Behind
a shadow
[Don’t you shut your eyes
Don’t hide your heart behind a shadow
‘Cause you can count on me as long as I can breathe you
should know
I’ll carry you through the night, through the storm
Give you love only love in return]
L'oscurità avvolgeva tutto, in quella notte fredda e
silenziosa. Il tempo era congelato, perso in uno spazio senza certezze,
in bilico tra illusione e realtà.
All'improvviso,
il silenzio interruppe ogni dialogo, ogni frase di circostanza, ogni
spiegazione incompiuta. Le preoccupazioni, la paura e ogni minimo senso
di sollievo erano da affrontare individualmente; i cuori battevano
furiosi, consci di un pericolo che erano riusciti a evitare.
La prima a non proferire parola, dopo quel salvataggio dell'ultimo
secondo, era stata lei.
Non
riusciva a capire a cosa fosse dovuto quel malessere profondo che
causava le lacrime trattenute a stento negli occhi fragili.
Non
sapeva se fosse per il proiettile che le scarniva la pelle all'altezza
dell'anca, per quello che le attraversava la spalla destra provocandole
fitte tremendamente puntuali o per il bruciore sullo zigomo
insanguinato.
No, probabilmente era qualcos'altro. Qualcosa che le aveva scavato
così tanto a fondo, che non avrebbe mai potuto credere
potesse accadere sul serio.
Spogliata
di nuovo da quell'uomo sadico, stavolta di ogni dignità.
Privata della libertà, del respiro, intrappolata in quegli
occhi da assassino che, per l'ennesima volta, avevano scrutato ogni suo
centimetro di pelle.
Uccidimi
subito,
continuava a pensare in quegli attimi, fissandolo. Uccidimi, muoviti.
Non
voleva pensare a quella voce che la stuzzicava, che la umiliava. Lo
squallore del suo ghigno mentre le sparava, evitando accuratamente di
infliggerle colpi letali.
Già,
perché lui - al
contrario di ciò che la ragazza aveva mentalmente implorato
- stava dimostrando la sua decisione di farla fuori lentamente, in
un'agonia lunga e straziante.
La punizione per averlo tradito ed essersene andata la stava sfogando
totalmente in quei lunghi minuti.
Shiho lo aveva guardato mentre la neve le ghiacciava il corpo e si
tingeva del rosso del suo sangue. Tremava, ma non se ne rendeva conto.
Era certa di stare per morire, perché Shinichi non sarebbe
mai arrivato in tempo per salvarla.
Ma
poi, prima dell'ultimo colpo - quello che avrebbe posto fine a tutto -
ne era arrivato un altro, di gran lunga più forte. Il
peggiore in assoluto, quello che le aveva fatto davvero male.
"La
mandiamo a fare un po' di compagnia a sua sorella maggiore".
Erano solo parole, ma la ragazza sentì il dolore
più forte fino a quel momento lungo tutto il corpo e non le
importò più del dito premuto su quel grilletto,
né la canna della pistola contro sé,
perché la persona che le stava davanti - e della quale si
era fidata, una volta, e che conosceva tutto di lei - era un assassino
spietato e senza cuore.
Lo sapeva da sempre, ma si era fatta spogliare di tutto, in passato.
Era un libro aperto, per Gin.
Lo fissava, scrutava quegli occhi e, nei suoi, vedeva se stessa. La
scienziata ambiziosa e sfrontata di un tempo, quella capace di farlo
stare al suo posto con una frase.
Quella
che dedicava la sua vita alla creazione di un veleno e che digitava,
decisa e leggera, i tasti del telefono per ogni nuova scoperta.
Poi,
tutto era trascorso troppo velocemente. Shinichi era arrivato,
portandola via da quell'inferno. E adesso, in quel maggiolino
silenzioso e angosciato, Ai non osava proferire parola.
