ATTRAVERSO L’OSCURITA’
DELLO
SPECCHIO
Anche questa notte ho dormito pochissimo e non ho bisogno della sveglia
per alzarmi; sto fissando il soffitto da quasi un’ora, scendo
dal letto per andare a farmi la doccia, cammino a piedi nudi
perché anche oggi ho dolore ai piedi, mi chiudo nel box e
mentre l’acqua mi rinfresca, perdo la cognizione del tempo.
Infilo l’accappatoio e mi accorgo che sono già
passate le otto ma io sono ancora qui a guardarmi nello specchio; sono
ancora qui a chiedermi se le scelte che ho fatto negli ultimi due anni
sono frutto della mia mente, o semplici atti dettati da una morale
corrotta appresa nella mia famiglia. Quanti sono? Ogni giorno lo
dimentico. La mia mente però è così
assurdamente ambigua che mi cancella il ricordo della notte ma, allo
stesso tempo, mi costringe a lasciare tracce precise cui attingere per
ricordare il numero. La scatola è proprio sul lavandino del
bagno in bella vista e devo solo aprirla; lo faccio con la
tranquillità di chi non ha niente da nascondere, inizio a
contarne il contenuto, più si fa alto il numero e
più sento le mie labbra sollevarsi per fare un grosso
sorriso, richiudo la scatola con la massima cura e la ripongo
nuovamente sul lavabo.
Mi vesto veloce senza badare troppo al vestiario che indosso con
l’unica eccezione della cravatta obbligatoria, esco dalla
porta di casa e, come sempre, la mia vicina è la prima
persona che incontro. Lei mi sorride sempre ed io contraccambio il suo
affetto, seppur senza parlare, augurandole con il cuore una buona
giornata. Donna fantastica la signora Mildred, una persona
d’altri tempi, sempre dedita al marito, mai una parola fuori
posto, mai un gesto di stizza neanche verso i bambini che ogni
pomeriggio giocano a pallone sotto le sue finestre. Lei assomiglia,
seppur molto più giovane, alla nonna che ho perso quando ero
ancora troppo piccolo perché potessi imparare a vivere in
questo mondo fatto di lupi famelici e pecore destinate al macello.
***
Arrivo sul posto di lavoro con leggero ritardo, mi affretto a sistemare
la scrivania e mi siedo nel mio scomparto, dove svolgo un lavoro tanto
noioso da farmi quasi addormentare. Accendo il computer e inizio a fare
le solite ricerche di Marketing imposte dalla mia azienda; senza che
possa dare un parere su ciò che è davvero
importante come informazione e senza che possa discuterne con il mio
capo settore. Proprio lui, appena arrivato, appoggia le mani sulla mia
scrivania e, mentre lo guardo, inizia a sbraitare qualcosa alzando la
voce per farsi sentire da tutti i miei colleghi e per dimostrare di
avere in pugno ogni situazione nonostante sia un completo fallimento in
questo lavoro. Io continuo a guardarlo ma non sento la sua voce; dentro
di me ho soltanto il desiderio di conficcargli la mia matita
nell’occhio ma mi trattengo perché qui sarei allo
scoperto. Lui si allontana tronfio ma a me non importa neanche cosa
abbia detto; sono talmente focalizzato sul modo con cui ripagarlo della
sua gratuita arroganza che inizio forsennatamente a scrivere, su un
foglio, delle singole parole che da sole non hanno nessun senso.
A distogliere la mia mente da questo impulso è la voce di un
mio collega che, nel suo momento di pausa, legge il giornale ad alta
voce. Ci racconta dell’ennesimo omicidio perpetrato nella
nostra città e sul quale la polizia, come per tutti gli
altri, brancola nel buio perché il Modus Operandi utilizzato
dall’assassino è diverso per ogni sua vittima,
anche se sono concordi nel ritenere che si tratti di un unico Serial
Killer poiché hanno riscontrato un elemento comune che,
ovviamente, non si può divulgare alla stampa. Io sono
scosso; mi domando chi può essere questa persona che
dà forma alle sue fantasie attraverso una serie di omicidi,
ma poi guardo il foglio su cui stavo scrivendo e noto che tra tutte le
parole che ho scarabocchiato quella evidenziata è
“uccidi.” La testa diventa pesante, i miei occhi si
chiudono senza comando e come in un film rivedo quell’uomo
ben vestito mentre entra nella sua macchina, mentre si slaccia la
cravatta perché fatica a respirare, mentre, esanime, crolla
sul volante senza poter più fiatare. Vedo le mie mani e ho
ancora stretto tra le dita la boccetta di veleno che ho usato per
prendermi l’anima di questa persona.
«Ehi, Philip, tutto bene? Sembrava che stessi per
svenire!»
