Santissimo.” Mormorò, con voce resa raschiante
dalle troppe sigarette.
Mi misi al suo
fianco portando una mano sulla bocca, assalito fin dentro
l’encefalo dall’odore di putrefazione.
“Il
corpo – commentai, ricacciando un conato di vomito
– l’avete lasciato qui.”
Non ci
giurerei, ma mi sembrò di sentire il poliziotto sogghignare
e poi rispondere:
“Non
volevamo contaminare la scena del delitto. È tutto come
l’ha trovato Daves quando vi ha chiamati.”
“Curioso:
dopo aver trovato un cadavere, un vecchio ubriacone pensa come prima
cosa di mandare un telegramma urgente proprio alla Polizia di Boston,
pure con le forze dell’ordine qui presenti.”
Commentai d’istinto, con ironia tagliente.
Sentii il
poliziotto ringhiare qualcosa, mentre Allen si limitò a
guardarmi un istante per poi avanzare verso il cadavere, illuminato
dalla luce danzante di numerose candele disposte su mobili piegati
dall’umidità e nicchie, incassate in punti dove i
mattoni mancavano o si erano sbriciolati.
Lo accostai,
per poi osservare il cadavere riverso a terra con una piega innaturale
degli arti, come se fosse stato lanciato da un’altezza di
decisamente troppi metri, per essere uno scantinato sotto al livello
del mare. Attento, aggrottai le sopracciglia quando mi chinai per
scostare una ciocca di capelli scuri dal volto. Nel scorgere i tratti
del viso, deglutii e per qualche istante il cuore mi batté
più forte, fu come provare un’emozione forte,
scaturita da un ricordo antico.
Forse,
perché il volto di quell’uomo morto ai miei piedi
– giovane, era terribilmente giovane – vagamente
assomigliava al mio, anche se gli occhi erano meno grandi, eppure
ugualmente scuri, profondi, come era profondo l’oceano.
Erano vitrei,
gli occhi di chi non aveva più vita, e una mosca solitaria
camminava vicino alle ciglia folte, mentre la pupilla offuscata
guardava nel vuoto. I capelli lunghi, così lontani da ogni
concezione maschile, erano neri, corposi seppure insudiciati dal
pavimento umido e gocciolante i liquidi della terra: gli accarezzavano
il volto dalle forme morbide, toccandogli le labbra sottili come se li
avesse vomitati.
Il resto del
corpo era nudo, le unghie violacee, il pube esposto e i piedi magri
lambiti da una pozza d’acqua fetida. Scorsi dei segni sul
collo, ferite poco al di sotto delle orecchie da dove era colato sangue
ora rappreso e scuro, così scuro da distinguersi a fatica
dai capelli incrostati.
Annaspai un
istante, in cerca d’aria. Mi detti dello stupido.
Avevo visto
tanti cadaveri e orrori, in vita mia. Perché il corpo di
quel giovane uomo, nemmeno eccessivamente devastato dalla morte, doveva
farmi quell’effetto? Avvertii una fitta alla testa.
Maledizione. Sembrava stesse andando meglio in quel periodo, ma ogni
tanto le emicranie ritornavano; ad Arkham mi avevano somministrato
oppiacei, se i dolori avessero continuato avrei dovuto prendere
qualcosa: non potevo lavorare a un caso con la testa spaccata in due
dal male.
Mi rimisi in
piedi, mentre Allen sfiorava con una penna le labbra prive di sangue
del cadavere; scorsi i denti bianchi simili a perle, così
come intravidi da lingua gonfia.
“Si
è conservato bene, per essere in questo posto merdoso
– commentò, grattandosi la barba non fatta
– sapete chi è?”
“Un
Uchiha. Si somigliano tutti, o quasi.” Replicò
asciutto Zadok Marsh.
“Beh,
ci servirà un po’ più di
questo.” Ribatté il mio collega, per poi esaminare
le mani della vittima, curvo su essa.