Fu
Agasa a prenderla in braccio, mentre l'apparente bambino gli faceva
strada verso il laboratorio. Bastò il minimo movimento ad
acuirle il dolore, che si tramutò in una stilettata dritta
al torace. Gemette appena, poiché non riuscì a
trattenerla del tutto.
«Forza,
Ai. Siamo a casa».
La voce del dottore le infondeva un vago senso di sollievo che si
spense subito dopo. Percepì all'improvviso qualcosa di
morbido sotto di sé e solo dopo qualche istante si rese
conto di trovarsi sul proprio letto. La vista sfocata le dava fastidio
e fu costretta a sbattere più volte le palpebre nel
tentativo di delineare i contorni di ciò che le stava
intorno.
Percepì
parlare appena i due attorno a lei; confabulavano qualcosa, tuttavia ne
capiva poco e niente.
«Non
sarebbe meglio portarla all'ospedale? Bisognerebbe estrarre i
proiettili prima che sia troppo tardi... ».
«No,
professore, chiederebbero spiegazioni. Segua le mie indicazioni e
andrà tutto bene».
La
voce apprensiva di Agasa, poi quella più determinata di
Shinichi.
Ai
urlò ancora quando la fitta all'anca la travolse del tutto e
vi poggiò una mano istintivamente, senza pensare al sangue
che macchiava le lenzuola e la coperta.
Dopodiché,
decise di lasciarsi andare a quella confusione, al dolore che si
acutizzava ogni volta che respirava più profondamente o
quando compiva il minimo movimento.
Percepì
una mano sulla testa, le dita sottili tra i capelli. L'espressione
innocente di Shinichi la stava fissando, tradendo la sua sicurezza dal
sudore sulla fronte e dallo sguardo teso.
«Tranquilla,
Ai. Ci siamo quasi» lo sentì mormorarle, mentre
lei cercava di trattenere l'ennesimo gemito. Fu quel tono, quel
contatto, a convincerla a chiudere gli occhi e ad assecondare quella
sensazione che lottava per strapparla alla realtà.
Quando aprì lentamente gli occhi, si sorprese di essere sana
e salva a casa del dottore, come se le immagini e i ricordi sbiaditi
fossero stati solo un sogno.
«Come
hanno fatto a prevedere le mosse di Ai?»
«Non
lo so. È una delle cose che sto cercando di capire, anche
se... ».
La
voce sottile di Shinichi si interruppe subito dopo, quando lei
sollevò appena il busto. Quest'ultima si accorse del cerotto
che aveva sulla guancia e delle macchie rosse sulle lenzuola candide,
mentre le fasciature contenevano le ferite sul corpo. La felpa blu di
Shinichi la teneva al caldo e al riparo, mentre provava ad alzarsi in
piedi.
«Rimani
sdraiata, sei ancora debole» le consigliò con
apprensione Agasa, studiandola. «Ti vado a preparare una
tisana, ti aiuterà a ristabilirti».
«D'accordo,
grazie».
Parlare
costituiva una fatica immane; il filo di voce che le uscì
dalle labbra ne era la prova.
Rimase
sdraiata, voltandosi appena sul cuscino mentre il bambino che le aveva
salvato la vita le si avvicinava, le mani in tasca.
«Come stai? Tutto bene?».
Shinichi
notò lo sguardo perso dell'amica; gli occhi lucidi che
nascondevano chissà quali emozioni, forse più
grandi dell'incendio divampato all'hotel Haido City.
«Sai...
avrei dato per scontato la mia morte» gli rispose, ignorando
la sua domanda. Chiuse un istante le palpebre, percependo il fastidio
nei muscoli. «Cosa ti ha spinto a correre in mio aiuto? Non
ci metteranno più di qualche giorno per trovarmi».
«Che
domande» le rispose brusco Shinichi, sbuffando.
«Non ti avrei di certo lasciata lì. Non
preoccuparti, non scopriranno chi sei».