«Sì grazie, solo un po’ di
stanchezza,» rispondo al collega che mi sta scuotendo le
spalle, «questa notte non ho chiuso occhio».
Lui sorride e torna al suo posto; io metto in tasca il foglio su cui
scrivevo e ricomincio a fare il mio lavoro.
***
Nella pausa pranzo salgo fino al tetto del palazzo; non mi piace
ciò che cucinano in mensa e preferisco stare da solo mentre
mangio un’insalata senza condimento che equilibra la linea
del mio corpo. Sento un rumore sordo nelle mie orecchie ma non
c’è niente intorno a me che può causare
questo fastidio così chiudo gli occhi e, ancora una volta,
rivedo qualcosa del recente passato, qualcosa che la mia mente nasconde
ma che poi ricorda. Un uomo così diligente ma allo stesso
tempo incoerente, una persona che mostra il suo lato negativo solo a
tratti per poi manifestarlo tutte le notti. Lo vedo mentre penzola dal
ponte; il suo collo stretto nella morsa di un cappio che avevo
già predisposto e preparato in quel punto preciso dove, con
una banale scusa, lo avevo portato senza che potesse immaginare che
fosse la sua ultima passeggiata. Sorrido pensando che erano bastati un
gioco e un piccolo stimolo per toglierli quella sporca vita che
conduceva alla luce della Luna e, mentre rido sonoramente, non penso
minimamente al pentimento perché lui era come gli altri.
Estraggo dalla tasca il foglio; ora le singole parole che avevo scritto
iniziano a formare delle frasi dal significato preciso e comprendo che
non sono destinate al mio capo sezione, che è solo un
arrogante borioso, ma a una prossima vittima che compie le stesse
nefandezze che faceva quell’altro.
Ho ancora del tempo libero prima di tornare al lavoro così
scendo con l’ascensore al piano terra e m’incammino
verso l’uscita del palazzo per fare una passeggiata
considerando che siamo in primavera ma, per fortuna, non piove. Osservo
ogni particolare di tutte le persone che mi passano vicino: guardo
l’aspetto, il colore degli occhi, le mani e gli atteggiamenti
che hanno verso le persone con cui stanno parlando e, mentre continuo
questa specie di selezione, rallento il mio passo perché
vedo una persona che conosco. Quest’uomo, a
quest’ora, non ha motivo per essere seduto in questa
caffetteria e certamente non dovrebbe tenere le mani, in modo
più che affettuoso, della giovane ragazza che gli
è seduta affianco. Sicuro di non essere stato visto, mi
siedo su una panchina non molto distante da loro, continuo a osservare
ciò che fanno e i miei occhi iniziano a lacrimare quando i
due si alzano e si salutano baciandosi appassionatamente come farebbero
dei giovani innamorati. Perché lui? Ho quasi il singhiozzo
pensando alla signora Mildred che ogni giorno aspetta il marito
pensando che stia lavorando mentre lui, invece, la tradisce con una
ragazza che potrebbe essere la propria figlia. Devo chiudere gli occhi,
non voglio più vedere questa scena ma, adesso, iniziano a
scorrere nella mente scene di un passato remoto che ricordo ancora per
piccoli frammenti; rivedo gli occhi spalancati e privi di espressione
di mia madre, risento sulla mia pelle la rabbia che mio padre sfogava
violentemente, sia su di lei, sia su di me, e infine, assisto al
funerale di qualcuno senza provare nessun tipo di sentimento. Questi
spezzoni del passato mi turbano, riapro gli occhi costringendomi, quasi
fisicamente, a farlo e improvvisamente tornano la calma, il distacco e
la fredda logica. Lui è da punire ma non posso essere io il
giudice perché mi conosce, perché non avrei i
mezzi necessari per eseguire la condanna se non usando delle armi che
ne sfregerebbero il corpo o che, addirittura, gli farebbero perdere
l’anima all’istante. Anche lui deve soffrire!
***
Ho dormito per parecchie ore senza sentire il morso della fame
nonostante il pomeriggio lavorativo fosse stato impegnativo, ma ora mi
alzo dal letto e apro lo sportello dell’armadio in cui
c’è quello che mi occorre per la notte e controllo
che tutto sia in ordine e ben piegato, quindi raggiungo il soggiorno
dove c’è la mia scrivania su cui sono posti in
ordine una penna stilografica e un quaderno aperto nel quale avevo
inserito in bella vista il foglio che ho scarabocchiato questa mattina.
Mi siedo e ricopio quella specie di appunti sul quaderno ma lo faccio
in modo completamente diverso perché aggiungo quello che, in
questo momento di fredda lucidità, mi suggerisce la mente.