Scrocchiai
appena il collo, ignorando il borbottio del poliziotto che sembrava
piccato, così come ignorai il campanello d’allarme
nel sentire quel cognome che mi risultava familiare. Effettivamente,
Uchiha era un nome piuttosto frequente dalle parti di Innsmouth, anche
se, a quanto ne sapevo, i primi con quel cognome si erano insediati
nella cittadina molto più tardi rispetto ai ben
più antichi rappresentanti della famiglia Marsh.
Tirai un
sospiro, per poi concentrarmi sui segni della parete. Vidi delle
incisioni nel mattone, scritte in un linguaggio che non comprendevo,
ricche di consonanti capaci di dar vita a suoni gutturali; tali
incisioni erano accompagnate da immagini di creature grottesche con
denti aguzzi e occhi sconosciuti al pari dell’universo.
Alcune parole erano state nuovamente ricalcate con quello che sembrava
sangue, anche se ormai secco, il quale in precedenza era colato oltre
le scanalature scavate nel mattone, fino a venire assorbito e lasciare
una crosta scura.
Capivo
perché eravamo stati chiamati noi e non uno qualsiasi della
Omicidi per quel caso: la posizione innaturale del corpo, i segni e le
immagini erano prova del coinvolgimento di una setta o, se non altro,
di un gruppo di adoratori di una qualche forma di divinità,
forse quella stessa creatura incisa sulla parete che sembrava scrutarci
dall’abisso. Non mi piaceva per nulla, mi trasmetteva un
tremendo senso d’angoscia.
Chiusi gli
occhi, nel tentativo di contenere una nuova fitta di mal di testa.
Non parlai, ma
Allen si era alzato in piedi a sua volta, cominciando a segnare su di
un taccuino le parole incise e, con una rapidità sommaria,
ritrarre la creatura tracciata sul mattone impregnato di muffa. La luce
delle candele ondeggiò un istante, soffocata
dall’oscurità lugubre della stanza, poi riprese a
stabilizzarsi, al pari della torcia del poliziotto ancora puntata sul
cadavere. La mosca era scomparsa. Si sentiva il ticchettio
dell’acqua che colava lenta dai muri e i nostri respiri
ovattati, nient’altro.
In lontananza,
però, a tratti credetti di sentire la risacca del mare, per
quanto Innsmouth fosse caratterizzata da una calma piatta
dell’insenatura che ricordava una palude, piuttosto che una
località marittima.
Henry
segnò altri dati forniti dal poliziotto, poi richiuse il
blocchetto e lo rimise in tasca; nessuna informazione essenziale a dire
il vero, ma probabilmente era inutile pretendere altro, data la scarsa
collaborazione dell’autorità locale.
“Andiamo
a parlare con questo Daves, poi ci cerchiamo un posto in cui dormire
– spostò lo sguardo verso la nostra maleodorante
guida che gli puntò la luce contro – spostate il
cadavere all’obitorio. Domani voglio darci
un’occhiata con un’illuminazione migliore. E, per
Dio, mettetelo in una ghiacciaia prima che marcisca ancora.”
Colsi una vaga
smorfia sul suo volto, con qualche ruga d’espressione
più marcata delle altre e gli occhi grigi, plumbei,
dall’iride contratta per via del fascio luminoso.
“Chiamerò
i miei colleghi. L’obitorio è vicino alla
chiesa.” Rispose la guardia in una sorta di gracidio
cavernoso.
“Daves
è al pub, dicevi?” domandai, dopo aver registrato
mentalmente l’informazione.
L’uomo
mi scrutò un istante con i suoi occhi acquosi, gonfi come
quelli di una ranocchia in procinto di essere schiacciata. Poi
annuì con un cenno, si avvicinò allo stipite
dell’ingresso che dava sulle scale e puntò il
raggio di luce: “Andate. Qui ci penso io.”
Mi
guardò quando lo disse; il tanfo di marcio si fece
più forte. Cominciai a salire le scale senza nemmeno
attendere Allen o ribattere con qualcosa di ironico: volevo solo
prendere aria, smettere di avere davanti agli occhi lo sguardo di
quell’uomo e i disegni di una creatura antica tracciata nel
sangue.
Quando fui
all’aperto, presi grandi boccate di ossigeno, per quanto gli
odori fossero rivoltanti e l’aria come contaminata da
qualcosa di rarefatto, ma già andava meglio rispetto a
quello scantinato soffocante.