La ramata lo osservò qualche attimo, immobile, perdendosi
nei suoi occhi blu. Si accorse che lo sguardo di lui non aveva mai
smesso di indagare, di scavarle nel profondo.
«Forse
sarebbe stato meglio. Almeno non avrei più messo in pericolo
tutti voi» continuò poi lei, facendo forza sui
gomiti per drizzare la schiena contro il cuscino. «Non
è questo il mio posto, sai che sono come loro. Faranno di
tutto per arrivare a me».
Shinichi
accennò un sorriso, trattenendo a stento la rabbia verso
quegli uomini che avevano distrutto la vita a entrambi e che, per un
secondo, gli avevano fatto temere di aver perso la sua compagna di
viaggio, l'amica più fidata che avesse potuto affiancarlo in
quella lotta impegnativa e rischiosa.
Dopodiché, i suoi pensieri si interruppero a causa di un
altro gemito di lei nell'esatto momento in cui la vide spostarsi sul
materasso.
«Tu
non sei come loro. Non sei un'assassina, toglitelo dalla
testa».
«Una
volta non la pensavi così» gli
rinfacciò, ansimando appena per il bruciore delle ferite
sulla pelle. «Comunque, questo non è il mio posto
e me ne andrò il prima possibile. Sono più simile
a loro di quanto tu possa pensare».
Shinichi sgranò gli occhi, osservandola in silenzio. Poi
scosse la testa, mentre il sorriso tornava sul suo volto.
«Neanche
per idea, non ti permetterò di andare via. Qui sei al
sicuro» le rispose, con tutta la calma del mondo.
«Qui c'è qualcuno che ti vuole bene».
Ai
non rispose, tranquillizzandosi nell'udire quelle parole. Tuttavia,
continuava a essere preda di quella verità che nascondeva a
tutti e che ogni tanto scalpitava dentro sé, per venire
fuori. Si sentiva in colpa ogni volta che ci pensava, perché
aveva permesso troppo a Gin e a quel farmaco tramite il quale aveva
ucciso molte persone. Non l'avevano mai usata,
si era fatta
usare, e il
ricordo di ciò che era Sherry - prima di essere Ai Haibara -
era un peso importante da sostenere da sola.
«È meglio essere odiati per ciò che si
è che essere amati per ciò che non si
è» sussurrò lei appena, mentre il
detective le dava le spalle. Lo vide bloccarsi e voltarsi lievemente,
prima di lanciarle l'ultima occhiata convinta. «E io non sono
quello che credi tu».
«Non
dire certe cose. Sono un detective, capisco le persone. E tu sei senza
dubbio migliore di ciò che credi» le disse
Shinichi indifferente, prima di riprendere a camminare verso il salone.
«Adesso stai tranquilla e riposati».
E
Ai non potè fare a meno di sorridere, perché
nonostante tutto, nonostante la sofferenza dell'anima e del corpo,
c'era ancora qualcuno in grado di scaldarle il cuore e di farla sentire
al sicuro.
*********
Note dell'autrice
Ed eccomi
con una nuova oneshot! È un missing moment ambientato - come
avrete capito - subito dopo la fine dell'episodio "Incontro
indesiderato -, attraverso il quale ho cercato di descrivere una
situazione tra Conan e Ai, un po' lasciata in sospeso. Ho sempre
interpretato quella scena, quando lei è a terra ferita, come
un qualcosa che va oltre il dolore fisico, perché lei ne
esce davvero giù in tutto, come se stesse per piangere da un
secondo all'altro (anche dopo il salvataggio). Ed ecco qui il
risultato! Senz'altro, il merito va alla citazione che ho inserito per
il contest al quale partecipo, "Una citazione, una storia" di
Elettra.C. Grazie a chiunque abbia voglia di leggere e lasciare una
recensione.
Ah, la citazione
iniziale, invece, è tratta dalla canzone "No hero" di Elisa.
Alla prossima,
Ile
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