Il progetto è pronto; apro il cassetto della scrivania e
prendo una piccola agendina sulla quale, in prima pagina, ci sono
dettagliate le trappole che ho nascosto in bella vista e che sono
disseminate in tutta la città ma, anche quelle che ho
già utilizzato, sottolineate in rosso, dei luoghi in cui ho
completato i miei piani degnamente e che, sparsi senza una logica
precisa, non danno modo di creare una mappa, seppur poco dettagliata,
dei miei spostamenti. Rileggo ciò che ho scritto
ripassandone con cura i dettagli: andrò in quel locale e mi
limiterò ad attendere che la preda cada nella mia rete
quindi, con la scusa della presenza di molte persone, farò
in modo che mi segua all’esterno per parlare senza essere
disturbati dal chiacchiericcio chiassoso della gente e in seguito lo
intratterrò con le solite frasi, così puerili,
che lo faranno cadere in trappola senza che se ne accorga. Al momento
propizio mi allontanerò con una scusa futile ma, conscio che
mi seguirà, camminerò lentamente in modo che mi
raggiunga alla scuola abbandonata dove compirò la seconda
parte del progetto sfruttando la sua poca lucidità causata
dall’assunzione di alcolici e di una dose, non letale, di un
narcotico che gli avrò versato, in precedenza, in uno dei
cocktail. Si chiederà perché sono andato in quel
luogo, ma non risponderò, aprirò
l’uscio saltando il buco che è sul pavimento
quindi attenderò che lui entri dalla porta per cadere in
quella piccola voragine creata da dei teppisti per raggiungere la
palestra sotterranea nel caso in cui la polizia li stesse inseguendo.
La caduta verso il basso non è profonda e non gli
causerà danni ingenti ma lo costringerà a
chiedere aiuto per potersi alzare in piedi; in quel momento mi
appoggerò sul bordo della buca e mi calerò
giù mettendomi alle sue spalle, non per aiutarlo, ma per
compiere il mio atto finale, perché indosserò i
guanti, estrarrò la busta di plastica che ho in tasca e
gliela metterò sul suo viso in modo che gli manchi
l’aria lentamente, ma inesorabilmente, in modo da sentire il
suo ultimo respiro. Dovrò, poi, sistemare la scena
cancellando ogni mia traccia ma, allo stesso tempo, dovrò
fare in modo che qualcuno lo trovi in poche ore e, prima di andarmene,
mi prenderò il mio regalo dal suo cadavere così
da tornare a casa soddisfatto di ciò che ho fatto.
***
In questo bar, posto in una delle zone più squallide di
questa fetida città, non ci sono mai entrato, anche se ci
passavo davanti tutti i giorni andando a scuola. Lentamente bevo un
singolo cocktail perché devo rimanere lucido e mi rapporto
con le persone presenti osservandole: i ragazzi troppo giovani li
liquido all’istante, gli uomini in gruppo portano
contraddizioni così li evito anche con lo sguardo, agli
uomini soli che non hanno il giusto requisito, non permetto
più di una frase. Come immaginavo non ho dovuto attendere
troppo per avere la mia preda.
«Ciao, mi chiamo Alan», dice quest’uomo
mentre sta per sedersi accanto a me.
«Se mi offri da bere, puoi sederti oppure vai via»,
gli rispondo con tono deciso mentre gli mostro il mio bicchiere vuoto.
Lui parla ma io non ascolto tutte le cose che mi racconta
perché non m’interessa di cosa si occupa o come
passa il suo tempo libero; lo faccio bere molto versandogli nel
bicchiere il narcotico quando è distratto, io mantengo il
bicchiere quasi sempre pieno in modo da essere sobrio e,
così facendo, non devo attendere molto per chiedergli di
uscire dal locale. All’esterno non ho bisogno di inventare
scuse perché la mia preda è già
pronta.
«Alan, ho visto che sei sposato, direi di chiudere qui ogni
discorso», gli dico in tono secco mentre inizio a
incamminarmi senza offrirgli l’opportunità di
rispondere. Lui si sarà accorto che il segno
dell’anello sulla mano sinistra è troppo marcato
per non essere visto ma non gli è importato
poiché sento i suoi passi dietro di me.
Tutto procede come da programma, raggiungo la scuola, salto la buca e
non attendo troppo tempo prima che lui ci cada dentro, però
qualcosa non sta funzionando perché non sento la sua voce.
Temendo che si sia fatto troppo male scendo nella buca e con sorpresa
lo trovo sdraiato su una pila di materassini.
«Per fortuna che c’è questa
protezione», mi dice sorridendo mentre io sono paralizzato
perché il mio perfetto piano si è sgretolato
sotto i miei occhi. Penso ai materassini e capisco che anche quei
delinquenti rischiano di farsi male mentre fuggono e che, per
proteggersi, hanno ideato questa specie di salvagente. Ora che fare?