“Shisui,
si può sapere che ti è preso?”
domandò Allen, uscendo a sua volta in strada.
“Niente,
è che – mi bloccai un istante per poi ripetere
– niente.”
Mi
lanciò un’occhiata perplessa, ma forse non aveva
intenzione di indagare oltre perché prese a camminare, per
poi esortarmi:
“Andiamo
a trovare questo Daves, vediamo se nel frattempo
c’è qualcun altro che sa qualcosa. Tu non hai
visto com’è morto il ragazzino qui a Innsmouth un
anno fa, vero?”
“No.
In quel periodo non ero esattamente lucido.” Replicai,
infilandomi le mani in tasca mentre raggiungevo il mio collega.
“Il
manicomio ad Arkham?”
“Sì.”
“Capisco
– dopo un istante però si bloccò,
portandosi davanti a me, e mi disse, fissandomi senza battere ciglio
– abbiamo affrontato qualche caso assieme da quando ti sei
ripreso. Non ti conosco, né so perché hanno
voluto darmi qualcuno con cui investigare, però mi sembri
uno in gamba, anche se a volte ti comporti da cazzone. Ma ti avviso:
non dare di matto qui, siamo intesi? Non farlo in generale,
però a Innsmouth in particolar modo… evita. Non
perdona.”
“Lo
so.” Replicai di getto, senza nemmeno rendermene conto.
“So che non perdona.”
Assottigliai
le labbra, sentendomi schiacciare. Non sapevo da cosa, lo avvertivo e
basta.
Allen mi
fissò. Sembrò in procinto di aggiungere altro, ma
alla fine optò per riprendere a camminare e io lo imitai,
artigliando alle cosce le mani tenute in tasca.
Giungemmo in
fretta al pub, l’unico presente nella cittadina,
riconoscibile per via dell’insegna ‘Pub da
Bob’ dipinta con vernice ormai sbiadita in alcune lettere. Un
tizio vestito di stracci era accovacciato a terra in una pozza di
vomito, con il profilo che si intravedeva appena nella penombra del
vicolo. Dopo avermi osservato brevemente, Henry cominciò a
entrare ma io, appena la porta cigolante si richiuse alle sue spalle,
mossi un passo, portandomi di fronte all’uomo a terra.
Non seppi
esattamente perché, eppure mi chinai, ignorando il fetore
che proveniva da quel corpo ripiegato su se stesso. Scorsi la barba
sudicia e il volto scavato da rughe, consumato, i denti saltati della
bocca arida semiaperta e le gote, come il naso, coi capillari
scoppiati: un bello schifo, ma temo di aver sempre avuto una mia
personale propensione all’orrido.
Sembrava
ancora vivo, il respiro era rantolante e incerto.
“Daves.”
Affermai, sicuro, sicurissimo che fosse lui.
Non dovevo
aver mai visto quel volto in vita mia, eppure ero ugualmente certo che
quello fosse il nostro uomo. Mi voltai un istante: nel vicolo non
c’era nessuno, si udiva a malapena un vociare ovattato della
gente all’interno del pub – tranquillo, per essere
il tardo pomeriggio in una comunità così isolata.
Allungai una
mano per provare a scuoterlo. Gli scrollai le spalle, afferrando quello
che sembrava essere un cappotto rattoppato, dalle maniche e cuciture
consunte; avvertii il tessuto liso sotto la mia presa, mai lavato,
impregnato vagamente di salsedine incrostata tra le pieghe
dell’abito.
Ma
l’uomo non si mosse, gli occhi riversi e una leggera bava che
cominciò a colare dalla bocca riarsa.
Merda.
Stava morendo,
soffocato nel suo stesso vomito? Fantastico, risulto sempre essere
l’uomo sbagliato nel posto peggiore di sempre. Pensai di
sollevarmi e chiamare aiuto, anche se non sapevo che generi di tutele
mediche vi fossero in un posto come quello.
Quando mi
alzai in piedi, però, qualcosa mi afferrò una
caviglia. La presa d’acciaio mi artigliò con un
movimento talmente rapido da farmi quasi inciampare; con il cuore in
gola abbassai lo sguardo e vidi Daves, lo stesso vecchio stramazzato al
suolo, che si era rialzato con una piega innaturale del busto, le gambe
ancora accovacciate sul suolo lercio, mentre la mano dalle unghie
sudice, rotte e troppo lunghe, non accennava a lasciarmi andare.
Mi
guardò dritto negli occhi, individuandomi oltre la
semioscurità dopo aver ignorato la mia paura. Erano gli
occhi di un morto, spenti eppure feroci, rancorosi, di chi un giorno
avrebbe perseguitato una vita per saziarsi nella morte.
“Non
fidarti di lui!”
Rantolò,
oltre i pochi denti marci, la lingua gonfia che articolò le
parole senza muoversi, quasi come se esse provenissero
dall’interno della cassa toracica dilatata, quasi avesse
inspirato l’aria necrotica di Innsmouth.
“Lui
chi? Di chi stai parlando?” esclamai, paralizzato. Le unghie
mi scavarono, volevano entrarmi nella pelle per scoperchiarmela come
una vecchia coperta.
Feci per
chinarmi e afferrare l’uomo, ma questi smise di guardarmi.
Rise. Una risata innaturale, grottesca, con gli occhi che si girarono
al contrario fino a mostrare il bianco del bulbo. Altri capillari
scoppiarono, il sangue colò oltre il naso, la bocca
incrostata di vomito e morte.
Poi si
bloccò. Mi lasciò andare la caviglia e la mano
rimase immobile, contorta come una foglia riarsa; un istante dopo,
Daves voltò con un movimento brusco la testa verso
l’alto: sembrò quasi che delle mani invisibili lo
avessero costretto a osservare il cielo, finendo per tendergli il collo
con una violenza che non gli dette tempo di prendere la boccata
d’aria successiva.
Udii uno
scrocchiare brusco di ossa, secco e tremendo. Indietreggiai di un
passo. Daves cadde in avanti, schiantando la testa sul pavimento
sudicio, tra il vomito e i liquami del vicolo ombroso.
“Shisui,
si può sapere che cazzo stai…”
Per un istante
non udii alcuna parola. Le orecchie mi fischiavano, sentii solo il rush
violento del sangue alla testa, della paura, dell’istinto
feroce di sopravvivenza che mi diceva di andarmene, fuggire, prima che
fosse troppo tardi.
Non avevo
sentito nemmeno la porta aprirsi con un cigolio sinistro, i passi, la
sua presenza.
“Underwood!”
Sussultai.
Spostai lo sguardo e vidi Allen che mi guardava, tenendosi il cappello
come faceva sempre in situazioni di crisi improvvisa – ero
sempre stato bravo a capire le persone, le osservavo, giusto?
“Questo
era Daves – ritrovai il controllo sulle parole, anche se
uscirono simili al singhiozzo di un motore – è
soffocato nel suo stesso vomito.”
C’era
altro. Ma quell’altro non mi piaceva: aveva portato un
vecchio ubriacone alla morte prima dell’alcool da cui era
dipendente.
“Fanculo
– ringhiò Henry, dopo aver spostato lo sguardo con
irritazione e un sentimento di remoto disgusto – nessuno
eccetto questo vecchio stronzo sembra sapere nulla degli omicidi che ci
sono stati, né della connessione a una setta. Vado a
chiamare quel coglione di Marsh, tu fai in modo che nessuno si avvicini
al cadavere di Daves: era uno attaccato alla bottiglia, ma ho visto
troppe cose per credere che chi ha trovato il cadavere sia morto per
una bevuta di troppo proprio dopo il nostro arrivo.”
Non mi piaceva
per niente l’idea di fermarmi in quella strada, ma capivo il
ragionamento di Allen e non potevo essere più
d’accordo sulla coincidenza nefasta di eventi.
“Stai
attento.” Gli dissi.
“Già.
Anche tu.” Replicò l’altro, sistemandosi
meglio il cappello.
Uscirono due
uomini dal pub. Avevano i capelli neri, i lineamenti morbidi,
più aggraziati di quelli del poliziotto. Si assomigliavano,
in un certo senso, forse era per il taglio degli occhi scuri, forse per
via dei capelli neri e lisci.