Ora sono io in trappola perché non ci metterà
molto a scoprire il mio segreto. Senza parlare seguo il corridoio della
palestra mentre lui mi segue facendo tante domande alle quali non
rispondo e, raggiunta l’uscita, facendo mente locale e
mantenendo il sangue freddo ricordo che c’è una
piccola fontana mai svuotata nella quale c’è acqua
stagnante. Raccolgo una piccola mattonella nascondendola alla sua vista
e gli dico ridendo in modo che mi segua senza fare altre domande:
«Ho le mani tutte sporche e lì
c’è una fontana. Anche tu sarai
impolverato.»
Vicini alla vasca attendo che lui si inginocchi per ripulirsi il viso
con entrambe le mani e, contrariamente a ciò che faccio
sempre, lo colpisco alla nuca con la mattonella in modo che perda i
sensi senza che subisca una ferita. L’uomo finisce con la
faccia dentro l’acqua rimanendo in ginocchio; io sono lesto a
spingergliela in profondità e, nonostante si sia ripreso,
non gli do modo di rialzarsi. Attendo qualche minuto prima di lasciarlo
andare così da essere certo che la sua anima sia svanita
inghiottita dall’acqua, ma c’è qualcosa
che m’impedisce di allontanarmi, c’è
qualcosa che la mia mente ricorda facendomi rivivere le emozioni
provate in quel momento. Rivedo mio padre ubriaco che rientra a casa
tardi e litiga con mia madre che lo sta accusando di avere delle amanti
e lui, per risposta, che la colpisce con uno schiaffo così
forte da farla cadere a terra e, non contento, colpisce anche me, reo
di essere ancora sveglio e presente a quella scena. Lui, noncurante di
ciò che ha fatto, si dirige in bagno per immergersi nella
vasca; mia madre attende che cessi lo scroscio d’acqua e lo
raggiunge impugnando il grosso mattarello, che usa per fare la pasta in
casa, e lo colpisce alla testa tramortendolo. Lei, con uno
sguardo perso nel vuoto, butta il corpo di mio padre nella vasca
mettendogli la faccia verso il basso quindi entra anche lei
nell’acqua per stargli sopra in modo che non si possa
rialzare più. Io non piango ma, anzi, mi guardavo nello
specchio sorridendo. Mi riprendo da questi ricordi; senza aspettare
oltre prendo il mio dono da quell’uomo, m’incammino
veloce verso la mia macchina e, al sicuro da possibili sguardi
indiscreti, torno alla mia abitazione.
***
Rientro in casa più tardi del previsto; i piedi mi fanno
male così tolgo le scarpe, e senza ciabatte, entro in bagno
dirigendomi verso lo specchio dove, ad aspettarmi,
c’è come ogni notte mia madre.
«Anche oggi hai fatto il bravo bambino?»
«Sì mamma. Perdonami se ho fatto tardi.»
«Sei stufo di prenderti cura di me?»
«Assolutamente no. Sono solo più stanco
perché questa notte ho dovuto rivedere il mio progetto in
corso d’opera e non è facile cambiare programma in
fretta e con la lucidità necessaria per non fare
errori.»
«Sei riuscito a portarmi il regalo?»
«Certamente mamma, non dimentico mai il dono che desideri
tanto.»
«Il mio caro bambino che mi fa sempre regali. Adesso vai a
riposare tranquillo», e mentre tolgo la parrucca, la mia
mamma scompare dallo specchio. Prendo dalla borsetta il regalo per la
mamma, faccio scivolare dal corpo il corto vestito da donna, che mi fa
solo da travestimento per attirare gli uomini che sono talmente
ossessionati dalle giovani donne disponibili tanto da tradire la
propria moglie, e infine apro la scatola posta sul lavandino, dove
metto il dono per mia madre; l’anello nuziale di
quell’uomo, di cui ho già dimenticato il nome e
del quale sentirò parlare alla televisione, si mescola
insieme a tutti gli altri. Ricordo cosa mi ha detto prima la mamma e mi
corico sul letto, senza fare la doccia, svestito e sopra le coperte per
il grande caldo che c’è in questi giorni; sistemo
il cuscino in modo che la mia guancia sinistra stia comoda come quando
dormivo nel lettone con mamma mentre lei piangeva, sospiro felice di
ciò che ho fatto e le rivolgo le mie ultime parole prima di
addormentarmi.
«Cara mamma, dovunque tu sia lassù in cielo, puoi
riposare in pace e senza pensieri perché tuo figlio ti ha
protetto anche questa notte; non devi più preoccuparti di
quel marito che ti tradiva, di quell’uomo che ti picchiava,
di quella persona che non ti rispettava come donna e madre,
perché la sua anima si è dissolta nella
sofferenza mentre si poneva la domanda su cosa sarebbe successo se
fosse stato fedele. Non temere: ogni volta che tornerà, io
ucciderò ancora mio padre.»
Link pagina contest:
Il
mio personale modus operandi
|