Mi guardarono
un istante, ma nemmeno sembrarono notare il cadavere alle mie spalle:
si limitarono giusto a lanciare un’occhiata ad Allen che li
scrutò, sul chi vive. Passarono oltre, allontanandosi dal
vicolo per entrare nella strada principale.
Espirai, per
poi scuotere la testa:
“Ma
che problemi ha questa gente? Un cadavere! C’era fottutissimo
un cadavere e l’hanno totalmente ignorato!”
Henry li
scrutò un istante prima di vederli sparire e
commentò:
“Non
lo so. Secondo me è l’aria di questa
città che fa andare fuori di testa. Ritorno con Marsh per
portare via il cadavere. Se non mi vedi prima che faccia buio prendi la
macchina e ritorna a Boston, avvisa i capi che mandino qualcuno armato
di tommy gun.”
Sembrò
quasi scherzare, ma l’espressione era seria.
“Non
ti abbandono in mano a psicopatici, Henry. E se lo dico io che sono
stato in un manicomio, sono psicopatici proprio.” Replicai
con aria tranquilla, persino scanzonata. Non so come riuscii a cambiare
tono così bene, quando fino a poco fa credevo di aver
sputato il cuore.
Il mio collega
mi guardò un istante. Non ribatté. Scosse le
spalle, si accese una sigaretta e si allontanò, con le
volute di fumo che lambivano le poche luci dei lampioni dalla fiamma
traballante.
Prima che
facesse effettivamente buio, anche se qualche candela si era spenta e
il pub era silenzioso, vidi rientrare Allen, accompagnato da Marsh e da
un suo collega, almeno a giudicare dalla sua divisa. Come lui, anche
l’altro poliziotto aveva lo stesso aspetto grottesco, gli
occhi sporgenti, gonfi, esattamente come le labbra umide di chi
sembrava essersele appena leccate.
“Cosa
abbiamo qui. Il vecchio Daves non ha passato la sbornia, questa
volta.” Commentò Marsh, senza curarsi di apparire
nemmeno lontanamente dispiaciuto.
Illuminò
il cadavere con la torcia. Il collega si limitò a una mezza
risata gracidante, gutturale, però non parlò,
anzi, spostò gli occhi verso di me, per guardarmi senza
battere ciglio.
“Nessuno
di voi sembra particolarmente affranto.” Replicai a
bruciapelo.
Cercai lo
sguardo di Allen che però, adombrato dal suo cappello,
sembrava essere concentrato sul cadavere.
“Un
ubriacone senza soldi e senza casa. Un problema in meno –
liquidò il poliziotto, facendo ondeggiare appena la luce
– avete ottenuto le informazioni che cercavate?”
Mi chiese.
Sentii una nota di provocazione nella voce, o forse ero io a credere
fosse così.
“L’indagine
proseguirà. Verificheremo anche le cause del decesso di
quest’uomo, domani all’obitorio. Possiamo contare
sulla vostra collaborazione?”
Domandai, con
un sorriso tagliente.
Marsh mi
restituì uno sguardo cattivo e sussurrò con voce
roca: “Certo, detective Underwood.”
“Perfetto.”
Ci osservammo
un istante, poi il poliziotto passò oltre e si
chinò, facendo cenno al collega per prendere il cadavere di
Daves. Sembrò che non provassero nulla all’idea
del sudiciume, del tanfo di morte e marcio che proveniva da quel corpo,
forse dall’intero vicolo. Lo trascinarono via sotto il nostro
sguardo, lasciandoci soli.
Li scrutai un
istante, poi mi voltai verso Allen. Era ancora immobile.
“Henry?”
domandai dopo un istante.
Lui
sembrò riprendere vita, anche se non mi rispose. Prese una
nuova sigaretta, la accese con un gesto quasi meccanico e
aspirò diverse boccate di fumo in rapida sequenza, quasi
avesse dovuto bruciarla prima dello scadere di un cronometro invisibile.
“Vai
all’albergo. Domani procediamo con l’autopsia, poi
ce ne andiamo da questa fottutissima città.”
Inarcai un
sopracciglio. Notai il leggero tremore della mano. Allen non aveva mai
tremato, nemmeno quando aveva assistito a casi di magia nera
giù a Dunwich.
“Cos’è
successo? – gli chiesi d’impulso – Marsh
ti ha detto qualcosa, ti…”
Ma lui mi
afferrò per il bavero della giacca e avvicinò il
mio volto al suo, investendomi di una boccata di nicotina e carta
bruciata. Vidi gli occhi: erano occhi di chi era sopravvissuto a
qualcosa, occhi saggi, eppure spaventati.
“Sentimi
bene, Shisui – dilatò appena le narici, per poi
ribadire, quasi dopo un ripensamento – chiudi a chiave la
camera, questa notte.”
“Cos…”
cercai di dire.
“Tu
fallo e basta.”
Portai una
mano avanti, annuendo: “Ok, ok, lo farò, ma tu
dove hai intenzione di andare?”
Mi
lasciò, si sistemò il cappello e
scrollò la cenere, tenendo un istante la sigaretta tra le
dita ingiallite per il contatto con la sigaretta. Me la
puntò contro quando rispose: “Devo capire alcune
cose. Ti busserò alla porta della stanza quando
rientro.”
Mimò
il colpo, quattro volte.
Annuii, con la
bocca riarsa.
Sembrò
soddisfatto, perché tirò fuori dalla tasca
interna del cappotto un involucro un po’ schiacciato che
afferrai all’ultimo, preso in contropiede.
“Che
roba è?”
“Pasticcio
preso al pub: sono vecchie verdure, forse marce. Meglio di quello di
carne, considerato il posto. Ci vediamo tra un po’
all’albergo.”
Lanciò
il mozzicone di sigaretta a terra, calpestandolo un paio di volte. Poi
cominciò a camminare e io lo seguii fino alla fine del
vicolo; sulla strada principale, ci separammo.
Mi diressi
all’albergo, presi la stanza, provai a mangiare un boccone
della pietanza ma non riuscii a dare che qualche morso; non solo quel
tortino sapeva di muffa e di stantio, ma io stesso avevo un nodo che mi
attorcigliava lo stomaco, torturato dalla consapevolezza di qualcosa
che avrei dovuto sapere eppure non riuscivo a ricordare.
Le fitte alla
testa erano riprese, così abbandonai sulla scarna scrivania
polverosa la mia tremenda cena, mi detti una sciacquata sommaria con
l’acqua disponibile nel catino e mi sdraiai sul letto,
vestito di mutande e canotta. L’altro letto poco distante che
avrebbe dovuto ospitare Allen era logicamente vuoto.
Guardai un
istante il cielo attraverso l’unica finestra presente:
c’era quasi luna piena, si intravedeva oltre la coltre di
nubi, e illuminava di una luce innaturale la stanza che puzzava di
chiuso. Udii qualcosa grattare nel legno vecchio, forse erano tarme.
Lanciai
un’occhiata alla porta. Mi alzai di scatto, ricordandomi che
non l’avevo chiusa a chiave. Quando udii la serratura
scattare sospirai brevemente, per poi tornare nel letto. Mi detti
dell’idiota: avevo sempre affrontato le situazioni con piglio
più energico, eppure in quel luogo mi sentivo inquieto, per
quanto con addosso la sensazione che determinate cose stessero tornando
esattamente come volevo. Non saprei spiegarmi diversamente. Forse,
avrei dovuto riprendere a leggere qualche libro, la dialettica era
sempre stata il mio forte.
Mi
addormentai, cullato dal ticchettio di qualcosa che gocciolava.
*
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Parole. Nomi.
Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità
della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti,
gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela
come per mozzarmela.
Provai a
respirare, a parlare, a muovermi, ma ogni mio muscolo era inchiodato al
letto: qualcosa di oscuro e potente mi schiacciava contro il materasso.
Lo avvertii bagnato, fradicio di acqua gelida, ne percepii
l’odore palustre, di muffa che divorava i mattoni degli
scantinati e penetrava fin nelle ossa, divorandole.
Poi, udii un
ticchettio. Altra acqua. Più veloce, sempre più
veloce. Scorreva, rapida, continua, un flusso veloce quanto la litania
di parole oscure.
Allora,
riuscii a risollevarmi con il torso. Avvertii quasi la pelle della
schiena strapparsi e annaspai, rantolando, come un vecchio che si
aggrappa all’ultima boccata di ossigeno per vivere
ingordamente un giorno in più.
La stanza era
divorata dall’oscurità, eccetto per il fascio
lunare azzurrognolo che tagliava il pavimento, lambendo le assi divelte
e rigonfie d’umidità.
Lanciai
un’occhiata al letto di fianco al mio. Allen. Non era ancora
tornato. Non avevo idea dell’ora, c’era solo la
luna alta nel cielo e nemmeno una stella oltre le nubi grigie.
Mi portai una
mano al petto, come per impedire al cuore che scalciava feroce di
schizzarmi fuori dalla bocca. La sentii asciutta, sembrava mi avessero
tolto la saliva, prosciugandola.
Quando il
cuore si placò, mi coprii un istante il volto, per poi
scuotermi la chioma dei miei capelli già mossi.
Fu allora, in
quel preciso istante di silenzio assoluto, che udii l’acqua,
qualcosa, perché non ero certo fosse acqua, riprendere a
ticchettare. Le orecchie fischiarono, nel teso tentativo di mettere in
allerta tutti i miei sensi, spinto da un istinto primordiale di
sopravvivenza.
Girai il volto
di scatto.
La finestra.
C’era
qualcosa di lucente che stava colando, lento, oltre gli infissi e il
davanzale, picchettando a terra in gocce rese più luminose
dalla luce solare. Ritrassi le gambe pronto a scattare. Non sapevo
nemmeno dove: se verso la finestra, per bloccare il flusso, o la porta,
ricordandomi di averla maledettamente chiusa a chiave.
La finestra si
spalancò. All’improvviso.
Sussultai,
artigliando le mani al letto, senza riuscire a sollevarmi. Non
entrò una folata di vento, nulla, ma l’acqua
riprese a gocciolare più veloce, con un ritmo persino
incalzante.
Un’ombra.
Un’ombra
sembrò strisciare attraverso l’apertura, lenta a
differenza dell’acqua grondante; alle sue spalle la luce
lunare mi impediva di distinguerne il profilo.
Cerca di
rimettermi in piedi, per trovare a tentoni i pantaloni abbandonati poco
più in là e la pistola. Riuscii ad afferrarla e
con un movimento rapido la puntai contro l’essere che
gocciolava a sua volta acqua, con la schiena leggermente curva e una
massa di qualcosa di pesante che pareva costringerlo a chinare il capo,
qualcosa pregno di ulteriore acqua. Mi arrivò alle narici un
odore di mare, di alghe e di salsedine, pareva quasi fresco,
più salubre rispetto all’odore palustre di
Innsmouth, ma ugualmente opprimente.
Non parlai,
cercai di controllare il tremore della mano, perché quando
la creatura prese ad avanzare con passo strascicato tolsi la sicura in
uno scatto secco e sparai. Riecheggiò un colpo, le orecchie
mi fischiarono, eppure riuscii lo stesso a udire il tintinnio del
guscio del proiettile che cadeva a terra.
L’odore
di polvere da sparo per un attimo impregnò l’aria,
ma venne assorbito in fretta dagli umori che infettavano la stanza e
tutta quella dannatissima città.
Non mi resi
conto nemmeno di aver smesso di respirare.
Istanti. Fu
questione di istanti affinché la creatura, immobilizzata dal
colpo, sollevasse gli avambracci. Riuscii a distinguerli e rimasi
sconvolto quando realizzai che c’erano delle scaglie,
infinite e minuscole scaglie che rilucevano sotto i raggi della luna.
Sembrò
portarsi quelle che forse erano mani, palmate, al petto.
Mosse un
passo, poi un altro.
“Indietro!
Dannazione, stai indietro!” esclamai, serrando la presa
sull’arma.
A quel punto,
l’essere si fermò di nuovo. Da quella posizione la
luna lo illuminò meglio e distinsi i contorni di quello che
sembrava un essere umano. Non capivo, avvertivo la testa leggera,
confusa, l’emicrania era sparita, il cuore batteva veloce,
tanto veloce da rimbombarmi nella scatola cranica, quasi fosse stato
lì.
La creatura
sollevò la testa: il manto che la ricopriva, simile a
capelli lunghi, lisci, gocciolanti acqua, ricordava delle alghe, una
massa fitta di alghe scure e pregne d’acqua. Con quel
movimento, rivelò il volto.
Annaspai, in
cerca d’aria, quando lo riconobbi.
“Tu…
tu sei il ragazzo morto nello scantinato.”
Non
riuscii a sparare, il mio corpo intero era come paralizzato.
Gli occhi mi
scrutarono, la pelle ricoperta da scaglie sembrò rilucere
maggiormente, come bagnata. Le mani palmate, dalle dita aggraziate e
diafane, tornarono a posarsi sui fianchi. Gli occhi profondi avevano
ciglia che ricordavano infiniti coralli dalle sfumature bluastre. Era
nudo, bellissimo e letale.
Quando
parlò, attraverso le labbra sottili dal profilo violaceo,
sussurrò parole che ricordarono il suono della risacca del
mare intrappolata in una conchiglia.
“Itachi
Uchiha. Attendevo il tuo arrivo, Shisui.”
Sproloqui
di una zucca
Bene, che ne dite di
questa storia? In prima persona, perché secondo me
è più immersiva dato il genere e la tipologia di
cose che volevo trasmettere; poi dal punto di vista di Shisui, quindi
un esperimento particolare, in quanto rimanere fedeli al suo
pseudo-carattere (pseudo, dato che Kishimoto l'ha giusto abbozzato)
comportava un personaggio abbastanza ironico che ha creato un contrasto
per me affascinante rispetto alle atmosfere cupe.
Ci saranno in totale tre capitoli con vari cambi di scenario, spero che
la narrazione possa acchiappare, per quanto particolare forse; per gli
amanti di Lovecraft, mi auguro possa richiamare almeno un pochino certe
atmosfere alle quali ho voluto rendere omaggio, pur con tutte le
variazioni del caso.
A seguire un po' di info:
l'intera storia è ambientata nel Massachusset, appunto, che
ha come capitale Boston. Stato molto usato da Lovecraft nei suoi
racconti e sede di città inventate quali Innsmouth (popolata
anche da sorta di uomini-pesce fedeli a Dagon), Arkham (da qui il
riferimento al manicomio in cui ha soggiornato Shisui, oppure la
Miskatonic University) o Dunwich (per i casi di magia nera menzionati
da Shisui facevo riferimento a l'Orrore di Dunwich).
Il periodo storico è volutamente non chiaro: volevo dare
cenni di un'ambientazione anni '30 senza però esserne
incatenata, proprio per poterla rendere concreta anche ai giorni
nostri.
Per i nomi: per Shisui è voluto il cognome Underwood,
c'è una ragione ben precisa; Zodak Marsh prende il nome da
Zodak Allen, il marinaio ubriaco che Nella Maschera di Innsmouth da
informazioni al protagonista - ubriaco che io ho omaggiato nella figura
di Daves - lo stesso Allen da il cognome al mio detective Henry Allen,
tra l'altro tantissimi personaggi in Lovecraft hanno il nome Henry
(basti pensare a Henry Armitage, tanto per dirne uno).
La frase Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu
R'lyeh wgah'nagl fhtagn si può tradurre
generalmente come 'In his house at R'lyeh, dead Cthulhu waits dreaming'
(Nella sua dimora di R'lyeh,
il morto Cthulhu
attende sognando). Litania usata nella mitologia di Lovecraft per
riferirsi alla città sommersa di R'lyeh dove appunto dimora il
Grande Antico Cthulhu. Questa
città sarà molto importante, non dimenticatevela
XD
Bene, direi di aver
detto tutto. Al prossimo capitolo :3
Fanart:
http://intheendlessbluewine.tumblr.com/post/159407749759/something-about-tragic-boys-and-drowning-yourself
|